Da alcuni anni, anzi decenni, è
in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto
mondiale”. I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti
della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra
economica e delle guerre di religione – contro
i popoli, gli stati sovrani, le comunità locali
che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai
dettami dell’impero globale. Non ci sarebbe posto nel mondo globalizzato
per i popoli e le comunità che praticano la sovranità nei loro territori,
che aspirano a vivere in territori deglobalizzati e liberi dal dominio delle
transnazionali e della finanza, che aspirano alla sovranità politica ed
economica, orientate e centrate sullo sviluppo locale,
sull’autodeterminazione, sulla democrazia sovrana. Lo scontro in atto è tra
fautori di un mondo unipolare e fautori di un mondo multipolare. Questa guerra
distrugge e disintegra stati, nazioni, popoli ed economie
locali e nazionali attraverso le guerre democratiche e religiose, la
depredazione delle risorse pregiate, il monopolio e la privatizzazione
della conoscenza e attraverso le migrazioni forzate di milioni di
disperati e profughi ambientali, di guerre e di conflitti religiosi,
verso altri paesi, specie europei.
Come
affrontare il presente stato del mondo? Come
schierarsi in questo immane conflitto che divide e supera le antiche
contrapposizioni tra destra e sinistra? Schierarsi dalla parte della
globalizzazione, universalizzando i diritti umani contro i nazionalismi e
i “vecchi” Stati-Nazione, oppure dalla parte dei no-global e propugnare una de-globalizzazione del
mondo, difendendo spazi di sovranità di popoli e comunità in un
quadro di nuova solidarietà e cooperazione reciproca per rispondere alla
sfida della mondializzazione? Come
si ricostruisce una comunità solidale passando “dalla cooperazione per
competere” alla “ competizione per cooperare” per dirla con le
parole di Bruno Amoroso?
Come affrontano questi dilemmi
l’opera e il pensiero di Bruno Amoroso? Sono convinto che per rispondere
a queste alternative, sfuggendo da tentazioni new globaliste, occorra sporcarsi le mani e interrogare e attraversare i vari populismi,
nazionalismi, sovranismi, l’opposizione popolare all’immigrazione, le
domane identitarie, le comunità ribelli, e interpretarli come forme,
anche se non tutte accettabili, della attuale resistenza alla
globalizzazione.
La parola d’ordine prioritaria dovrebbe essere quella di “liberare”
territori, comunità, nazioni, popoli dal potere
globale e dalle sue influenze locali: è l’ ”agire locale e pensare globale” del primo
movimento no-global. La rivoluzione, che
in parte è già in atto in forme a noi estranee, sarà innanzitutto politica e
non economica, e sarà dei popoli contro la attuale globalizzazione e i suoi
poteri. I lavoratori, orfani della classe e del partito operaio
e rivoluzionario – illusi prima e vittime poi del fallimento dei
miti del progresso e della rivoluzione proletaria – devono provare a fare e a farsi popolo e mettersi alla testa o comunque diventare
parte del movimento di resistenza nelle comunità, nei territori,
nelle nazioni, contro il dominio della globalizzazione. Il fronte
del conflitto nel mondo oggi passa, infatti, nella divisione tra
globalizzatori e antiglobalizzatori, tra unipolaristi e multipolaristi,
che destabilizza le antiche divisioni tra destra e sinistra storica incentrata
sul conflitto capitale-lavoro, e su quello democrazia-autoritarismo. “La lotta alla globalizzazione – afferma Amoroso – non viene dal centro,
dalla destra o dalla sinistra, ma da forze trasversali, in quanto le vecchie
divisioni non rappresentano più i poli del conflitto” (Per il Bene Comune).
Esistono, infatti, oggi nel mondo una destra e una sinistra sia
globalista che antiglobalista. La sinistra globalizzatrice
parla di diritti universali ed è antisovranista e cosmopolita come le élite
globali. La sinistra no-global aspira
e lotta invece per un mondo multipolare che cooperi fra popoli, stati,
regioni, nazioni, comunità per una economia sostenibile e solidale radicata nei
territori e nelle comunità sottratti al dominio e al controllo delle grandi
multinazionali e governati da popoli sovrani. Il disegno dei globalizzatori
liberisti è il dominio sul mondo, regolato da un solo potere, quello
delle transnazionali e dei loro organi, senza stati sovrani ma frantumati
in protettorati divisi tra loro per linee etniche e religiose, per poter essere
più facilmente dominati. Non c’è posto in questa visione del mondo per grandi
Sati meso-regionali come la Russia, la Cina, l’India, per l’Europa politica e
federata, perché troppo grandi e perché ostacolano il potere e il pieno
dispiegarsi degli interessi dei globalizzatori e dei loro stati-guida, USA e
Gran Bretagna. Il sovranismo è una bandiera in prevalenza delle
élite locali e statali di destra tradizionale, non inserite fra le élite
globali, che resistono alla omologazione e alla distruzione della loro
sovranità minacciata. Questi Stati vengono additati come stati-canaglia e
antidemocratici, quindi da destabilizzare anche attraverso le “guerre
umanitarie” o condotte per procura, oppure attraverso rivoluzioni finanziate ed
orchestrate dalle élite globali, come le cosiddette “rivoluzioni
colorate”.
Penso, senza tema di
sbagliare, che Bruno Amoroso sia stato tra i più convinti e combattivi
sostenitori di una lotta senza tregua alla globalizzazione e ai suoi apologeti,
che lui ha definito come progetto criminale. Così lui la descrive: “La
globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma
contingente assunta dal capitalismo, uno stadio particolare ed eventualmente,
il suo ultimo stadio. È il capitalismo nella sua forma più maligna,
poiché si diffonde come una forma tumorale; come una metastasi si
concentra su poche aree strategiche, ..sul resto enormi effetti distruttivi.
Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della
globalizzazione buona” (Persone e Comunità). Citando K.
Galbraith (Lo Stato Predatore)
definisce, ne Il Bene Comune,
criminale e predatorio il sistema della globalizzazione: “Lo stato industriale
– scrive Galbraith – è stato sostituito dallo stato predatorio, una coalizione
di instancabili oppositori ad ogni idea di interesse pubblico che ha lo scopo
di controllare la struttura dello stato per dare potere a un’alta
plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina”.
Lui è stato, senza dubbio alcuno,
un no- global a
tutto tondo!
Mondializzazione e comunità
C’è una domanda e unbisogno di comunità crescente nel mondo,
anche nei paesi che hanno vissuto le stagione dell’abbondanza e della ricchezza
e che soffrono oggi i morsi della crisi e dell’emarginazione progressiva
dal nucleo dei paesi più forti delle economia della Triade. Questa domanda e questo bisogno trovano risposte diverse e non sempre
piacevoli e condivisibili – il ritorno alla
sovranità, alla Stato-Nazione, al nazionalismo o alle comunità e alla
cooperazione fra Stati – ma hanno un comune carattere: contestare e
contrapporsi alla globalizzazione dei vincenti. Tardano invece a trovare
risposte da parte delle culture e del pensiero della vecchia sinistra sociale e
politica. Anzi, a tale bisogno di
ricucitura dei legami comunitari, distrutti dal capitalismo globalizzato, si
risponde in prevalenza con le categorie dell’universalismo e dei diritti
universali, rinnegando o avversando queste aspirazioni alla sovranità e alla
comunità delle popolazioni –
derubricate come populismi –
spingendo così questo legittimo bisogno di sicurezza popolare
verso ideologie e pratiche razziste ed identitarie. Chi ha
conosciuto Bruno sa che spesso le sue posizioni eretiche in politica potevano procurare “scandalo” per le
preferenze da lui spesso accordate a posizioni antisistemiche, rispetto a
quelle politically correct, quando
erano orientate a contrastare l’oligarchia finanziaria europea o a
difendere il capitalismo nazionale.
Bruno non avrebbe certo
disdegnato di autodefinirsi “populista” o di polemizzare contro quelli
che etichettano i vari populismi
come proto-fascismo
diventato questo, purtroppo, uno slogan semplificatorio di una certa
sinistra rivoluzionaria globalista nonché della vecchia sinistra
neo-liberista dal “volto umano”, che osteggiano come “sovranisti” quelli che
vogliono ricostruire comunità riunificando le comunità frantumate
dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione capitalistica e che
sostengono la necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia
scollegandosi dal mercato globale. È, questa, unasinistra incapace
di distinguere fra mondializzazione dei
mercati (tendenza insita nella natura del capitalismo fin dalle sue
origini) e globalizzazione,
che è la forma assunta dal capitalismo triadico contemporaneo. Senza
comprendere o voler comprendere che la globalizzazione è la risposta delle
élite dominanti dell’occidente al processo di mondializzazione e all’ingresso
di popoli e paese nuovi (Cina e India, e non solo ) nell’economia e nel
mercato mondiale he si vogliono invece ingabbiare ed escludere dallo
sviluppo. Confusione che porta a esaltare sia la globalizzazione come
apportatrice di benessere per i popoli del mondo per la sua presunta capacità
di liberarli dalla miseria e dall’indigenza, e sia il cosmopolitismo come forma
suprema della moderna libertà!
Devo confessare un certo
fastidio, per non dire rabbia, verso l’ideologia cosmopolita del nomadismo e la sua
esaltazione acritica da parte di questa sinistra. Nel futuro saremo
davvero tutti apolidi? L’ideologia del nomadismo ci racconta che siamo tutti
cittadini del mondo. Sarà vero? O si dimentica che il 99 per cento
dell’umanità è per sua natura stanziale e che il nomadismo e l’emigrazione sono
una tragedia, una rottura forzata con la propria storia e cultura, con le
proprie radici, con le amicizie, con gli affetti e con la famiglia, una
lacerazione profonda nella identità che provoca spaesamento e sofferenze? È
questo il lato oscuro del cosmopolitismo che
viene nascosto in questa narrazione edulcorata del nomadismo! Ma chi sono i
veri cittadini del mondo? Adam Smith, il fondatore dell’economia classica, ce
lo spiega ne La Ricchezza delle nazioni:
“Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e
non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad
abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per
l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche
altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi
la sua ricchezza a suo agio”. Il cosmopolitismo è oggi una ideologia costruita
su misura per le élite del capitalismo globalizzato, per quell’1 per cento che
si considerano “cittadini del mondo” ma senza gli obblighi che la
cittadinanza normalmente comporta. È l’ideologia della libertà irresponsabile.
Ma “senza
comunità non c’è libertà – ci ricorda Bruno Amoroso
in L’apartheid globale
– ma solo la concorrenza di tutti contro tutti. Proprio le spinte disgregatrici
della globalizzazione rendono urgente ridefinire il concetto di comunità.
Il primo elemento costitutivo della comunità è la popolazione. La
globalizzazione immagina sistemi di società in cui la popolazione
non serve, non ha ruolo. Le economie si delocalizzano rispetto alla gente
di cui non hanno bisogno oppure trasferiscono altre persone da
altre comunità all’interno del paese. Non esiste comunità senza popolazione. Il
secondo elemento è il territorio, il radicamento della popolazione nel
territorio. La caratteristica principale della globalizzazione, invece, è la
de-territorializzazione: il territorio non conta perché si può produrre
ovunque… Altro aspetto fondamentale della comunità sono le istituzioni,
basate su forme di rappresentanza dal basso di persone saldamente ancorate al
territorio. La globalizzazione distrugge il sistema istituzionale esistente e
lo evolve in forme tecnocratiche di rappresentanza”.
Bruno Amoroso è stato un
fervente sostenitore dell’idea e del progetto di costruzione di comunità.
In Memorie di un intruso è narrato lo
svilupparsi del suo senso della comunità a partire dalla sua precoce militanza
nella sezione del Pci di Donna Olimpia a Monteverde, che si esplicava
con la sua attitudine a coniugare la militanza politica con forme di vita
collettive e di svago. Per
lui “comunismo” non era solo espressione di un’adesione ideale ma di una
“empatia che trasformava il gruppo in comunità” e la vita culturale della
sezione era animata: si ospitavano gruppi teatrali e il “teatro di massa”
e le persone del quartiere partecipavano con grande passione alle domeniche del
ballo, alle gite, alle feste, alle attività sportive, alle cene
collettive. Combinare militanza, amicizia, affetti era l’essenza del suo fare
comunità che gli valse una crescente ostilità nel partito che le
considerava estranee e nocive all’impegno politico.
Scrive Bruno in Persone e Comunità: “La comunità è una
costruzione umana e sociale. Il locale è la comunità. La sua dimensione è
variabile. La cellula fondamentale è la persona e il suo nucleo di appartenenza
(la famiglia, gli amici). Questi diversi nuclei s’intrecciano tra di loro come
anelli olimpici e formano la comunità. Essa è fortemente connessa a un
determinato territorio e con forte identità culturale. Questo spazio vitale scopre
il bisogno di organizzarsi per far fronte alle sollecitazioni esterne della
mondializzazione e della globalizzazione. Alla mondializzazione la comunità
risponde, per far fronte alla crescente interdipendenza delle varie comunità,
con politiche di cooperazione e solidali nel campo sociale, ambientale e
nell’uso delle risorse (gli anelli e le reti della solidarietà). Alla
globalizzazione, alla quale non ci si può opporre col localismo, (la
comunità risponde) con strutture nazionali di cooperazioni tra Stati
della medesima meso-regione per
proteggere le comunità dalle forze omologanti della
globalizzazione”.
Questa concezione della
comunità penso debba molto al progetto di Stato comunitario, propugnato da Adriano
Olivetti e illustrato nel Manifesto
programmatico di Comunità nel 1953: “Lo Stato comunitario… fondato sulla integrazione
armonica delle forze del lavoro e della cultura con quelle della democrazia, su
una proprietà socializzata e radicata agli Enti territoriali autonomi (le
Comunità), insisterà sulla tradizionale separazione dei poteri e sul principio
di un nuovo integrale federalismo interno, inteso nel senso di equilibrio di
autonomie tra periferia e centro”. Visione, questa, coniugata alla “necessità
di concentrare gli sforzi in favore del superamento
degli Stati nazionali interamente
sovrani e in favore della costituzione di ordinamenti giuridici superiori,
federazioni continentali o sub continentali”. La Federazione europea, che
Olivetti auspicava, “darà all’Europa autonomia e salvezza, ma ciò stabilmente
per sè e in modo esemplare per gli esterni, solo se federazione è intesa nel
senso integrale di decentramento assoluto, di autonomia generale anche nei
confini degli Stati, di articolazione politica e amministrativa
antimonopolistica in ogni senso”.
La costruzione di un’alternativa
al capitalismo globale si fonda per Bruno proprio su un progetto di alleanze
solidali di comunità, di paesi, di nazioni (le meso-regioni), di tipo
federalista, che restituiscano loro la possibilità di scegliere le
proprie forme di organizzazione economica, sociale e politica in una configurazione policentrica e plurale del mondo.
La rifondazione delle comunità
in un quadro di mondializzazione è la risposta all’affermarsi della
globalizzazione come sistema dell’apartheid globale del capitalismo triadico
dei paesi ricchi contro il resto del pianeta. Lui guardava alla modernità
non dalla prospettiva dei globalizzatori, ma da quella delle ”comunità e dei
villaggi del mondo per sette miliardi di persone”.
Fare comunità e
“risocializzare” lo Stato, passare dallo “Stato del Benessere” alla “Società
del Benessere”, questo è stato il suo programma e il filo rosso della sua
elaborazione.
Bruno Amoroso e il
sindacato
Bruno Amoroso è stato in vita
un attento e acuto studioso e osservatore delle trasformazioni
dell’economia-mondo e dei sistemi sociali, in particolare di quelli scandinavi,
nonché del movimento sindacale e del suo ruolo nel sistema produttivo e nello
Stato del Benessere. Fin da giovane, da militante comunista, da
osservatore e partecipe delle vicende sindacali della Manifattura Tabacchi in
cui lui lavorò per un breve periodo – del cui sindacato suo padre Pelino fu
segretario nazionale nella Cgil unitaria – mostrò una capacità
straordinaria di saper cogliere la natura e l’essenza delle questioni in
campo. Comprese in anticipo sui tempi la deriva burocratica in cui stava
scivolando il sindacato con la decisione verticistica del PCI e della Cgil, non
più unitaria, di sopprimere la Federazione sindacale dei Monopoli di Stato per
accorparla alla Federazione degli Statali – con l’umiliante e
cinica estromissione del padre dalla direzione del sindacato – e colse con
lucida preveggenza l’errore della scelta dell’americanizzazione del sistema produttivo
nazionale che anche il PCI e la Cgil a loro modo sostennero.
La Manifattura Tabacchi
a Roma con le vicende sindacali dell’epoca a cui suo padre partecipò,
furono il companatico quotidiano di cui si nutrì la sua formazione
e la sua concezione del sindacato che “trasforma gli interessi corporativi e i
bisogni diversi in un progetto comune di organizzazione aziendale ispirato alla
solidarietà verso i più deboli”. Bruno ricorda che suo padre era solito
“saggiare le sue tesi politiche, o le sue relazioni per convegni o congressi
discutendone in famiglia, sul tavola di cucina fino a tarda notte e questa fu
in parte – racconta – la nostra scuola”. Non amava Bruno i sindacalisti col
sigaro e la sigaretta e poi quelli con la pipa. Lui amava i sindacalisti
alla Di Vittorio che diventarono comunisti per esperienza di vita
famigliare e di povertà e non per scelte ideologiche o per ambizioni politiche
e di carriera personale. Bruno riporta in Memorie di un intruso una risposta di Giuseppe Di
Vittorio alla domanda di un giornalista sul perché fosse diventato comunista:
“Da bambini – rispose Di Vittorio – le nostre mamme lavoravano sui campi dei
padroni dall’alba alla sera per la raccolta della frutta, ed erano costrette a
portarci con loro. Noi venivamo deposti intorno ad un albero e i ‘caporali’ ci
mettevano la museruola per essere sicuri che non mangiassimo la frutta. Io sono
uno di quei bambini ed è per questo che sono diventato comunista”.
Bruno era stato un convinto
assertore dell’unità del sindacato e del mondo del lavoro contro le rotture che
intervennero nel 1948, ma anche della sua autonomia come motore di una alleanza
popolare più vasta con il ceto medio e i vari e diversi settori produttivi
della società che lui auspicava anche in polemica contro le tendenze opposte
che avanzavano nel partito e nel sindacato.
L’americanizzazione
delle forme di produzione e consumo. Il fordismo e il post- fordismo.
Bruno Amoroso è sempre stato
un critico avveduto del processo di “americanizzazione” delle forme
di produzione e consumo introdotti in Italia dopo la liberazione e che improntò
il miracolo economico del dopoguerra con una forte crescita e sviluppo del
sistema industriale incentrato sulla grande impresa e con un forte
incremento dei consumi popolari. Il prezzo pagato per questo tipo di
sviluppo sono inscritte nelle devastazioni del territorio, nella crescita
abnorme delle città, nello spopolamento dei piccoli centri e nel biblico
flusso migratorio da Sud verso il Nord che svuotò le campagne in pochi anni di
oltre due milioni di addetti.
Nel dibattito all’interno del
PCI e del Sindacato convivevano due Italie: quella di Emilio Sereni che indicava una
via alla modernità che includesse il mondo rurale e contadino, e quella di
Manlio Rossi Doria che spingeva per una più spinta applicazione del
modello fordista della grande impresa da estendere anche alla produzione
agricola, per incrementare la produttività del settore.
La sinistra e il
sindacato abbracciarono il modello di produzione fordista
contrastando le posizioni di Emilio Sereni e il modello “
comunitario” propugnato da Adriano Olivetti.
Il convegno dell’Istituto
Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo
italianolegittimò teoricamente questa scelta on
l’illusione che questo salto forzato nello sviluppo sarebbe stato ricambiato
con una maggiore partecipazione dei lavoratori alla spartizione dei
dividendi dello sviluppo illimitato e del crescente profitto. Il
sindacato fu così ridisegnato sul modello della grande impresa fordista, abbandonando
il sindacalismo popolare e confederale di Di Vittorio, per il nuovo sindacalismo contrattualista e verticale degli
anni 60-70, che godette dell’introduzione dell’istituto della contrattazione
articolata con i contratti del 1962.
Scrive in Persone e Comunità: “Il paradigma
fordista (grande impresa, economia di scala, consumi di massa,
organizzazione taylorista del lavoro) fu immediatamente percepito come il
paradigma della modernizzazione assunto passivamente anche dai sindacati e dai
partiti operai, socialisti e comunisti. Il suo effetto fu la distruzione
delle pluralità dei sistemi produttivi e dei saperi locali, dei territori e
delle città, l’emigrazione di massa, il declino dell’artigianato tradizionale,
lo spopolamento delle aree interne montane e collinari, l’abbandono delle
campagne, l’americanizzazione dell’agricoltura e la fine delle società
rurali”, che fornì con gli esodi biblici dalle campagne del sud la
manodopera necessaria per l’impresa fordista del Nord industrializzato. E così
prosegue: “Tutta l’organizzazione della società e delle città ruota
attorno alla fabbrica capitalistica e la serve. Le strategie sindacali e
loro strutture organizzative furono ridisegnate sul modello della produzione di
massa e delle economie di scala del fordismo. Partiti e sindacato della classe
operaia videro nella crescita accelerata della classe operaia
fordista e nel proletariato agricolo e bracciantile – formatosi con la
crisi della famiglia e dell’impresa contadina – il formarsi delle forze che
avrebbero messo in crisi il capitalismo. Il mito dello sviluppo infinito e del
progresso sotto il segno dell’industrialismo segnò una stagione di lotte e di
rivendicazioni del movimento operaio che arrivò a toccare livelli
di consumi e di benessere materiale mai raggiunti nella storia, né prima
e mai più dopo. L’altra faccia nascosta di questo progresso fu, come denunciava
un inascoltato Pasolini, l’integrazione della classe operaia nel meccanismo
distributivo e la sua omologazione culturale in quello della mercificazione
consumistica”.
L’abbandono del modello di
produzione fordista, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, da parte del
capitalismo “pensante” per rispondere alle crescenti pressioni
redistributive del movimento operaio e ai costi crescenti dello Stato del
benessere – per riprendere il controllo della produzione e dello Stato e
ridurre l’influenza dei sindacati in una fase di sovrapproduzione di
merci e di costi crescenti delle materie prime – colse di sorpresa
il movimento operaio e i sindacati. La vertenza Fiat con la successiva
sconfitta operaia agli inizi degli anni ‘80 segnò una lunga fase
difensiva del conflitto sindacale che, di cedimento in cedimento, ha
accompagnato in questi decenni lo “smantellamento progressivo del sistema produttivo nazionale e del
welfare pubblico, la de-centralizzazione dell’impresa nei territori, la
fine del ruolo propulsivo dei contratti collettivi”, la
precarizzazione del lavoro, la nascita dei contratti individuali
(Pacchetto Treu) e, infine, il declino stesso del sindacato.
Scrive ancora in Persone e Comunità: “Un errore
interpretativo della globalizzazione che ha coinvolto la sinistra e il
Movimento Operaio, è stato quello di concepirla come uno stadio di
rilancio del ciclo di accumulazione, con il risultato di alimentare
strategie rivendicative difensive in vista di una ripresa futura del ciclo
espansivo. Il suo effetto è stato quello di non cogliere la novità propria
della natura della globalizzazione che espelleva dal suo interno aree di
mercato e sistemi produttivi, de-centralizzandoli e de-nazionalizzandoli,
per sottrarre la produzione al controllo sociale e politico locale e
nazionale”. Nella sua relazione al seminario del circolo romano de Il Manifesto
nel 2011 su Lavoro e Territorio all’indomani del referendum della Fiat di
Pomigliano, così concluse questa riflessione:“L’assenza di
questa consapevolezza ha fatto si che siamo rimasti a lungo attaccati alla
speranza di poterci integrare in un modello che non ci comprendeva, anzi ci
respingeva, e per di più a noi in gran parte estraneo. Trascurando invece
scelte possibili di un altro modello di organizzazione sociale, di crescita
territoriale e sociale e di cooperazione sia europea sia mediterranea”.
Bruno Trentin fu forse l’unico
che nel movimento sindacale avvertì nel 1989 la
tempesta che si avvicinava e colse correttamente la
novità della fine di un ciclo storico, dell’epoca dello sviluppo infinito
e dell’occupazione come variabile da questo dipendente, insieme al tramonto di
politiche salariali espansive. Nella sua relazione alla Conferenza di Programma
della Cgil di quell’anno a Chianciano, così introdusse il suo intervento:
“Le trasformazioni delle società industriali, i vincoli
crescenti…rimettono in questione la stessa concezione dello sviluppo
economico… ma, soprattutto, il presupposto economico e ideologico sul
quale il sindacato fondava, sin dalle sue origini, la sua funzione di
unificazione del mondo del lavoro…ossia uno sviluppo economico, pieno di
contraddizioni e di diseguaglianze, ma senza limiti quantitativi di lungo
periodo, uno sviluppo economico «inarrestabile» e, come tale, condizione e
garanzia di un progresso sociale e umano, condizione materiale dell’azione
emancipatrice del movimento operaio; questo presupposto e questa premessa di
valore dell’azione solidale del sindacato sono stati duramente contestati dalle
trasformazioni intervenute..”. E così proseguì:“ Lo sviluppo
quantitativo dell’economia, la crescita della produzione di merci e di servizi,
e lo sviluppo dell’occupazione e del lavoro salariato, che del primo sono stati
sempre considerati come dei fattori derivanti e rigidamente subordinati (delle
variabili dipendenti si usava dire), si scontrano sempre più con dei limiti
oggettivi, strutturali… Al punto che oggi l’idea di progresso, quella di
civiltà e quella stessa di solidarietà sono sempre più associate al rispetto di
questi vincoli e alla subordinazione dello sviluppo dell’economia ai limiti
qualitativi che rimettono in questione i suoi obiettivi e le sue regole”.
Aggiunse che era destinata alla sconfitta “una solidarietà difensiva
fondata sulla salvaguardia di un modello autarchico di sviluppo, sul rifiuto di
confrontarsi con le scelte ardue di una nuova divisione internazionale del
lavoro e con la ricerca di una nuova solidarietà dei lavoratori in Europa”.
Per proteggere il lavoro
da questi rischi incombenti, delineò così una strategia difensiva fondata sui
diritti individuali e collettivi, sulla valorizzazione della persona e della
sua prestazione lavorativa, sulla formazione permanente, sulla contrattazione
anche individuale nel posto di lavoro: “Dobbiamo compiere il tentativo di
ricondurre alla contrattazione collettiva e ad una difesa solidale dei diritti
individuali fondamentali relazioni di lavoro, anche molto diverse fra loro, che
non coincidono più con il modello tradizionale dell’occupazione a tempo pieno
per tutta la vita…. Non crediamo al salario o al costo del lavoro come
variabili indipendenti. Ma crediamo ad una strategia rivendicativa che liberi
tutte le potenzialità culturali e professionali delle lavoratrici e dei
lavoratori e che trasformi la persona al lavoro in un patrimonio ricco e
costoso nella sua formazione..”. Ancora: “Diventerà sempre più un tema
della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro quella dell’informazione
sui percorsi professionali individuali e sui sistemi di remunerazione
individuali, in modo da offrire la garanzìa di criteri trasparenti anche
all’estendersi di forme di contrattazione individuale del salario e delle
condizioni di lavoro..”. Caratteristiche queste – dell’autonomia,
dell’autodeterminazione, della libertà e della creatività del lavoro – che
sarebbero state fatte proprie dal capitalismo post-fordista sotto le
sembianze del lavoratore imprenditore di se stesso e artefice del suo stesso
auto-sfruttamento.
Mancò però in Trentin, ed è
mancata nel sindacato anche dopo lui, la visione di un progetto
alternativo al modello di sviluppo e di produzione fordista e industrialista
abbandonato dal capitalismo; e anche lui fu costretto ad accettare di
contrattare nel 1992, con l’accordo che abolì la scala mobile,
l’arretramento del movimento operaio dalle posizioni conquistate in
precedenza per allineare il paese alle politiche deflazioniste dell’Unione
Europea, che lo costrinse alle dimissioni da segretario generale della
Cgil prima e all’uscita definitiva di scena successivamente.
L’occasione
persa dal sindacato è stata quella di non aver scommesso sul rilancio dei
luoghi, delle produzioni e dei sistemi produttivi abbandonati al loro destino
dal fordismo prima e dalla globalizzazione poi, ricreando forme di aggregazione
tra produttori locali, rilanciando un nuovo modello di
sviluppo a partire dalla rigenerazione delle città devastate dall’inurbamento
selvaggio e dal consumo di suolo, dal ripopolamento delle zone interne
abbandonate con politiche di sviluppo locale e culturale e mettendo in
sicurezza il territorio. Di non aver offerto in questo modo un’alternativa di
mercati locali e regionali al quel mondo della produzione radicato nei
territori, ed estromessi dai mercati della globalizzazione, attraverso il
rilancio dell’Altra Economia, dei mercati contadini, della nuova
ruralità. Da ciò derivava e deriva la necessità di un alleanza tra questa
economia e la società civile per ricostruire comunità di vita, di produzione e
consumo. Invece abbiamo stoltamente continuato sulla strada delle sconfitte
difendendo e promuovendo lo sviluppo dei grandi centri commerciali delle
multinazionali straniere, che hanno ancor più indebolito la piccola
impresa locale e regionale che fatica a trovare sbocchi autonomi nel mercato e
che ora, ironia della sorte, per effetto dell’automazione crescente,
stanno espellendo proprio quei lavoratori che avevano giustificato
l’iniziale consenso sindacale e politico locale al loro insediamento nel
territorio.
Lavoro e Bene Comune
Cos’è
per Amoroso il Bene Comune? “ Bisogna evitare, usciti dall’incubo
della fabbrica fordista e del consumismo di massa (con i quali
abbiamo perso mezzo secolo di storia), di inseguire ancora una volta il
capitalismo nelle sue convulsioni con il mito delle tecnologie,
della società dell’informazione, della società dei servizi e, ora, con la
società della conoscenza”… E ancora:“Decrescita e sobrietà significano
partire dai nostri bisogni, dai bisogni delle comunità -società nelle quali
viviamo, per ricostruire intorno a noi quelle istituzioni, saperi e
sistemi produttivi che ridiano spazio ad una vita normale” e per
riscoprire quella che lui chiama “ l’acqua calda” della “buona vita” e
del “bene comune”.
Il progetto del Bene Comune,
così introdotto da Amoroso in Per il Bene Comune,nasce come risposta
all’esaurirsi dell’esperienza dello Stato del Benessere, sorto nel novecento
per far fronte alle crisi del mercato capitalistico e ai
disastri della guerra e della ricostruzione successiva. Il suo stretto legame
col capitalismo fordista, il suo carattere prevalentemente corporativo,
ne ha segnato anche la progressiva decadenza con l’affermarsi di politiche
neoliberiste di contenimento della spesa pubblica e del welfare. Il bene
comune è un progetto diverso di società e di modernizzazione che per le società
europee significa anzitutto il “distacco dalla crescita quantitativa e individualistica e un rifiuto
della globalizzazione e delle sue politiche neoliberali”.
“Il bene comune non è il singolare di beni comuni, né la somma
dei beni individuali” ma, citando Robert Vachon, Bruno afferma
che “è l’essere comunitario non riconducibile alla somma delle parti e che non può essere
proprietà di qualcuno”. È, continua ancora in Per il Bene Comune, “l’essenza del
progetto, il nucleo
fondamentale della vita materiale delle persone e delle comunità, intorno al quale si articolano gli obiettivi e le funzioni
economiche, sociali e culturali della società. È quel nucleo che
sprigiona i valori, i principi che danno contenuto e forma in una certa
epoca storica al vivere insieme e dal quale si possono derivare i beni
comuni necessari, come strumenti per riavviare un discorso su una diversa
forma di organizzazione sociale e di partecipazione”.Insomma un
nuovo patto sociale che
sostituisca lo Stato del Benessere,
creato intorno all’obiettivo della crescita economica, con quello della Società del Benessere costruita
sul Bene Comune.
Così definito il progetto di
Bene Comune, la nuova Società del Benessere non può prescindere dalla
solidarietà tra lavoratori e cittadini, cioè dal concepire il lavoro come
bene comune legato alla comunità e al territorio di appartenenza.
Di questa concezione del
lavoro sono debitore verso l’opera di Bruno Amoroso che ha nutrito, negli
ultimi anni della mia esperienza di dirigente sindacale della Cgil, la
mia rielaborazione, inascoltata, di un nuovo e diverso approccio al
rapporto tra sindacato e società, come chiave del rinnovamento del
sindacato stesso e della sua fuoriuscita dall’orbita dello schema fordista di
rappresentanza del lavoro.
Nella sua Prefazione al mio
libro, Il Lavoro tra Globalizzazione e
Bene Comune ( 2006), individua gli elementi forti della
esperienza politica e sindacale in Italia nella natura popolare del
sindacato nel dopoguerra e nella la sua costante preoccupazione di legare
rivendicazioni e proposte parziali a una idea e progetto di società più giusta
e solidale. Infatti, scrive : “ Le organizzazioni sindacali e politiche dei
lavoratori hanno rappresentato sia la forza maggiore di difesa e di
elaborazione di proposte alternative allo sfruttamento capitalistico e alla degenerazione
della società e del mercato da questo prodotto, sia il punto di fusione di
tutte le componenti e le istituzioni della società civile. L’emancipazione
della ‘classe operaia’ coinvolgeva tutte le componenti personali e sociali
della società e produceva un cambiamento di liberazione (dalle ineguaglianze e
dalle discriminazioni) per tutti”. Questo legame organico tra sindacato e società “si è venuto via via indebolendo dagli anni
Sessanta in poi fino alla rottura verso la fine del decennio. Le ragioni sono
da ricercare nell’affermarsi di un modello industrialista e fordista di
crescita economica che ha plagiato anche i sindacati e i partiti del movimento
operaio acquisendoli così ad una linea di subordinazione al modello della
crescita capitalistica in Italia su basi corporative”. E così conclude: “Questa
è la ragione per il venir meno della anima popolare del movimento… Ma il primo
anello da ricostruire è la ricongiunzione
tra movimento operaio e società civile, sulla base
di un progetto di società fuori della globalizzazione e diverso da quello del
capitalismo di mercato”.
Commentando nel 2011 un
mio articolo su il Manifesto, Ripartiamo dal binomio locale-globale , nella
sua relazione al già citato seminario organizzato dal circolo romano de
il manifesto, così si espresse a proposito di lavoro e bene comune: “Ricordo
che di questo tema si parlò in ambito sindacale. Reagendo al grande interesse
che i sindacati mostravano per l’‘acqua bene comune’ proposi di trattare invece
del tema ‘lavoro bene comune’. Gelo totale, perché avevano intuito che se il
lavoro è un bene comune è compito delle comunità salvaguardarlo, regolarlo, inserirlo
nelle funzioni necessarie, retribuirlo ecc.. Al che tutta l’impalcatura del
lavoro e dei suoi diritti costruita per una società industriale capitalistica
crolla. Ma con ciò anche il ruolo che il sindacato si è disegnato dentro di
questa. Dobbiamo prendere atto positivamente che espressioni recenti anche da
parte del sindacato indicano una riflessione critica su questi temi e sul
bisogno di ripensarsi insieme alle altre istituzioni e organizzazioni della
società civile”.
Cioè il lavoro come bene comune è
parte costitutiva dell’essere, del vivere nella comunità con gli obblighi ed i
doveri che ne derivano, esce cioè dalla pura funzione
contrattuale-redistributiva del rapporto di lavoro.
Questo dato implica che
il progetto del bene comune va visto come “superamento della
retorica della solidarietà all’interno de movimento operaio, che non tocca mai
gli interessi costituiti, i diritti acquisiti in una fase storica”.
Concludeva il commento al mio articolo con queste mie parole: “Il
lavoro può affermare la sua utilità e responsabilità verso la società e le
comunità locali, solo pensandosi ed agendo come lavoro non alienato, come
produttore consapevole che crea l’economia e non ne rimane succube”. Se
si riconcilia, quindi, col sapere e si mette al servizio del progetto di
comunità e del bene comune e non di una solidarietà ristretta di tipo
corporativo.
Se
nella fase della fabbrica fordista il luogo classico della socializzazione e
dell’istituzione dei legami sociali e di classe era la fabbrica oggi, con il
decentramento produttivo, non è più così. Lo spazio della socializzazione
ridiviene il territorio, luogo di esistenza-resistenza e di convivenza
quotidiana. E gli attori sociali della trasformazione
sono quelli partecipi al territorio e ai suoi bisogni, a partire dai
lavoratori, dalle loro famiglie, e dalle loro organizzazioni sindacali,
dal mondo delle periferie urbane, del non-lavoro e della precarietà
esistenziale. Il lavoro con le sue forme di esercizio e di rapportarsi
alla società e al bene comune assume ora una precisa responsabilità
sociale verso le comunità. Se il lavoro è un bene comune, può
essere compatibile con alcune modalità di esercizio corporativo del
conflitto sindacale in particolar modo nei servizi di pubblica utilità, cioè
dei beni comuni sociali? È compatibile con qualsiasi occupazione, anche in
quelle produzioni inquinanti che distruggono e devastano l’ambiente, la
terra, l’aria, l’acqua e la vita – cioè i beni comuni naturali – come nel
caso di Taranto? Come conciliare la responsabilità sociale del lavoro con
il suo essere anche un mezzo di riproduzione sociale? Come affrontare
l’alienazione del lavoro dai fini della produzione nell’impresa capitalistica,
irresponsabile verso le comunità e l’ambiente vitale? Come rispondere
alla domanda di inclusione sociale del mondo degli esclusi, dei perdenti
della globalizzazione, degli operai senza-fabbrica, dei giovani senza futuro?
Sono domande, queste, che attendono ancora risposte compiute.
Nel momento in cui l’impresa
transnazionale separa territori e sistemi produttivi, istituzioni e
popolazioni, si estranea dalle comunità e dai paesi d’origine e diventa apolide
e globale, si può superare tale processo di scissione solo se lavoro e
impresa, comunità e cittadini diventano partecipi di una rifondazione del
paradigma dell’economia diversa e alternativa a quella impostasi con la
globalizzazione. Il lavoro ritroverebbe così una sua ragione sociale non
alienante ri-mettendo in discussione la stessa divisione operata dal fordismo
fra lavoro e sapere che aveva trasformato l’operaio in gorilla ammaestrato, per
dirla con la celebre metafora di Gramsci in Americanismo e Fordismo.
È, questa, una sfida ancora
aperta per una sinistra che voglia rinascere e ritrovare le proprie radici popolari
e per un sindacato che abbia voglia di misurarsi con i suoi ritardi e le
proprie granitiche in-certezze che certamente non hanno aiutato lo
svilupparsi di un movimento popolare e democratico di resistenza alla
tragedia della globalizzazione capitalistica preferendo spesso cavalcare
il cavallo vincente piuttosto che rischiare le sconfitte in
proprio.
In un mio recente articolo, Considerazioni dalla parte dei vinti,
pubblicato su Comune-info, così concludevo l’ultimo paragrafo destinato
al riscatto dei vinti: “La
Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sta alle
nostre spalle. Essa ci parla anche con il linguaggio e la memoria dei
vinti e degli sconfitti redenti e non solo con quello dei vincitori,
affinché quello che non fu possibile ieri diventi possibile oggi o domani…Non
so se un giorno il mondo cambierà in meglio. Ma se sarà così,
lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori, ma
grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici
e alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si
sono mai arresi”. Grazie anche ad uomini come Bruno Amoroso.
(Articolo tratto dal
libro Ciao Bruno testimonianze e
ricordi per Bruno Amoroso amico, collega, maestro. - Edizioni
Castelvecchi)
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