La lotta di classe dopo la lotta di classe. Con
questa formula, nel 2012, Luciano Gallino ci invitava a rileggere i decenni
successivi agli anni Settanta per capire forme e cause di una tragedia sociale
annunciata. «Non è affatto venuta meno la lotta di
classe» – ci diceva uno dei pochi sociologi contemporanei rimasto fedele alla
funzione della propria disciplina come coscienza critica della società. Semmai
ha cambiato verso, non più dal basso verso l’alto ma viceversa, dal momento in
cui il mondo del privilegio aveva dichiarato guerra al mondo del lavoro per
riprendersi il terreno perduto, e molto di più. Per ristabilire brutalmente le
distanze sociali. E aveva stravinto.
Ora i numeri gli danno platealmente ragione. Il più
sistematico e approfondito studio sulle ineguaglianze sociali su scala globale,
sintetizzato nel World Inequality Report 1918 (di cui il manifesto si è già
occupato venerdì scorso) mostra con chiarezza le dimensioni di quella vittoria
e di quella sconfitta. Gli oltre 100 ricercatori sparsi nei cinque continenti
(coordinati da un gruppo di cinque autorità scientifiche tra cui Thomas
Piketty) che costituiscono il World Inequality Lab e ne alimentano il
gigantesco database, ci dicono che nell’ultimo quarantennio l’economia-mondo è cresciuta
– pur tra crisi e scossoni – anche a tassi elevati, ma la nuova ricchezza
prodotta non si è ripartita equamente, anzi: è stata ampiamente monopolizzata
dalla sempre più esigua minoranza che sta in alto.
Quel sistema economico globale che Gallino aveva definito
«finanz-capitalismo», per segnalare la rottura con il capitalismo industriale
novecentesco, ha funzionato come una gigantesca macchina che ha centralizzato e
verticalizzato la ricchezza, premiando chi già più aveva, rendendo i ricchi
sempre più ricchi. E riservando alla massa sterminata di chi sta sotto le
briciole, secondo una logica che con gli statuti della modernità progressiva ha
sempre meno a che fare, richiamando piuttosto scenari di tipo feudale, o
l’esempio biblico del ricco epulone.
Le cifre sono impressionanti: nel 2016 il 10% più ricco
(il primo «decile», in linguaggio tecnico) si è arricchito a un ritmo superiore
al doppio rispetto al 50% più povero. Con percentuali diverse, certo, tra aree
geo-economiche: in Medio Oriente si sono accaparrati il 61% del reddito
disponibile, nell’Africa sub-sahariana il 55% (poi ci si chiede come mai di lì
i poveri debbano fuggire), negli Stati uniti e in Canada il 47%, in Europa
«solo» il 37%. Ma con un tratto di tendenza omogeneo. Non solo: nemmeno quel
10% che sta al top mostra una dinamica egualitaria, per così dire, perché l’1%
che sta sul limite superiore di quel decile fa registrare incrementi della
propria ricchezza incomparabili con l’altro 9%. E lo 0,1% che costituisce il
livello superiore di quell’1% a sua volta guarda infinitamente dall’alto gli
altri che svettano al di sotto.
Di contro, spicca nel Rapporto il destino della classe
media globale (concentrata soprattutto tra Stati uniti ed Europa, e
comprendente anche buona parte della ex classe operaia beneficiata dalle
politiche keynesiane del Novecento «social-democratico»), la vera sacrificata
di questo modello di economia. Sono le famiglie che stavano in fasce di reddito
intermedie (diciamo tra i 35 e i 90.000 dollari annui) e che sono state
letteralmente «schiacciate» (squeezed, dicono gli autori, che vuol dire anche
«spremute», «strizzate»). Del fenomeno c’è anche una rappresentazione grafica,
piuttosto impressionante: si chiama The elephant curve perché la linea del
grafico disegna il profilo di un elefante, in crescita nella parte posteriore,
quella relativa ai redditi più bassi che, soprattutto nei paesi emergenti si
sono avvantaggiati un po’ con la globalizzazione nel trentennio a cavallo del
passaggio di secolo avendo comunque posizioni di partenza molto basse (hanno
intercettato le briciole, appunto), poi in brusca caduta nelle fasce di reddito
centrali (le «classi medie»), fino appunto al nono decile, e infine – è appunto
la proboscide – in esponenziale crescita, che si fa addirittura verticale in
corrispondenza dell’ultima frazione di punto (il percentile corrispondente al
99,999%, cioè i più ricchi tra i ricchi).
Chi si interroga sulle ragioni del diffondersi dei
cosiddetti «populismi» tra quelle stesse classi medie che a lungo erano state
il fattore di stabilizzazione nelle democrazie occidentali, dovrebbe studiarsi
con attenzione questo elementare disegno. Così come dovrebbe meditare a fondo
sulle proiezioni offerte dal Rapporto in cui si dice che nel prossimo
trentennio la ricchezza dell’1% più ricco (e soprattutto quella dello 0,1% e
più ancora quella dello 0,01%) crescerebbe ulteriormente fino a raddoppiare in
valore percentuale (sfiorerebbe il 40% della ricchezza globale) mentre quella
della middle global class continuerebbe a diminuire lungo un piano inclinato
che – testualmente – potrebbe portare a «various sorts of political, economic,
and social catastrophes», a meno che non intervengano decisioni politiche in
grado di invertire questa tendenza e cambiare questo modello.
Questa nuova, perversa forma di accumulazione che ha come
involucro ideologico il dogma neo-liberista e come pratica il dominio del
capitale finanziario si rivela così radicalmente tossica nei confronti non solo
delle classi meno privilegiate, ma della possibilità stessa di una qualche
forma di società sostenibile. Di societas nel senso etimologico del termine:
insieme di individui e gruppi associati tra loro, capaci di gestire i propri
legittimi conflitti in una forma non distruttiva e in un contesto condiviso.
La sua logica interna è la frantumazione sistematica, la creazione su scala allargata delle linee di frattura: di ciò che i politologi e i sociologi chiamano cleavages, dislivelli di potere, ricchezza, controllo delle risorse per superare i quali sono occorsi secoli di mediazione e di elaborazione politica e istituzionale.
La sua logica interna è la frantumazione sistematica, la creazione su scala allargata delle linee di frattura: di ciò che i politologi e i sociologi chiamano cleavages, dislivelli di potere, ricchezza, controllo delle risorse per superare i quali sono occorsi secoli di mediazione e di elaborazione politica e istituzionale.
La geografia sociale del nuovo mondo è spaventosamente
segnata da queste sconnessioni frattali. Basta dare un’occhiata alla mappa
delle “diseguaglianze territoriali” che il Commissariat général à l’égalité des
territoires (Cget) ha presentato in questi giorni al governo francese.
Rappresenta un quadro della Francia in cui tutti i dislivelli territoriali si
sono accentuati nell’ultimo trenta-quarantennio: quello centro-periferia e in
particolare città-campagna (sempre cruciale per i francesi), con le zone rurali
che arretrano e i poli urbani che concentrano servizi e occasioni d’impiego. Ma
anche quello all’interno dei poli urbani, in cui convivono “concentrazioni di
ricchezza” e “sacche di povertà”. E quello geo-economico che vede l’area
centrale del paese svuotarsi di imprese e di risorse e la fascia
atlantica-occidentale riempirsi, secondo un moto centrifugo simile a quello che
caratterizza il paesaggio sociale americano. La «lotta di classe dopo la lotta
di classe» è anche questo: un caleidoscopio di conflitti multiformi e
complessi, in attesa di una cultura politica capace di ricondurli a un asse
antagonistico efficace.
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