La lobotomizzazione dei nostri poveri sensi è giunta a livelli inimmaginabili qualche decennio or sono e molti di noi non sanno più neppure chi sono, cosa vogliono, che ci fanno qui, anche quelli più “consapevoli”.
La nostra vita è saccheggiata, ostacolata, deprivata, premuta, mortificata.
E le nostre soluzioni? Individuali, specialistiche, settarie, oppure: la morte psichica, non parlo non sento non vedo.
Dove è il punto che sembra continuamente sfuggirci, proprio mentre insinua la sua cancrena in ogni recesso, anche i più nascosti, della nostra vita?
Il punto – e lo scrivo proprio con il gusto di farlo risaltare anche nella scrittura- è la frantumazione.
Noi, i più frammentati, dovrebbe dire Rilke oggi.
Non è il tempo della povertà, ma della frammentazione. Frammentazione che ci affligge e che noi nutriamo con sempre maggiore lena.
Frantumazione di tutto: dei nostri corpi, dei nostri linguaggi, delle nostre menti, dei nostri luoghi, delle nostre relazioni, dei nostri tempi.
Stiamo morendo a pezzi, letteralmente.
Ma la vogliamo, eccome!
Se qualcuno prova a rivendicare il diritto a riprendere un pezzo di sé finito tra i cespugli qualcuno insorge e gli intima di lasciarlo dove sta, perché è meglio.
Che niente contamini niente.
Il privato non deve contaminare il pubblico, le emozioni la produzione, gli affetti il lavoro, la famiglia il denaro, il ruolo la prestazione, la psiche il sesso, le passioni …
Le passioni, miserabili, perdute completamente nella roulette impazzita delle frammentazioni. Quale passione potrà mai risorgere dal tessuto esploso della nostra relazione al mondo?
La prescrizione è: uccidi la passione, trasformala in prestazione, in denaro.
Chi è appassionato trabocca, non sta dentro al contenitore piccolo del suo ruolo.
Ruolo, professionalità, distanza, tutti termini che appartengono al vocabolario della frantumazione e che assolvono al precipuo compito di neutralizzare le passioni, i traboccamenti, le rivendicazioni di inusitati congiungimenti.
Noi amiamo tutto questo. E’ all’ombra della separazione e della gerarchia, delle competizioni e della privacy che abbiamo edificato un mondo in cui l’unica unità di misura, neutra per eccellenza (il neutro, caro Fourier, non è il pivot delle passioni, come tramite tra i differenti, no è il suo nullificatore), è il denaro.
Ci facciamo pagare e paghiamo un’ora di cura, di massaggio, di attenzione. E che sia così. Mica che mi tocchi magari di restituire cura, massaggio o attenzione.
Fiori del solipsismo contemporaneo, la frantumazione, la separazione, la gerarchizzazione, la catalogazione dominano incontrastati.
Anche l’immersione nella natura è un gesto separato, già nel momento in cui parliamo di natura come qualcosa di separato, senza saper riconoscere (ahimé spesso perché estinta) la natura in noi. Cosa vuol dire immergersi nella natura, designare oggi qualcosa come natura, o come tempo libero, se non predisporre le condizioni di separazione necessarie perché qualcuno ne possa fare un bel pacchetto da vendere tutto completo, con musica di sottofondo?
La musica è separata, l’amore è separato, il gesto dell’insegnare è separato.
Nessuno che si doni anima e corpo, o solo anima o solo corpo. Tutti e due diventa relazione (cfr. catalogo), coppia, amore di coppia, c’è già un bel sarcofago dove metterlo a dimora, perché riposi in pace, defunto.
Eccoci, noi, fatti a pezzi. Un pezzetto di relax, un pezzetto di cultura, un pezzetto di lavoro, un pezzetto di giardinaggio, un pezzetto di pet-therapy, un pezzetto di amore, un pezzetto di dolore, un pezzetto di morte.
E’ così che abbiamo debellato la morte in fondo.
Niente vita niente morte. E’ così semplice.
Niente unità, niente fine di nulla.
Sopravvissuti sì ma come frammenti. Non sappiamo neppure mai chi siamo, ce lo prescrive il ruolo.
Toh, adesso faccio l’insegnante, e tra poco l’amante, poi dopo farò il papà e poi, chi sa, lo sportivo.
Nessun papa insegnante e amante e sportivo e addolorato e mistico mentre è padre. Nessun insegnante appassionato che faccia a pezzi le tensioni muscolari che lo ingabbiano nel ruolo.
La bellezza di non essere nessuno da nessuna parte. Fine della tenera finzione della vita integra.
Puttanate romantiche, buone tutt’al più per disperati e anarchici.
Godiamo fratelli, si può sopravvivere così, come marionette appese ai multipli fili delle nostre maschere e delle nostre difese.
Contro la vita.
Poi ci lamentiamo della disperazione.
Non dimentichiamo. Siamo grati a quella disperazione, perché viene da un luogo in cui qualcosa della vita sopravvive. Se siamo disperati, e lo siamo, oh sì, è perché qualcosa di ancora vivo in noi rilutta.
Stiamo vicino a quella disperazione, può insegnarci qualcosa, un anelito di desiderio, una voglia di partecipazione, un desiderio di riprendersi pezzo a pezzo il proprio intero e non essere più funzionari del nulla.
Prima di essere definitivamente sterminati e non avvertire neppure più il dolore, neppure un prurito.
La nostra vita è saccheggiata, ostacolata, deprivata, premuta, mortificata.
E le nostre soluzioni? Individuali, specialistiche, settarie, oppure: la morte psichica, non parlo non sento non vedo.
Dove è il punto che sembra continuamente sfuggirci, proprio mentre insinua la sua cancrena in ogni recesso, anche i più nascosti, della nostra vita?
Il punto – e lo scrivo proprio con il gusto di farlo risaltare anche nella scrittura- è la frantumazione.
Noi, i più frammentati, dovrebbe dire Rilke oggi.
Non è il tempo della povertà, ma della frammentazione. Frammentazione che ci affligge e che noi nutriamo con sempre maggiore lena.
Frantumazione di tutto: dei nostri corpi, dei nostri linguaggi, delle nostre menti, dei nostri luoghi, delle nostre relazioni, dei nostri tempi.
Stiamo morendo a pezzi, letteralmente.
Ma la vogliamo, eccome!
Se qualcuno prova a rivendicare il diritto a riprendere un pezzo di sé finito tra i cespugli qualcuno insorge e gli intima di lasciarlo dove sta, perché è meglio.
Che niente contamini niente.
Il privato non deve contaminare il pubblico, le emozioni la produzione, gli affetti il lavoro, la famiglia il denaro, il ruolo la prestazione, la psiche il sesso, le passioni …
Le passioni, miserabili, perdute completamente nella roulette impazzita delle frammentazioni. Quale passione potrà mai risorgere dal tessuto esploso della nostra relazione al mondo?
La prescrizione è: uccidi la passione, trasformala in prestazione, in denaro.
Chi è appassionato trabocca, non sta dentro al contenitore piccolo del suo ruolo.
Ruolo, professionalità, distanza, tutti termini che appartengono al vocabolario della frantumazione e che assolvono al precipuo compito di neutralizzare le passioni, i traboccamenti, le rivendicazioni di inusitati congiungimenti.
Noi amiamo tutto questo. E’ all’ombra della separazione e della gerarchia, delle competizioni e della privacy che abbiamo edificato un mondo in cui l’unica unità di misura, neutra per eccellenza (il neutro, caro Fourier, non è il pivot delle passioni, come tramite tra i differenti, no è il suo nullificatore), è il denaro.
Ci facciamo pagare e paghiamo un’ora di cura, di massaggio, di attenzione. E che sia così. Mica che mi tocchi magari di restituire cura, massaggio o attenzione.
Fiori del solipsismo contemporaneo, la frantumazione, la separazione, la gerarchizzazione, la catalogazione dominano incontrastati.
Anche l’immersione nella natura è un gesto separato, già nel momento in cui parliamo di natura come qualcosa di separato, senza saper riconoscere (ahimé spesso perché estinta) la natura in noi. Cosa vuol dire immergersi nella natura, designare oggi qualcosa come natura, o come tempo libero, se non predisporre le condizioni di separazione necessarie perché qualcuno ne possa fare un bel pacchetto da vendere tutto completo, con musica di sottofondo?
La musica è separata, l’amore è separato, il gesto dell’insegnare è separato.
Nessuno che si doni anima e corpo, o solo anima o solo corpo. Tutti e due diventa relazione (cfr. catalogo), coppia, amore di coppia, c’è già un bel sarcofago dove metterlo a dimora, perché riposi in pace, defunto.
Eccoci, noi, fatti a pezzi. Un pezzetto di relax, un pezzetto di cultura, un pezzetto di lavoro, un pezzetto di giardinaggio, un pezzetto di pet-therapy, un pezzetto di amore, un pezzetto di dolore, un pezzetto di morte.
E’ così che abbiamo debellato la morte in fondo.
Niente vita niente morte. E’ così semplice.
Niente unità, niente fine di nulla.
Sopravvissuti sì ma come frammenti. Non sappiamo neppure mai chi siamo, ce lo prescrive il ruolo.
Toh, adesso faccio l’insegnante, e tra poco l’amante, poi dopo farò il papà e poi, chi sa, lo sportivo.
Nessun papa insegnante e amante e sportivo e addolorato e mistico mentre è padre. Nessun insegnante appassionato che faccia a pezzi le tensioni muscolari che lo ingabbiano nel ruolo.
La bellezza di non essere nessuno da nessuna parte. Fine della tenera finzione della vita integra.
Puttanate romantiche, buone tutt’al più per disperati e anarchici.
Godiamo fratelli, si può sopravvivere così, come marionette appese ai multipli fili delle nostre maschere e delle nostre difese.
Contro la vita.
Poi ci lamentiamo della disperazione.
Non dimentichiamo. Siamo grati a quella disperazione, perché viene da un luogo in cui qualcosa della vita sopravvive. Se siamo disperati, e lo siamo, oh sì, è perché qualcosa di ancora vivo in noi rilutta.
Stiamo vicino a quella disperazione, può insegnarci qualcosa, un anelito di desiderio, una voglia di partecipazione, un desiderio di riprendersi pezzo a pezzo il proprio intero e non essere più funzionari del nulla.
Prima di essere definitivamente sterminati e non avvertire neppure più il dolore, neppure un prurito.
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