Non ci sono molti modi per dirlo e l’unico che abbia senso è il più diretto
e brutale: la causa palestinese è finita. Non si tornerà alla Linea
Verde e agli pseudo-confini in essere tra il 1949 e il 1967, Gerusalemme Est
non sarà mai la capitale dello Stato di Palestina anche per la semplice ragione
che non ci sarà mai uno Stato di Palestina. Benjamin “Bibi” Netanyahu, primo
leader del Governo a essere nato nello Stato di Israele, quattro volte primo
ministro e secondo premier più longevo dopo il padre della patria David Ben
Gurion, ha vinto. Ha ridotto l’opposizione armata dei palestinesi a un
problema di ordine pubblico, ha incrementato la politica degli insediamenti
(oggi il 10% della popolazione israeliana vive nelle “colonie”), il suo partito
Likud ha proposto l’annessione diretta di tutti gli insediamenti di Giudea e
Samaria (chiamate “aree liberate”), lui si è presentato agli elettori con la
promessa che lo Stato palestinese non sarà mai creato (e l’hanno rieletto), si
è fatto dare soldi e armi da Obama e Gerusalemme da Trump.
Ieri bastava guardare su Internet per averne la
dimostrazione plastica. A Gerusalemme, il vice presidente Usa Mike Pence si
diceva felice di essere “nella capitale di Israele”. E quando alla
Knesset, il Parlamento, i deputati arabi ha provato a contestarlo, la sicurezza
li ha ramazzati via dall’aula tra gli applausi dei loro “colleghi”. Nelle stesse
ore, Abu Mazen, a Bruxelles, chiedeva alla Ue di riconoscere lo Stato di
Palestina in maniera definitiva, e non solo “in linea di principio” come già
fatto nel 2014. Forse ignaro del fatto che in Europa solo 5 nazioni
hanno fatto quel passo e, soprattutto, inconsapevole della triste realtà: più è
cresciuto il numero dei Paesi che hanno riconosciuto la Palestina (siamo a
130), più è cresciuto il controllo di Israele sulla Palestina stessa.
Controprova: più cala il sostegno diplomatico a Israele (la mozione di condanna
della decisione Usa su Gerusalemme è stata respinta da soli 7 Paesi, in
maggioranza scartine), più aumenta il potere di Israele sui palestinesi.
Povero Abu Mazen. Povero vecchio e corrotto leader, che piatisce un
riconoscimento presso quella stessa Ue che mise Tony Blair, invasore e
distruttore dell’Iraq e responsabile di decine di migliaia di morti, a guidare
dal 2007 al 2015 quel Quartetto (Usa, Russia, Ue e Onu) che doveva portare la
pace tra gli israeliani e gli arabi palestinesi.
Quindi, diciamolo senza ipocrisie: la causa palestinese è politicamente
morta. È meglio saperlo. Per non farsi illusioni. Per non continuare a credere
in quella finzione chiamata diritto internazionale e nella sequela di
risoluzioni contro le azioni di Israele con cui l’Onu si è riempito la bocca
senza cavare un ragno dal buco. D’altra parte la creazione di uno Stato
non è mai questione di diritto ma di forza. Israele non è nato perché
gli ebrei avevano diritto a tornare a casa ma perché il Regno Unito negli anni Dieci
aveva la potenza necessaria a imporre la loro presenza in Palestina. Il Kosovo
uguale. Transdnistria, Ossetia del Sud e Abkazia idem. La Cecenia non ce
l’ha fatta perché non ne aveva la forza. I Royingha, presi a calci nel sedere
in Asia, stanno ancora peggio dei ceceni degli anni Novanta, anche se uno dei
regni più antichi della regione era proprio il loro.
La causa palestinese è finita perché non ha la forza
per imporsi. Perché è stata via via abbandonata da tutti, in primo luogo dagli
ex amici arabi del golfo Persico, che si sono trasferiti armi e bagagli sul
lato di Israele e degli Usa. E non è che ci sia molto altro di dire.
Qualcuno può forse esultare, di fronte a questa situazione. Non noi. E per
molte ragioni. La prima è questa: se la causa palestinese è finita,
certo non sono finiti i palestinesi. Che vogliamo fare di questa gente, di
questo popolo? Israele si affanna da decenni a portar loro via ogni pezzo di
terra fertile e non dice che cosa dovrebbero succedere alle persone. I
palestinesi (4 milioni tra Gaza e Cisgiordania, più almeno altri 2 milioni di
Israele) saranno inglobati in un solo Stato ebraico? No, perché diventerebbero
maggioranza e addio Stato ebraico, visto anche che l’aliya (la “salita a
Israele”) ristagna da tempo e se non fosse stato per la dissoluzione
dell’Urss… Saranno sterminati? Certo che no. Saranno forse trasferiti
sulla Luna?
Israele non dice che cosa ha in mente. Qualcuno mormora: tutti i
palestinesi in Giordania, dove peraltro il 70% della popolazione è di origine
palestinese. Un film già visto, che portò al Settembre Nero del 1970, con
stragi e ulteriori esili. Un altro terremoto per il Medio Oriente che, però,
potrebbe fornire a Israele l’occasione di un’ulteriore espansione. Tumulti ai
confini, ragioni di sicurezza, Stato in pericolo. Un piccolo sconfinamento qui,
una base là, un insediamento un po’ più giù, e la storia degli ultimi decenni
si ripeterebbe un po’ più a Est. Perché non c’è nulla che faccia venir voglia
di vincere come vincere, si sa. Oltre, naturalmente, ad avere la forza per
battersi.
Chi oggi esulta, dunque, pensi a domani. Ci pensi
bene. E provi a mettersi nei panni di un politico dell’Iran o della Siria. Al
loro posto non la vorreste una bomba atomica, giusto per essere sicuri di non
fare la stessa fine dei palestinesi, o di chiunque, da Saddam a Gheddafi, si
trovi di colpo a intralciare i piani di qualcuno più grosso di lui?
Se la causa politica palestinese è morta, il miglior
modo di agire non sta nel far finta che sia ancora viva. Sta nel porre un
problema politico a Israele. Lo Stato ebraico deve dire che cosa vuol fare delle
persone, visto che la terra se l’è già presa quasi tutta. Spieghi e presenti
un piano credibile, anche dal punto di vista dei diritti umani. Perché è
piuttosto insopportabile che oltre sei milioni di palestinesi siano, di fatto,
nelle mani di Netanyahu e l’Occidente, sempre così affannato a trafficare
coi diritti e con la libertà in giro per il mondo, si contenti di produrre
quattro documenti e versare quattro soldi a un manipolo di dirigenti
palestinesi corrotti pur di sentirsi a posto e i poter girare la testa
dall’altra parte. Dalla parte da dove arrivano i contratti e gli affari
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