La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
sabato 30 novembre 2024
Oblio Programmato - Chris Hedges
Gaza è distrutta. Non verrà ricostruita, almeno per i
palestinesi. Chi ci ha vissuto trascorrerà la vita, come i sopravvissuti al
Genocidio Armeno, cercando disperatamente di preservare la memoria.
Mi trovo nel Centro
“The Krikor and Clara Zohrab” accanto alla cattedrale armena di San Vartan a
Manhattan, New York. Ho in mano un libro di memorie scritto e rilegato a mano,
che include poesie, disegni e ritagli di immagini di Zaven Seraidarian, un
sopravvissuto al Genocidio Armeno. La copertina del libro, uno dei sei volumi,
recita “Diario Insanguinato”. Gli altri volumi hanno titoli come: “Gocce di
Primavera”, “Lacrime” e “Il Cucchiaio di Legno”.
“Il mio nome rimarrà
immortale sulla terra”, scrive l’autore. “Parlerò di me stesso e racconterò di
più”.
Il Centro ospita
centinaia di documenti, lettere, mappe disegnate a mano di villaggi scomparsi,
fotografie ingiallite, poesie, disegni e storie, molte delle quali non
tradotte, sui costumi, le tradizioni e le famiglie illustri delle comunità
armene perdute.
Jesse Arlen, il
direttore del Centro, guarda sconsolato il volume che ho in mano.
“Probabilmente nessuno
l’ha letto, guardato o sapeva nemmeno che fosse qui”, dice.
Apre una scatola e mi
porge una mappa disegnata a mano da Hareton Saksoorian del villaggio di Havav a
Palu, dove gli armeni nel 1915 furono Massacrati o espulsi. Saksoorian ha
disegnato la mappa a memoria dopo essere fuggito. I disegni delle case armene
hanno segnati in minuscolo i nomi dei morti del tempo.
Questo sarà il destino
dei palestinesi a Gaza. Anche loro presto combatteranno per preservare la
memoria, per sfidare un mondo indifferente che è rimasto a guardare mentre
venivano Massacrati. Anche loro cercheranno ostinatamente di preservare
frammenti della loro esistenza. Anche loro scriveranno memorie, storie e
poesie, disegneranno mappe di villaggi, campi profughi e città che sono stati
cancellati, scriveranno storie dolorose di Massacro, Carneficina e Perdita.
Anche loro nomineranno e condanneranno i loro assassini, deploreranno lo
Sterminio di famiglie, tra cui migliaia di bambini, e lotteranno per preservare
un mondo scomparso. Ma il tempo è un compagno crudele.
La vita intellettuale
ed emotiva di coloro che vengono cacciati dalla loro Patria è definita dal
crogiolo dell’esilio, ciò che lo studioso palestinese Edward Said mi ha detto
essere “la frattura insanabile forzata tra un essere umano e un luogo nativo”.
Il libro di Said “Fuori Posto” è una testimonianza di questo mondo perduto.
Il poeta armeno Armen
Anush è cresciuto in un orfanotrofio ad Aleppo, in Siria. Cattura la condanna a
vita di coloro che sopravvivono al Genocidio nella sua poesia “Ossessione
Sacra”.
Scrive:
Paese di luce, mi
visiti ogni notte nel sonno.
Ogni notte, esaltata,
come una dea venerabile,
Porti nuove sensazioni
e speranze alla mia anima esiliata.
Ogni notte allevi i
tentennamenti del mio cammino.
Ogni notte riveli i
deserti sconfinati,
Gli occhi aperti dei
morti, il pianto dei bambini in lontananza,
Il crepitio e la
fiamma rossa degli innumerevoli corpi bruciati,
E la carovana senza
riparo, sempre incerta, sempre barcollante.
Ogni notte la stessa
scena infernale e mortale –
L’Eufrate stanco che
lava il sangue dai corpi feriti,
Le onde che si
rallegrano con i raggi del sole,
E alleviano il
fardello del suo peso inutile e stanco.
Gli stessi pozzi umidi
e neri di corpi carbonizzati,
Lo stesso fumo denso
che avvolge l’intero deserto siriano.
Le stesse voci dalle
profondità, gli stessi lamenti, dolci e senza sole,
E la stessa barbarie
brutale e spietata della folla turca.
La poesia si conclude,
tuttavia, con una supplica non che questi terrori notturni finiscano, ma che
“vengano da me ogni notte”, che “la fiamma dei tuoi eroi” accompagni sempre “i
miei giorni”.
“La lotta dell’uomo
contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”, ci ricorda Milan
Kundera.
È meglio sopportare un
trauma paralizzante che dimenticare. Una volta che dimentichiamo, una volta che
i ricordi vengono eliminati, l’obiettivo di tutti gli Assassini Genocidi, siamo
schiavi di bugie e miti, separati dalle nostre identità individuali, culturali
e nazionali. Non sappiamo più chi siamo.
“Ci vuole così poco, così infinitamente
poco, perché una persona attraversi il confine oltre il quale tutto perde
significato: amore, convinzioni, fede, storia”, scrive Kundera nel “Libro Della
Gioia e Dell’Oblio”. “La vita umana, e qui sta il suo segreto, si svolge nelle
immediate vicinanze di quel confine, persino a diretto contatto con esso; non è
lontano miglia, ma una frazione di pollice”.
Coloro che hanno
attraversato quel confine tornano da noi come profeti, profeti che nessuno
vuole sentire.
Gli antichi greci
credevano che quando le anime dei defunti venivano traghettate nell’Ade,
fossero costrette a bere l’acqua del fiume Lete per cancellare la memoria. La
distruzione della memoria è l’obliterazione finale dell’essere, l’ultimo atto
della mortalità. La memoria è la lotta per fermare la mano del traghettatore.
Il Genocidio a Gaza
rispecchia l’annientamento fisico dei Cristiani armeni da parte dell’Impero
Ottomano. I turchi ottomani, che temevano una rivolta nazionalista come quella
che aveva sconvolto i Balcani, cacciarono quasi tutti i due milioni di armeni
dalla Turchia. Uomini e donne venivano solitamente separati. Gli uomini
venivano spesso immediatamente giustiziati o mandati nei Campi di Sterminio,
come quelli di Ras-Ul-Ain (nel 1916 oltre 80.000 armeni furono Massacrati lì) e
Deir-el-Zor nel deserto siriano. Almeno un milione di persone furono costrette
a Marce della Morte, non diversamente dai palestinesi di Gaza che sono stati
sfollati con la forza da Israele, fino a una dozzina di volte, nei deserti di
quelli che oggi sono Siria e Iraq. Lì, centinaia di migliaia di persone furono
Massacrate o morirono di fame, stenti e malattia. I loro corpi erano sparsi
nella distesa desertica. Nel 1923, si stima che 1,2 milioni di armeni fossero
morti. Gli orfanotrofi in tutto il Medio Oriente furono inondati da circa
200.000 bambini armeni in miseria.
La Resistenza
destinata a fallire da parte di diversi villaggi armeni sulle montagne lungo la
costa dell’attuale Turchia e Siria che scelsero di non obbedire all’ordine di
deportazione fu colta nel romanzo di Franz Werfel: “I Quaranta Giorni di Musa
Dagh”. Marcel Reich-Ranicki, un critico letterario polacco-tedesco
sopravvissuto all’Olocausto, ha detto che era ampiamente letto nel Ghetto di
Varsavia, che aveva organizzato una rivolta destinata a fallire nell’aprile del
1943.
Nel 2000, quando aveva
98 anni, ho intervistato lo scrittore e cantante Hagop H. Asadourian, uno degli
ultimi sopravvissuti al Genocidio Armeno. Era nato nel villaggio di Chomaklou
nella Turchia orientale ed era stato deportato, insieme al resto del suo
villaggio, nel 1915. Sua madre e quattro delle sue sorelle morirono di tifo nel
deserto siriano. Ci sarebbero voluti 39 anni prima che si riunisse alla sua
unica sorella sopravvissuta, dalla quale era stato separato una notte vicino al
Mar Morto mentre fuggivano con un gruppo di orfani armeni dalla Siria a
Gerusalemme.
Mi ha detto che ha
scritto per dare voce alle 331 persone con cui ha arrancato in Siria nel
settembre del 1915, di cui solo 29 sono sopravvissute.
“Non si può mai
veramente scrivere quello che è successo, comunque”, ha detto Asadourian. “È
troppo macabro. Combatto ancora con me stesso per ricordarlo così com’è stato.
Scrivi perché devi. Tutto sgorga dentro di te. È come una buca che si riempie
costantemente d’acqua e non si svuota mai in nessun modo. Ecco perché continuo”.
Si è fermato per
riprendersi prima di continuare.
“Quando è arrivato il
momento di seppellire mia madre, ho dovuto chiedere ad altri due bambini di
aiutarmi a trasportare il suo corpo fino a un pozzo dove stavano gettando i
cadaveri”, ha detto. “Lo abbiamo fatto in modo che gli animali non li
mangiassero. La puzza era terribile. C’erano sciami di mosche nere che
ronzavano sopra l’apertura. L’abbiamo spinta dentro con i piedi per primi e gli
altri bambini, per sfuggire all’odore, sono corsi giù per la collina. Io sono
rimasto. Ho dovuto guardare. Ho visto la sua testa, mentre cadeva, sbattere
contro un lato del pozzo e poi sull’altro prima di scomparire. In quel momento,
non ho sentito nulla”.
Si fermò, visibilmente
scosso.
“Che tipo di figlio è
quello?” chiese con voce roca.
Alla fine trovò la
strada per un orfanotrofio a Gerusalemme.
“Queste cose ti
scavano dentro, non solo una volta, ma per tutta la vita, per tutta la vita,
ancora oggi”, ha detto a un intervistatore della Fondazione USC Shoah*. “Ho 98
anni, e ancora oggi non riesco a dimenticare nulla di tutto questo. Forse
dimentico quello che ho visto ieri, ma non sono riuscito a dimenticare queste
cose. Eppure, dobbiamo implorare le nazioni di riconoscere il Genocidio. Ho
perso undici dei miei famigliari e devo implorare le persone di credermi.
Questo è ciò che fa più male. È un mondo terribile, un’esperienza terribile”.
(*Fondata dal regista statunitense Steven Spielberg nel 1994, allo scopo di
registrare le testimonianze dei sopravvissuti e degli altri testimoni
dell’Olocausto come raccolta di interviste videoregistrate.)
I suoi 14 libri erano
una lotta contro la cancellazione, ma quando ho parlato con lui ha ammesso che
il lavoro dell’esercito turco era ormai quasi completato. Il suo ultimo libro è
stato “The Smoldering Generation” (La Generazione Bruciata), che ha detto
riguardava “l’inevitabile perdita della nostra cultura”.
Il presente è qualcosa
in cui i morti non hanno alcun ruolo.
“Nessuno prende il
posto di coloro che se ne sono andati”, ha detto, seduto davanti a una finestra
panoramica che dava sul suo giardino a Tenafly, nel New Jersey. “I tuoi figli
non ti capiscono in questo Paese. Non si può biasimarli”.
Il mondo degli armeni
nella Turchia orientale, menzionato per la prima volta dai greci e dai persiani
nel 6 a.C., è, come Gaza, la cui storia abbraccia 4.000 anni, praticamente
scomparso. I contributi della cultura armena sono stati dimenticati. Furono i
monaci armeni, ad esempio, a salvare dall’oblio opere di antichi scrittori
greci come Philo ed Eusebio.
Mi sono imbattuto
nelle rovine di villaggi armeni quando lavoravo come corrispondente nella
Turchia Sud-Orientale. Come i villaggi palestinesi distrutti da Israele, questi
villaggi non apparivano sulle mappe. Coloro che compiono un Genocidio cercano
l’annientamento totale. Non deve rimanere nulla. Soprattutto la memoria.
Questa sarà la nostra
prossima battaglia. Non dobbiamo dimenticare.
Chris Hedges è un
giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per
quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio
per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha
lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor
e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On
Contact.
Traduzione: Beniamino
Rocchetto – Invictapalestina.org
venerdì 29 novembre 2024
Privato è bello. Il verbo smantellare significa solo fare la guerra ai poveri – Alessandro Robecchi
Se c’è una parola felice, che avanza in ogni dove sul pianeta e miete
vittime, è il verbo “smantellare”. Rimbalza ovunque, più o meno rivendicata:
dall’Italia all’Argentina, all’America trump-muskiana è tutto uno smantellare,
ridurre, cancellare, limare. Tutto ciò che è pubblico viene smantellato –
potremmo anche dire martellato – con gran cagnara e applausi dei cosiddetti
liberisti, che non sanno più cosa liberare, ma lo “liberano” lo stesso. Giorgia
Meloni che riceve in dono dal signor Milei la statuetta di lui medesimo con la
sega circolare in mano e la mostra divertita nelle fotografie ufficiali,
rappresenta una specie di accettazione del gioco: massì, sembra goliardia, una
spiritosaggine, e del resto qui assistemmo a veri orgasmi e ovazioni quando il presidente
argentino urlava come un invasato “afuera!”: via, via tutto. Istruzione,
sanità, sicurezza, assistenza, welfare, tutti settori in cui si ostina a
considerare fondamentale la presenza dello Stato, e invece no, che sia il
mercato a decidere o meglio – obiettivo e conseguenza – chi ha i soldi pensi
per sé e gli altri si fottano. Un’ideologia molto precisa, che storicamente si
fa risalire a due iatture antiche, Ronald Reagan e Margareth Thatcher, e che
poi ha preso a scivolare su un piano sempre più inclinato.
Le metafore si sprecano, persino esagerate, come quella della nuova
ministra dell’istruzione americana, Linda McMahon, che in decine di video
prende allegramente a calci nei coglioni i campioni del wrestling, grande
finanziatrice di Trump, promossa per i soldi che ha versato e soprattutto per
la volontà di smantellare il suo dipartimento. Cioè: il mandato per la scuola
pubblica è distruggere la scuola pubblica, o quel che ne rimane. Che non è
diverso da quel che vuol fare Milei quando chiama il ministero dell’Istruzione
argentino “Indotrinamiento” e grida “Afuera!”. Che è poi lo stesso che vediamo
qui, con qualche prudenza in più, ma nemmeno tanta, quando si disinveste sulla
scuola pubblica (stipendi infami, docenti che mancano, cattedre ballerine) e si
promettono finanziamenti alle scuole private.
Il trucco è noto: piano piano si ostacola ciò che è pubblico, gli si taglia
l’erba sotto i piedi, lo si fa operare male, gli si crea una brutta nomea e poi
– quando finalmente non funziona più – si invoca l’intervento del privato come
un toccasana. Lo vediamo ogni giorno con la sanità italiana, non c’è bisogno di
esempi eclatanti, anche se è vero che in altre parti del mondo i lavori sono
più avanzati. L’incarico all’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, di svuotare
il bilancio statale americano con una spaventosa spending review che
smantellerebbe il poco di pubblico che rimane laggiù è illuminante. E del
resto, perché stupirsi se allo stesso privato viene appaltata la corsa allo
spazio, il sistema di comunicazioni satellitari, persino certi segreti militari
che una volta lo Stato si teneva stretti stretti?Può apparire una discreta
contraddizione che proprio mentre tornano di moda nazionalismi e sovranismi
vari si smantellino sempre più velocemente e violentemente i poteri dei vari
stati nazionali con una cessione di potere – di affari e potere – ai privati.
Ma forse non è così. Anzi si precisa sempre più che la competizione non è tra
Stati – bandiere, divise, confini, cose così – ma tra componenti della società:
chi ha e chi non ha, chi può pagare e chi non può, che è una dimensione globale
di guerra ai poveri, cioè agli sfigati che producono ricchezza ma non ne
godono, non se lo meritano, afuera!
giovedì 28 novembre 2024
mercoledì 27 novembre 2024
Quanti e quali disagi dovremmo vivere a causa dei cantieri della Torino-Lione nella piana di Susa? E quanto dureranno?
Quanti e
quali disagi dovremmo vivere a causa dei cantieri della Torino-Lione nella piana
di Susa? E quanto dureranno?
Sono queste
le domande a cui ieri i tecnici del Movimento No Tav hanno risposto
all’assemblea informativa che si è tenuta in una gremita sala consigliare a
Susa. Tanti i cittadini e le cittadine segusine che, allarmate dai futuri
scenari di disagi e devastazione che si prospettano, hanno partecipato
esprimendo la loro preoccupazione. Così come è stata preoccupante l’assenza
della giunta comunale nel confronto con i cittadini rispetto agli ipotetici
cantieri che inizieranno ad ottobre con la presa di possesso dei terreni dove
sorge il Presidio “Sole e Baleno” di San Giuliano. Non ci sarebbe bisogno di
essere No Tav per avere a cuore il futuro del proprio territorio e della
propria salute.
È da
moltissimi anni che si studia il progetto e non si parla certo per partito
preso. Gli stessi studi di Telt sono costretti ad ammettere che le ricadute
sanitarie e ambientali saranno inevitabili, ingenti e irreversibili.
Sono più di
trent’anni che si parla di quest’opera e il fatto che ancora nessun tunnel di
base sia stato scavato su entrambi i fronti, ci dovrebbe dimostrare
l’obsolescenza di un progetto che per flusso di merci e condizioni climatiche
non ha più senso di esistere.
Come ci
hanno spiegato i tecnici, la stima della durata dei lavori nella Piana di Susa
(che cominceranno effettivamente nel 2027) è di 6 anni, ma se calcoliamo la
lentezza con cui vengono elargiti i finanziamenti europei, sappiamo che questa
cantierizzazione potrebbe diventare più che ventennale ed è meglio stroncarla
sul nascere.
Ma non solo.
Ciò che con la nostra lotta dovremo sventare, sono i danni ambientali che
porterà questo enorme cantiere, a cominciare dalla perdita e l’inquinamento
delle acque. Già nei cantieri francesi, vengono sperperati 40 litri di acqua al
secondo a causa degli scavi delle discenderie, che in alcuni paesi ha
comportato l’utilizzo di autobotti per l’approvvigionamento dell’acqua per i
cittadini. Per non parlare degli agenti schiumogeni e gli indurenti del cemento
a base di Pfas, gli “inquinanti eterni” che verranno usati per stessa
ammissione di Telt e che già sono stati trovati da Greenpeace in quantità
preoccupanti nell’acqua della nostra valle.
E poi ci
sono i danni alla salute a causa delle polveri sottili (pm10, pm 2,5 e con
tutta probabilità anche fibre di amianto) che verranno sollevate da scavi,
movimento terra e stoccaggio di smarino. Negli studi di Telt è stimato che il
10% della popolazione (soprattutto quella più fragile) si ammalerà di malattie
cardiovascolari e respiratorie.
I disagi
alla viabilità saranno enormi. Il progetto sulla piana di Susa è un vero e
proprio incubo, che comporterà nel tempo la chiusura a turno delle statali,
dell’autostrada, la sospensione della ferrovia in cambio di un servizio
navette, l’innalzamento e l’abbassamento degli svincoli e delle strade
cittadine (come via Montello). Oltre a tutti i residenti, ne risentirà anche
l’economia segusina che vedrà un crollo dei flussi turistici e una grande
svalutazione immobiliare. D’altronde chi vorrebbe passare del tempo in mezzo
alle polveri e ai camion di un mastodontico cantiere?
Per ultimo,
ma non per importanza, sarà la penalizzazione degli istituti scolastici
segusini in cui sono iscritti centinaia di studenti e studentesse di tutta la
valle. Con l’interruzione della ferrovia, raggiungere le scuole di Susa per
i/le giovani della valle, diventerà un’impresa titanica e faticosa che
comporterà probabilmente l’abbandono delle iscrizioni in favore di istituti più
facilmente accessibili.
È per tutte
queste ragioni che abbiamo lanciato un appello alla mobilitazione per sventare l’inizio di
questo scempio (link). Invitiamo tutti e tutte alle iniziative e al campeggio
contro l’esproprio dei terreni (di cui, ricordiamo, sono proprietari 1054 No
Tav) del presidio di San Giuliano.
Avanti No
Tav, alimentiamo la resistenza popolare!
martedì 26 novembre 2024
DDL Sicurezza, il manuale della repressione - Anna Cortimiglia
Analisi del Ddl 1660: così con la scusa della sicurezza si colpiscono (ancora) il dissenso e le forme di vita non compatibili
(da Jacobin
Italia)
Il 18 settembre, la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge n. 1660, ormai conosciuto come «Decreto Sicurezza». Il testo, proposto congiuntamente dai Ministri
dell’Interno, della Giustizia e della Difesa, deve adesso passare al Senato per
l’approvazione in via definitiva.
Il disegno di legge è, nel suo contenuto, un insieme
eterogeneo di interventi normativi che incidono sul codice penale, sul
cosiddetto codice Antimafia e su numerose leggi speciali. Ma non è solo questo:
il testo può essere inteso come un insieme – da questo punto di vista, molto
omogeneo – di messaggi nei confronti di una serie di destinatari. Analizzeremo
uno per volta, dunque, gli interlocutori cui si fa riferimento e le norme che
li riguardano: i manifestanti, le forze dell’ordine, le persone private della
libertà personale, le persone migranti e, infine, gli autori (ma soprattutto le
autrici) di reati minori contro il patrimonio.
La prima considerazione tecnica, che vale per tutti
gli interventi in questione, è che si è davanti a un complessivo progetto di
quello che dai penalisti è chiamato «diritto penale d’autore»: se il diritto
penale moderno dovrebbe essere caratterizzato dalla sua natura di diritto
penale «del fatto», dunque sanzionare più o meno gravemente delle condotte in
ragione della loro concreta offensività, si intende per diritto
penale «dell’autore» un sistema in cui ha rilevanza preponderante chi commette
un fatto, e non quanto questo fatto risulti dannoso o pericoloso. Ancor più
eloquentemente, si parla dunque di diritto penale del nemico.
(Ancora) la criminalizzazione del dissenso
Un primo insieme di norme è quello che si rivolge agli
attivisti, soprattutto agli attivisti per il clima. In realtà, questi ultimi
erano già stati oggetto di un’iniziativa legislativa ad hoc il
cosiddetto «decreto eco-vandali» del gennaio 2024, che aveva inasprito le sanzioni per i reati di
imbrattamento e danneggiamento e previsto nuove sanzioni amministrative
pecuniarie.con il nuovo disegno di legge si prosegue lungo la via già tracciata
dalle precedenti innovazioni normative, sancendo un aggravamento di pena nel
caso in cui il reato di danneggiamento sia commesso in occasione di
manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico con violenza alla persona
o minaccia. Il reato di imbrattamento, in pratica, è ormai tutto dedicato agli
attivisti di Ultima Generazione: un’aggravante, inserita dal citato decreto
«eco-vandali», è volta a punire più severamente le pratiche di protesta nei
musei («se il fatto è commesso su teche, custodie e altre strutture adibite
all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali»), quella di
nuovo conio fa invece riferimento alle condotte di deturpamento o imbrattamento
commesse «su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni
pubbliche» con la finalità di «ledere l’onore, il prestigio o il decoro»
dell’istituzione alla quale appartengono. Leggasi: gli imbrattamenti
dimostrativi dei palazzi del Governo e del Parlamento portati avanti negli
ultimi anni. In quest’ultimo caso, si applicherà la pena della reclusione da
sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.
Un altro esempio di diritto penale d’autore è
rappresentato dall’introduzione del reato di blocco stradale o ferroviario, che
punisce a titolo di illecito penale (e non più con la sola sanzione amministrativa)
chiunque «impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata,
ostruendo la stessa con il proprio corpo». La pena è significativamente
aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite, a dimostrazione, se ce
ne fosse ancora bisogno, del fatto che il fenomeno che si intende sanzionare è
quello delle mobilitazioni collettive di protesta: tanto che la norma è stata
battezzata dai movimenti come «norma Anti-Gandhi».
Ultimo messaggio ai manifestanti: in virtù di un
emendamento approvato nel corso della discussione parlamentare, viene prevista
un’ulteriore circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia a un
pubblico ufficiale, di resistenza a pubblico ufficiale e altri simili illeciti
se il fatto è commesso «al fine di impedire la realizzazione di un’opera
pubblica o di un’infrastruttura strategica». Evidente, in questo caso, il
riferimento ai movimenti No Tav e alle proteste che si prefigurano contro la
costruzione del Ponte sullo Stretto.
Se, da un lato, il Governo rimarca chiaramente il
proprio posizionamento verso gli attivisti e le attiviste per il clima e contro
le grandi opere (si segnala anche, a completamento del quadro, un emendamento
proposto dalla Lega che mirava espressamente a criminalizzare gli scioperi,
emendamento non approvato forse perché troppo scopertamente
anticostituzionale), dall’altro, altrettanto chiaramente, si intende
rafforzare la tutela delle forze dell’ordine (una tutela articolata perlopiù
nei termini di nuove e più gravi sanzioni penali, più che, ad esempio, di
miglioramento delle condizioni di lavoro). Con la modifica dell’art. 583-quater del
codice penale, si introduce la nuova fattispecie di reato di «lesioni personali
a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto
o a causa dell’adempimento delle funzioni»; in secondo luogo, le modifiche agli
articoli 336, 337 e 339 del codice penale introducono una circostanza
aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico
ufficiale se il fatto è commesso «nei confronti di un ufficiale o un agente di
polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza», peraltro prevedendo il divieto di
prevalenza delle attenuanti sulla predetta aggravante.
Come già segnalato da più parti, ad esempio nel parere reso alla Camera da Asgi e Antigone, queste
norme creano un sottoinsieme inedito all’interno della categoria dei pubblici
ufficiali, composto solo da agenti di polizia. In questo modo, un atto di
violenza contro un agente di polizia è punito più severamente rispetto a quello
commesso contro qualsiasi altro pubblico ufficiale, come, ad esempio, un
magistrato.
Sorvegliare e punire
Per quanto sicuramente gravi nelle intenzioni
scopertamente liberticide, le norme previste dal decreto sicurezza sul dissenso
e sulla libertà di manifestazione hanno un effetto più propagandistico che
repressivo se paragonate alle norme previste nei confronti di altri soggetti. È
forse il caso di decolonizzare lo sguardo sul decreto sicurezza: non sono gli
attivisti l’epicentro di questo provvedimento normativo. La criminalizzazione
del dissenso è solo un tassello della teoria dello Stato e della società che si
vuole rendere concreta con un disegno di legge che, ancora una volta, alla sua
approvazione esplicherà gli effetti più distruttivi nei confronti dei soggetti
più deboli ed emarginati.
Veniamo, dunque, al messaggio che il Governo intende
dare alle persone recluse nelle carceri del paese. Con l’obiettivo del
«rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari», il disegno di
legge prevede anzitutto una nuova aggravante del reato di «istigazione a
disobbedire alle leggi» di cui all’art. 415 del codice penale., se questo è
commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o
comunicazioni diretti a persone detenute; si prevede, poi, l’inserimento nel
codice penale di un nuovo delitto di «rivolta all’interno di un istituto
penitenziario». (art. 415-bis).
Vale la pena analizzare nel dettaglio il testo
proposto. Ai sensi del nuovo 415 bis,«chiunque, all’interno di un
istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o
minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre
o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni» (la
pena va invece da 2 a 8 anni per i promotori e organizzatori della rivolta). Il
legislatore precisa, poi, cosa si intende per resistenza all’esecuzione degli
ordini: «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza
passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in
cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio,
impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla
gestione dell’ordine e della sicurezza». Con una definizione involuta, che ben
poco definisce, si sancisce l’equiparazione tra gli atti di violenza e di
minaccia e la mera disobbedienza, se questa crea in qualche modo scompiglio
rispetto al mantenimento dell’ordine.
Si tratta di disposizioni che hanno un significato
chiaro, in un contesto come quello odierno: da un lato, si intende
criminalizzare ogni tentativo di mobilitazione interna rispetto alle condizioni
critiche nelle quali versano le carceri, con un tasso di sovraffollamento
strutturale (del 131% rispetto alla capienza consentita) e un altissimo numero
di eventi suicidari, 69 nel solo anno 2024, cui si aggiungono 17 morti «per
cause da accertare», come evidenziato negli ultimi rapporti del Garante Nazionale (dati aggiornati al 23
settembre 2024). Dall’altro, si riducono gli eventi rivoltosi a mere
questioni di «ordine e sicurezza», rispetto alle quali ci si colloca sempre e
comunque dalla parte delle Forze dell’Ordine coinvolte. Non c’è spazio, in
questo schema, per la voce delle persone detenute: sorvegliate, silenziate, se
necessario punite.
L’iniziativa governativa si colloca, tralaltro, in un
momento in cui sono in corso numerosi procedimenti penali, alcuni in fase di
indagine e altri già in fase più avanzata, per torture e pestaggi nelle carceri italiane: Cuneo, Torino, Biella, Ivrea, persino l’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano, nonché per la nota vicenda
di Santa Maria Capua Vetere, dove rispetto ai fatti avvenuti
nel 2020 (documentati dai video di sorveglianza pubblicati dal giornale
online Domani) sono oggi a processo 103 persone.
Questo posizionamento non stupisce, considerato che un
gruppo di deputati di Fratelli d’Italia, tra cui Delmastro Delle Vedove, oggi
sottosegretario alla Giustizia, il 15 giugno 2020 per gli stessi fatti
presentava un’interpellanza parlamentare proponendo «il conferimento
dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso
l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere».
Non è tutto. La norma sulla rivolta carceraria
prosegue prevedendo sanzioni fino a dodici anni «se dal fatto deriva, quale
conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima» e fino a 18
anni se, ancora quale conseguenza non voluta, dalle rivolte deriva la morte di
taluno. La norma apre scenari punitivi di grande incertezza: morte o lesioni
sembrano essere imputati a promotori e partecipanti della rivolta come eventi
collegati alle condotte dei rivoltosi solo materialmente – si parla,
tecnicamente, di «reati aggravati dall’evento», quindi di ipotesi di
responsabilità in assenza di dolo o colpa, sanzionate in questo caso con pene
gravissime. Potenzialmente, si potrebbero dunque imputare ai detenuti in
rivolta – ricomprendendo, lo si ricorda, in tale nozione anche chi compie atti
di resistenza passiva, come uno sciopero della fame – eventi rispetto ai quali
non hanno avuto controllo alcuno: non si può non pensare alle 14 morti avvenute dopo le rivolte nelle carceri di Rieti,
Bologna e Modena nel marzo del 2020 in circostanze che risultano, ad oggi,
ancora misteriose.
Per rimarcare il messaggio di vicinanza alle Forze
dell’Ordine si va ancora oltre proponendo il riconoscimento di un beneficio
economico a fronte delle spese legali sostenute (10.000 euro per ciascuna fase
del procedimento) da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria, Forze armate e Vigili del Fuoco, indagati o imputati nei
procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Questo, lo si
ripete, nello stesso periodo storico in cui pendono innanzi ai Tribunali di
mezza Italia procedimenti per pestaggi cruenti, umiliazioni e abusi di potere nei
confronti dei detenuti.
Infine, ancora nel nome della «tutela del personale
delle forze di polizia», si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a
portare – senza licenza e fuori servizio – alcune tipologie di armi (arma lunga
da fuoco, rivoltella e pistola di qualsiasi misura, bastoni animati con lama di
lunghezza inferiore a 65 cm).
Migranti e altri nemici
Tra gli obiettivi del decreto sicurezza non possono
mancare, coerentemente con gli orientamenti sinora espressi dal Governo Meloni,
le persone migranti in Italia.
Il nuovo reato di «rivolta carceraria» è infatti
introdotto, con una disposizione del tutto omologa, anche per chi promuove,
organizza, dirige una rivolta non solo nei Cpr, centri di permanenza per i
rimpatri, ma persino presso i centri che fanno parte del sistema di
accoglienza.
La differenza tra queste strutture, forse, non è nota
ai più, ma può essere riassunta in questo modo. I centri di permanenza per i
rimpatri sono «strutture di detenzione amministrativa», ossia centri nei quali
vengono trattenuti, per un tempo massimo di tre mesi prorogabile fino a
diciotto mesi, stranieri che non sono in possesso di un regolare titolo di
soggiorno nella prospettiva dell’espulsione dal paese. Dall’altro lato, i
centri governativi e i Cas (centri di accoglienza straordinaria) sono le
strutture entro le quali viene data accoglienza ai richiedenti protezione
internazionale privi di mezzi di sostentamento; infine, i centri del cosiddetto
«Sai», sistema accoglienza e integrazione, sono strutture all’interno delle
quali sono accolte alcune categorie di richiedenti asilo in situazioni di
vulnerabilità (ad esempio, i richiedenti che fanno ingresso attraverso i
corridoi umanitari) e i soggetti già titolari dello status di rifugiato o altra
forma di protezione internazionale.
Questa puntualizzazione è indispensabile per far luce
sulla portata ideologica della nuova norma penale. Si equiparano alle carceri i
Cpr, strutture in effetti para-detentive, benché permettano la detenzione senza
che sia accertato alcun reato, dove più volte sono state denunciate, anche dal
Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,
le condizioni critiche nelle quali le persone migranti sono
trattenute. Ma non solo. Si equipara espressamente a una forma di detenzione
anche il sistema dell’accoglienza, persino nei confronti delle persone cui è
già stato riconosciuto lo status di rifugiato (ossia, per il
quale è stato accertato il timore fondato di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o
opinione politica): lo si riconosce come un sistema in cui, sostanzialmente, si
intende creare un rapporto non di cura, di accoglienza o integrazione, ma di
sorveglianza. Dove al richiedente protezione internazionale, e persino al
soggetto rispetto al quale la protezione è già stata riconosciuta, è chiesta la
piena obbedienza rispetto agli ordini impartiti.
A completamento di questo quadro, il decreto prevede
una modifica del codice delle comunicazioni elettroniche sancendo che, per la
conclusione di un contratto di telefonia mobile, al cliente cittadino di un
paese fuori dall’Unione europea sia richiesto a fini di identificazione un
documento che attesti il regolare soggiorno in Italia, nello specifico, un
valido permesso di soggiorno. Non si vede altra ratio di
questa norma diversa dall’accanimento nei confronti delle persone straniere in
Italia. Il legislatore, infatti, non può non sapere che, anche avendone il
diritto in presenza di tutti i presupposti di legge, prima che le Questure
italiane rilascino un permesso di soggiorno o persino ne accertino il rinnovo
possono passare anni, a causa dei lunghissimi tempi burocratici: tanto che è
stato necessario esplicitare normativamente, ad alcuni fini, l’equiparazione
tra il permesso vero e proprio e la semplice «ricevuta» della richiesta del
medesimo, onde evitare, ad esempio, che nelle more del rinnovo la persona
straniera non possa validamente stipulare un contratto di lavoro.
C’è di più: anche per la sola richiesta di un permesso
la Questura competente, ad oggi, chiede un recapito telefonico e un indirizzo
email presso il quale fornire tutte le comunicazioni riguardo alla pratica. Non
è chiaro come si dovrebbe risolvere, nella prassi, questo vero e proprio
cortocircuito: serve un permesso di soggiorno per avere un telefono, un
telefono per avere un permesso di soggiorno. Di fatto, si privano le persone
migranti di un mezzo essenziale per comunicare con il paese d’origine ma anche
per prendere contatti con associazioni o con i propri legali. Peraltro,
privando anche di un mezzo diretto per ricevere le comunicazioni dalla stessa
Questura, si rischia di creare ulteriori fonti di irregolarità a causa di
appuntamenti mancati, istanze di integrazione documentale senza risposta, e
così via.
Parallelamente, si sanzionano eventuali iniziative di
solidarietà che si pongano in contrasto con la norma in questione: è prevista
la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o
dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a
vendere schede Sim non adempiano a tale obbligo di identificazione. Per i
singoli che vogliano interporsi, acquistando per altri, si ipotizza velatamente
la possibilità che si configuri il reato di sostituzione di persona (articolo
494 del codice penale).
Non dovrebbe passare inosservata, proprio
contestualmente alla grande mobilitazione per il raggiungimento delle 500.000
firme a sostegno del Referendum per dimezzare i tempi necessari per la
richiesta della cittadinanza italiana, la modifica delle norme sulla revoca
della cittadinanza. Il decreto, infatti, interviene sulle ipotesi di revoca
della cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per gravi reati,
introdotte nel 2018 estendendo da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato
della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di
revoca. La revoca può essere disposta soltanto quando la cittadinanza italiana
sia acquisita non alla nascita – iure sanguinis – ma in un
momento successivo, per naturalizzazione o per matrimonio. Insomma: il
legislatore ammetteva già nel 2018 che non tutti i cittadini italiani sono
uguali. Se nasci «non italiano», non diventerai mai italiano quanto gli altri:
se condannato, la cittadinanza (come fosse un dono ricevuto) potrà essere
revocata persino 10 anni dopo la sentenza di condanna.
Occupazioni abitative: norme «Anti-Salis»
Rimangono da analizzare, a questo punto, le norme che
vengono ricomprese tra le «Disposizioni in materia di sicurezza urbana».
In nome della sicurezza urbana, si introduce tra i
delitti contro il patrimonio il reato di «occupazione arbitraria di immobile
destinato a domicilio altrui». Tale norma, giornalisticamente rinominata «norma
Anti-Salis», a voler dirne bene è inutile, a voler essere obiettivi è
giuridicamente incomprensibile, perché si sovrappone ad almeno altre tre norme
già esistenti. Gli articoli 633 e 634 del codice penale prevedono già i reati
di «invasione di terreni o edifici» e «turbativa violenta del possesso di cose
immobili», che puniscono le medesime condotte; con il cosiddetto. «decreto
rave» del 2022 si era introdotto anche l’art. 633 bis, che
punisce l’«invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o
l’incolumità pubblica». Adesso si propone di punire con la reclusione da due a
sette anni la condotta di chi si «appropria dell’immobile destinato al domicilio
altrui con violenza, minaccia o artifizi o raggiri» ovvero la condotta di chi,
con violenza o minaccia, ne impedisca il rientro. L’unica differenza rispetto
alle fattispecie già esistenti sta nel trattamento sanzionatorio, grave al di
là di ogni principio di proporzione (il massimo di 7 anni è più alto di quello
previsto, ad esempio, per l’omicidio colposo).
Torna il tema del diritto penale dell’autore: si crea
un’esigenza punitiva tramite l’individuazione di un nemico (in questo caso, lo
spunto sono le dichiarazioni dell’europarlamentare Salis, che, dopo gli attacchi della
stampa, aveva ribadito la sua vicinanza ai movimenti milanesi per il diritto
alla casa) e si appronta una facile soluzione. Non a caso, la nuova norma
incriminatrice si rivolge sia agli occupanti sia a chi «si intromette o coopera
nell’occupazione dell’immobile» (potenzialmente, gli attivisti), equiparati a
chi «riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione».
Che l’iniziativa sia destinata più a un nemico
immaginario che a un pericolo sociale in atto è dimostrato anche dalla nuova
«procedura di rilascio coattivo e di reintegrazione nel possesso ad opera della
polizia giudiziaria», che può procedere allo sgombero previa autorizzazione del
pubblico ministero e successiva convalida da parte del giudice nel caso in cui
l’immobile occupato «sia l’unica abitazione effettiva del denunciante». Si
prefigura, dunque, una situazione in cui un qualsiasi cittadino torna dalle
vacanze in casa propria – unica abitazione effettiva – e la trova occupata da
altri. Un fenomeno che non solo non è statisticamente rilevante, ma che di
certo non è l’attività di occupazione di immobili rivendicata da Salis e dai
movimenti per la casa in Italia, che si rivolgono invece alle case sfitte
dell’edilizia popolare. Chi ha mai fatto ingresso in un’aula di Tribunale sa
che, nei procedimenti per occupazione, la parte civile costituita è sempre
l’ente per l’edilizia pubblica del luogo, non privati cittadini espulsi da casa
propria.
Attenzione Pickpocket
Per comprendere chi sono i destinatari dell’ultimo
insieme di norme sulla «sicurezza urbana» che andremo a descrivere serve fare
un passo indietro e mettere a parte il lettore di un fenomeno social e
del correlato dibattito pubblico.
Negli scorsi anni è diventata virale la voce cantilenante di una donna italiana che
avverte, perlopiù nei pressi delle stazioni ferroviarie e delle metro, della
presenza di «borseggiatrici»: il mantra «attenzione borseggiatrici,
attenzione pickpocket» è diventato un meme, rilanciato
su Instagram e Tik Tok come sottofondo dei più svariati contenuti video. La
voce appartiene a Monica Poli, consigliera di municipio a Venezia con la Lega e
membro di un gruppo di residenti che si fa chiamare Cittadini Non Distratti,
impegnato a scovare e segnalare con video-gogna sui social i
presunti responsabili di borseggi ai danni dei turisti che visitano la città.
Non sfuggono i contorni vagamente razzisti di queste e altre pratiche da vigilantes privati:
nella maggior parte dei video non si mostrano i borseggi ma si additano le
borseggiatrici, quindi perlopiù si mostra la presenza di donne straniere
che prima facie sembrano borseggiatrici (Poli ha dichiarato
al New York Times di riconoscerle con il suo sesto senso).
Il tema delle borseggiatrici nelle stazioni, anche
sulla scia di queste iniziative, è dunque entrato nel dibattito pubblico come
l’ennesima problematica di sicurezza e decoro, suscitando un allarme sociale a
cui il Governo intende porre rimedio con numerose norme ad hoc.
Anzitutto, si introduce nell’articolo 61 del codice
penale, tra le cosiddette «aggravanti comuni», che possono dunque accedere a
qualsiasi altro delitto, la nuova circostanza aggravante dell’aver commesso il
fatto «nelle aree interne o nelle immediate adiacenze delle infrastrutture
ferroviarie o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri». E
ancora, si stabilisce che, in caso di condanna per reati contro la persona o il
patrimonio commessi nelle aree e nelle pertinenze dei trasporti pubblici la
concessione della sospensione condizionale della pena debba essere subordinata
all’osservanza del divieto di accesso, imposto dal giudice, a luoghi o aree
specificamente individuate. Se il divieto di accesso non è osservato, il
giudice revoca la sospensione condizionale della pena. Al tempo stesso, viene
aggiunta la possibilità per il Questore di disporre la misura di prevenzione
del divieto di accesso (il cosiddetto Daspo urbano)
alle aree di infrastrutture e pertinenze del trasporto pubblico anche a
soggetti condannati in via non definitiva o anche solo denunciati per reati
contro la persona o il patrimonio. In sintesi: si forniscono numerosi strumenti
per cacciare dalle stazioni e dai mezzi di trasporto pubblici i responsabili di
atti di microcriminalità urbana. Una violenza sproporzionata che colpirà, com’è
ovvio, chi è ai margini delle metropoli italiane.
Infine, sempre in nome della sicurezza urbana, è
ancora alle «borseggiatrici» che ci si rivolge con la modifica gli articoli 146
e 147 del codice penale, che fino a oggi rendono obbligatorio il rinvio
dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età
inferiore a un anno. Una norma di civiltà per la tutela delle donne e dei
neonati, i cui interessi però, all’approvazione del decreto, potranno
soccombere dinanzi all’immane pericolo sociale dei furti in metropolitana. Il
rinvio dell’esecuzione sarebbe meramente facoltativo: si precisa però, come
metro di giudizio, che l’esecuzione non è rinviabile se sussiste «il rischio di
eccezionale rilevanza di commissione di ulteriori delitti». Da notare come
l’eccezionale rilevanza si riferisca al «rischio», e non alla gravità dei
delitti.
Che venga approvato o meno in via definitiva, potremo
ricordare questo provvedimento come il testamento di questo esecutivo, la più
completa rappresentazione del suo posizionamento per i contemporanei e per i posteri.
La compiuta manifestazione di quale idea di sicurezza, e per chi, si intende
portare avanti.
https://www.osservatoriorepressione.info/ddl-sicurezza-manuale-della-repressione/
lunedì 25 novembre 2024
Una scuola screditata - Davide Miccione
Chi voglia andare a vedere se leggi e decreti in esame al Parlamento o ventilati dai vari governi siano sensati o meno si troverà di fronte a una irta selva di rimandi e riferimenti che lo indurrà, in molti casi, a rinunciare e accontentarsi delle sole riduzioni giornalistiche con ciò che ne consegue per l’uscita dallo stato di minorità individuale. Una voluta complicazione (la complessità è ben altro) protegge le élite dalle masse. Ogni gergo, da quello giuridico a quello medico, si trova al punto di incontro tra una legittima necessità di precisione e il desiderio di escludere il profano.
Il mondo
della scuola, cosa gravissima per chi ne pensi la ratio intrinseca,
non è diverso. È avvolto da un gergo oscuro, un pedagogichese che necessita,
per adottarlo, di cattivo gusto e mancanza di buone letture. Il linguaggio
della scuola si muove tra termini pseudo-tecnici stiracchiati fino a non
significare più nulla (o a farsi persino il proprio contrario: inclusione e
competenze sono un ottimo duo esemplificativo) e tra decine e decine di
acronimi che potrebbero ben sostituire quelli partitici cantati decenni fa da
Rino Gaetano in Nuntereggae più: “pci psi/ dc dc / psi psi pli pri/
dc dc dc dc / Cazzaniga”
In verità
non è solo il linguaggio a essere oscuro ma anche le cose: le procedure, le
graduatorie di fascia e di istituto, interne ed esterne, le forme di
reclutamento, i trasferimenti, le utilizzazioni e le assegnazioni, i corsi
abilitanti con riserva e non.
Un ginepraio
che favorisce, come l’Amazzonia fa con le guide indigene e gli esploratori,
l’esistenza di sindacalisti, esperti, guide e siti specializzati consultati
soprattutto da precari a cui si cambiano le regole del gioco a partita iniziata
(partite spesso decennali).
Tutto questo
ha delle conseguenze collettive in termini, si potrebbe dire, di ecologia della
democrazia. Diventa difficile per il cittadino riuscire a capirci qualcosa
giacché la nostra funambolica e circense classe politica esprime in particolar
modo nella scuola la propria stracciona creatività mutando procedure e sistemi
quasi ogni anno. Diventa difficile inquadrare i passaggi, i significati e
ovviamente ancor meno i colpevoli. Questa macchinosità e mobilità di procedure
nel suo complesso costituisce il sistema di creazione e conservazione di un
insieme amorfo e maleodorante e fa sì che, esclusi i tecnici che scrivono su
organi di informazione letti pressoché esclusivamente dal personale della
scuola, i commentatori delle testate maggiori si occupino poco della questione
e quelle poche volte lo facciano male, tenendosi sulle generali o esibendosi,
in mancanza di meglio, in moralismi e richiami agli antichi valori. Il
risultato è un sostanziale assegno in bianco firmato dai cittadini alla classe
politica che sta egregiamente usando il mandato per rimbecillire le nuove
generazioni. Se si tiene presente che l’altra grande agenzia “educativa”
contemporanea oltre la scuola sono ormai i social ognuno potrà cogliere la
gravità della situazione.
Scomparsa
così la “cosa” di cui parlare, troppo macchinosa e sfuggente, resta solo lo
schieramento e la professione di fede che vede buoni tra i propri sodali e
cattivi nei governi di colore avverso. Niente insomma che permetta di capire. È
necessario invece cogliere, nelle continue disposizioni che si succedono
ininterrotte da un ministro all’altro, nelle macchine retoriche che funestano
la scuola, nei diversivi e negli annunci, le linee di tendenza e gli interessi
in campo; sarebbe inoltre da far rilevare alla pubblica opinione (o ai suoi
balcanizzati resti) l’inquietante continuità progettuale che dagli anni novanta
a oggi caratterizza l’azione del ministero dell’istruzione
Il punto in
cui porsi per scorgere la cifra politica è, in questo momento, il reclutamento
dei docenti, dove sono in corso alcuni mutamenti di cui l’italiano medio
dovrebbe prendere coscienza. Da qualche anno ai concorsi (la via regia
costituzionalmente indicata), banditi non troppo convintamente e con pochi
posti in palio, il sistema politico sta affiancando una raccolta punti di tipo
particolare. Si indicano alcune discipline che i malcapitati aspiranti
insegnanti dovrebbero conoscere (o, meglio, avere un certificato che attesta
che le conoscono), si dà loro un corrispettivo quantitativo da raggiungere (i
famosi crediti) e lo si rende obbligatorio pena fuoriuscire dal sistema delle
supplenze. Si crea un prerequisito nuovo e i precari non hanno altra scelta che
aggiungere questa roba alla loro già assurda collezione di certificati e
“attestatini” pagando altro denaro. Così, per non essere estromessi dal
sistema, dei lavoratori malpagati (il precario insegnante fa spesso solo alcuni
mesi l’anno e in sedi lontane da casa spendendo a volte più di quello che
guadagna) gli aspiranti docenti devono scegliere tra sborsare l’obolo richiesto
o uscire fuori dal grande gioco.
Nel 2017 la
ministra Fedeli, non ritenendo sufficienti i titoli degli aspiranti insegnanti
(forse li paragonava ai propri?) inserì nel percorso verso l’insegnamento il
conseguimento di 24 crediti che il precario avrebbe dovuto ottenere attraverso
degli esami e che avrebbero dovuto coprire le lacune che in termini di
preparazione antropologica e psicologica i ministeriali avevano improvvisamente
ravvisato. Gli atenei on-line con estrema velocità (quasi non fossero sorpresi
dal provvedimento vien da pensare) prepararono un pacchetto di discipline a
prezzo forfettario intorno ai 500 euro, perlopiù risolti velocemente con test a
crocette o tesine non lette da nessuno. Tutte le persone che hanno acquisito i
crediti che l’estensore di questo articolo conosce che lo hanno fatto in una
università online. Nessuna persona tra queste è mai stata bocciata. Non tutti
hanno fatto da sé le tesine né in solitudine i test. Ci si potrebbe chiedere se
non sarebbe stato più onesto chiedere ai supplenti di fare una donazione di 500
euro a un ateneo a propria scelta, magari deducibile dalle tasse se l’ateneo è
online.
Quest’anno
il ministro Valditara, la dimostrazione vivente che, si può star tranquilli,
non vi è alcun disegno di controegemonia nel governo Meloni ma soltanto il
desiderio di continuare, nell’istruzione come in politica estera, le nostre
peggiori decennali tradizioni politiche, propone i 60 crediti. Corsi fatti in
fretta e furia con posti che non bastano per tutti e una accozzaglia di materie
che dovrebbe, per magia, separare le pecore dai capri e trasformare in
abilitati gente che spesso già lavora nelle scuole pubbliche da molti anni e
spesso con ruoli di responsabilità. Il loro ottenimento, vede nuovamente in
gran spolvero gli atenei on-line.
I 60 crediti
rivelano così una natura sacramentale. L’unzione battesimale dei crediti fa di
un mero supplente un docente certificato. Ma giacché siamo un paese cattolico
la natura sacramentale impiega pochissimo tempo ad accompagnarsi ad una natura
simoniaca e l’unzione abilitante la si ottiene non per fede ma sborsando circa
2.000 euro. Ovviamente l’abilitazione, a voler dare un’occhiata alle curve
demografiche in età scolare, non coinciderà con l’immissione in ruolo per
tutti. Del resto i nuovi giochi dell’oca con cui si tengono buoni i cittadini
ipermoderni hanno la particolarità di aggiungere caselle a gioco iniziato.
Cosa trarre
da tutto questo? Ovviamente il denaro spiega molto ma non tutto. Rispetto ad un
semplice prelievo di denaro ai precari e ad un risparmio sul meccanismo
concorsuale resta il vantaggio della continua evangelizzazione dei malcapitati
con corsi e corsetti sui dettami del pedagogichese, sulla litania delle
competenze e dell’inclusione, sulla messa in un angolo dei contenuti e delle
discipline. Si lavora alla creazione del docente come essere affaccendato e
umiliato, sempre più lontano da uno studioso o un intellettuale o un educatore
(o, meglio, dall’insieme di queste tre cose) e sempre più vicino ad un
assistente sociale senza potere, a uno psicologo senza strumenti, ad un
amministrativo senza mansionario, ad un progettista di formazione senza
autonomia.
In secondo
luogo resta un nuovo passaggio in cui chi non ha denaro o genitori alle spalle
resta al palo (non perché meno preparato o meno volenteroso o meno bravo ma
solo perché più povero) e altri vanno avanti. Un dispositivo classista come
classista è la nostra classe politica di destra e di sinistra. Un pizzo di
Stato ai deboli che ben si attaglia ai nuovi sistemi di governo che senza
soluzione di continuità dal 2020 il potere ha inaugurato.
In terzo e
ultimo luogo un piccolo avviso ai naviganti: gli atenei on-line sono una
potenza (anti)culturale con cui fare i conti. Uno di essi fa già politica con
il proprio proprietario (Bandecchi), un altro gruppo di atenei ha scelto
qualche mese fa come presidente Luciano Violante spiegando a chi vuol capire
che non è la didattica né la ricerca internazionale bensì la pressione sulla
sfera politica (sempre a fini principalmente di profitto ovviamente) il loro
focus, un terzo ateneo ha già fatto da incubatrice ad alcuni elementi di area
cinque stelle dei governi Conte. Ovviamente la facilità incresciosa dei loro
corsi di studio porterà (sta già portando) le università in presenza meno
prestigiose a dover abbassare i propri standard per non trovarsi senza studenti
e così via.
Un orizzonte
ingiusto e che causa angoscia in chi dà importanza all’eguaglianza e alla
cultura. Una angoscia che consiglio di combattere attenendosi alla sola lettura
di Repubblica e Corriere e alla sola visione
dei telegiornali. Lì nulla accade e il sole, cambiamento climatico permettendo,
splende sempre sui giusti e sugli ingiusti.
domenica 24 novembre 2024
Il mondo al contrario dei media: 5 feriti sono un pogrom, 120 mila morti sono legittima difesa - Fulvio Scaglione
Niente, non
è nemmeno colpa loro. Dei fatti di Amsterdam, in occasione della
partita di Europa League tra Ajax e Maccabi, abbiamo già dato conto su
InsideOver, in questo articolo di Valerio Moggia (Chi sono davvero i
tifosi del Maccabi) e in quest’altro del sottoscritto (Se Gaza irrompe nel
mondo del calcio), quindi
non serve ricapitolarli. Abbiamo parlato di “pogrom” perché era chiaro che si
trattava di violenze organizzate che avevano un preciso sfondo politico e
razziale. Quindi non abbiamo debiti con nessuno.
Resta però
un fatto. Come sempre, la narrazione corrotta dei fatti rischia di
diventare persino più importante dei fatti stessi. Per condannare lo
spregevole assalto ai tifosi del Maccabi (che a loro volta non si sono
risparmiati, in quel di Amsterdam, con le provocazioni) sono stati scomodati i
reduci dei campi di concentramento, sono stati chiamati a raccolta tutti gli
intellettuali di pronta beva, trombe, trombette, pifferi e primi violini hanno
provveduto al rumore di fondo. Netanyahu, che è una vecchia e cinica volpe, ha
approfittato della situazione per una splendida operazione di propaganda: due
aerei speciali sono decollati da Israele con squadre mediche a bordo, come nel
pieno di un’emergenza bellica. Alla fine il bilancio di questa tragedia è
stato: 5 feriti. Cinque. Feriti.
Eppure per
circa 36 ore la cosiddetta “stampa di qualità” ci ha parlato dei fattacci di
Amsterdam come di una seconda “notte dei cristalli”, come il segno evidente di
una persecuzione antiebraica in pieno svolgimento. Il tutto sugli
stessi media che delle stragi di Gaza parlano controvoglia, proprio perché non
se ne può fare a meno. Con il risultato di produrre (e non veniteci a dire
che è un caso) questa tesi: cinque fan del Maccabi feriti in una caccia al
tifoso israeliano in quel di Amsterdam sono un pogrom, una notte dei cristalli,
una congiura antisemita. Mentre 120 mila morti
palestinesi a Gaza sono vittime collaterali di una legittima azione di autodifesa. E si
badi bene: guai a parlare di genocidio o tentativo di genocidio per Gaza, come
fanno molti. Mentre di “notte dei cristalli” per 5 feriti (cinque. feriti) si
può serenamente parlare.
Come si
diceva, il problema ormai non sta più in questo o quell’episodio, per quanto
spiacevole o drammatico possa essere. Il problema, invece, sta ormai in questa
nuvola mediatica che, in simbiosi con i poteri oggi prevalenti, cerca di
“vendere” ai cittadini una pittura della situazione che è ormai quasi del tutto
di fantasia. Che con la realtà dei fatti, con la proporzione delle questioni
aperte, con la praticabilità delle soluzioni proposte ha un rapporto
labilissimo, in molti casi inesistente. È un racconto di comodo, di
interesse, che sempre più spesso va a spaccarsi le corna contro l’implacabile
muro delle cose.
La
conseguenza è questa: ogni volta che ci si trova ad affrontare una questione
controversa e importante, ogni volta che servirebbe un’analisi seria e profonda
per aiutarci a capire, molti dei media più diffusi sono largamente inutili,
quando non dannosi. Prendiamo la guerra in Russia seguita all’invasione russa.
Ci sono due livelli. Le pure e semplici balle: i russi combattono con le pale
perché non hanno più armi; i russi usano i microchip delle lavatrici per i
missili perché la loro industria bellica è a pezzi (indimenticabile copyright
di Ursula von Der Leyen); i russi scavano trincee nel terreno contaminato di
Cernobyl; i russi prendono pastiglie che consentono loro di combattere anche
quando sono feriti… Ma questa è la fuffa, la schiuma. La sostanza sta nel fatto
che tutte le previsioni importanti si sono rivelate sballate: l’effetto delle
sanzioni, il sostegno dei russi a Putin, la capacità dei russi di riarmare,
persino la possibilità di isolare la Russia nel contesto internazionale.
Abbiamo
fatto questo esempio perché è il più tragico, in primo luogo per gli ucraini, e
clamoroso. Ma vogliamo parlare delle elezioni presidenziali Usa? Prima
un tifo sfegatato per Kamala Harris, senza mai spiegare che cosa diavolo
volesse fare degli Stati Uniti la candidata improvvisata dopo la rinuncia di
Joe Biden. Poi, di fronte alla vittoria a valanga di Donald Trump che nessuno
aveva nemmeno lontanamente ipotizzato, un solo grottesco lamento sulla
fine della democrazia, degli Usa, della civiltà. La crisi di governo
in Germania, con le prossime elezioni anticipate? Il ruggito del vecchio leone
Scholz, come se non fosse il certificato di morte della “maggioranza
semaforo” (liberali, socialdemocratici e verdi) che ha governato
finora il Paese e che, incidentalmente, è la stessa maggioranza che governa la
Ue. Per non dire del fatto che se va in crisi la Germania andiamo in crisi un
po’ tutti, a partire dall’Italia come ci ha spiegato
bene qui Andrea Muratore in un recente articolo.
L’avanzata
della destra di Marine Le Pen in Francia? Ricordo perfettamente che, all’epoca
delle prime proteste dei gilet gialli, eravamo pochissimi a dire: guardate che
dietro tutto questo, vi piaccia o no, c’è un problema vero, concreto. Riassumibile
in una sola domanda: chi paga il costo della transizione energetica? Però
non si poteva, anzi non si doveva dire, guai a criticare le politiche di
Emmanuel Macron. E che pacchia quando le manifestazioni dei gilet gialli
diventarono occasione di scontro e di speculazione dei soliti black Block e
compagnia bella. E adesso? Che cosa ci diciamo adesso della transizione
energetica e della posizione di Macron all’interno del suo stesso Paese? Tutto
bene? Oppure vale la solita spiegazione, cioè che milioni di francesi (e
tedeschi e italiani) si sono rincoglioniti?
Qualcuno, anzi, molti, credono che si possa vivere benissimo anche senza Tv e giornali. Non è vero. Primo perché nessuna società, come già Omero dimostrava, riesce a stare senza qualcuno che racconti il mondo. Secondo, perché l’informazione, ormai, non sta più nei media comunemente detti. L’informazione, cioè il racconto del mondo, è nell’aria, arriva dai telefoni, dagli schermi nelle metropolitane, dai social, dai passaparola sui tram, dalle classifiche dei libri di Amazon, dalle chat. E noi tutti cittadini abbiamo il diritto/dovere ad avere un racconto del mondo non vero o falso, non onesto o disonesto (categorie aleatorie se applicate all’informazione) ma ancorato alla realtà dei fatti e non alle fantasie più o meno interessate. Nessuno di noi vuole tornare ai tempi della peggior Unione Sovietica, quando il motto era: se teoria e realtà non combaciano, la colpa è della realtà.