Enrico Berlinguer aveva formulato la sua proposta politica di austerità nel gennaio 1977: quando già la cultura dello spreco prendeva piede, poco avvertita, la nostra nazionale orchestrina Titanic cominciava a suonare e il disastro, verso il quale scivolavamo dolcemente, era anche politico – o addirittura antropologico. Sicché quella proposta risultava certo tempestiva, perché non esisteva altro rimedio a quanto ci stava capitando e poi si sarebbe aggravato; ma insieme era una proposta controtempo, rappresentando l’opposto di quello che noi – sempre più viziati dai consumi – ormai chiedevamo dalla vita. Quando dico noi intendo tutti: anche le masse che votavano comunista; anche le schiere di compagni che dalle periferie al centro erano le strutture portanti e attive del partito, dentro le sezioni, i comitati cittadini, federali, regionali – e oltre: fino ai vertici.
Berlinguer allora fece la sua parte di leader che riesce a leggere la verità della storia, nell’essere e nel divenire; e il conflitto fra quella sua parte di leader, dalla vista troppo acuta e lunga, con lo spirito dei tempi e persino con l’anima del partito – come stava mutando, fino a perdersi – era un rischio professionale. Era un prezzo da pagare secondo le logiche, rettamente intese, del mestiere di guida politica; ma un prezzo assai alto, giacché poteva coincidere col destino minoritario del profeta. E ai profeti capita spesso di non essere compresi (anzi Gerusalemme li lapida e li crocefigge).
Berlinguer però non faceva di mestiere il profeta. Non era un impolitico e disarmato profeta: era invece il segretario nazionale del Pci. Sulla via politica dell’austerità doveva portare il suo partito e l’intero suo paese; se possibile dentro dinamiche internazionali congrue. E il cammino non era breve né poco accidentato: sono operazioni che hanno bisogno di tempo.
Questo tempo Berlinguer non lo ebbe, lo sappiamo. La partita era in corso quando lui uscì dalla gara per un ictus. Dunque nessuno può parlare d’un suo fallimento. Anche se poi avere successo in quell’impresa, sia pure nei modi incompleti e contaminati del possibile, era davvero arduo: dato che la necessità vitale dell’austerità veniva proprio dall’opposta piega delle inclinazioni collettive e degli approdi reali. L’esperienza di quegli anni dice che la proposta si scontrò con un’udienza refrattaria anche dentro il partito. Dove restava ancora un’abitudine alla disciplina, o addirittura al conformismo; ma le quotidiane lusinghe consumistiche già si mescolavano alle identità, nell’ascolto di mille sirene congeniali, specialmente mediatiche: ed erano ovviamente lusinghe molto forti...
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