Il referendum svoltosi ieri in Colombia,
che avrebbe dovuto appoggiare gli accordi di pace tra il governo e le Fuerzas
Armadas Revolucionarias (Farc), ha un unico vincitore, l’ex presidente Álvaro
Uribe, il quale ha avversato e boicottato con ogni mezzo i negoziati tra
Palacio Nariño e la più longeva guerriglia dell’America Latina. Il risultato
uscito dalle urne è impietoso: partecipazione ridotta al minimo (solo il 37%
dei colombiani si è recato ai seggi) e affermazione del No alla pace, anche se
di stretta misura, sul Si: 51,3% contro il 49,8%. Tuttavia, nonostante fossero
davvero in pochi a prevedere un simile disastro, l’attuale realtà sociale
colombiana non ha nulla a che vedere con uno scenario di pace, pur riconoscendo
i lodevoli sforzi compiuti dalla guerriglia e dal governo per giungere ad un
cessate il fuoco che entrambe le parti hanno garantito comunque di voler
rispettare.
La destra più estrema e reazionaria,
quella che durante la presidenza uribista aveva portato al Congresso i
paramilitari e ogni giorno fa lauti affari grazie all’industria della guerra,
può festeggiare: l’obiettivo è stato raggiunto e le forze sociali sono rimaste
spiazzate. Al tempo stesso, sarebbe interessante capire da quale tipo di
elettorato è scaturito il No nelle urne. Pochi giorni prima della
consultazione, in una bella intervista rilasciata a Rebelión, Gladys
Rojas, appartenente a Corporación Sembrar, organizzazione impegnata nel campo
dei diritti umani e al Movimiento de Víctimas de Crímenes de Estado,
sottolineava che nel paese le cause strutturali che hanno causato il sorgere
del conflitto armato sono tutt’altro che sparite poiché lo Stato è interessato
solo a svendere il paese per venire incontro agli interessi delle
transnazionali, ma non a rimuovere le reali motivazioni del conflitto. Le
comunità indigene, contadine e afrocolombiane sperimentano ogni giorno sulla
propria pelle le ingiustizie sociali, dall’esclusione politica alle
disuguaglianze sociali passando per un processo di spoliazione mai interrotto.
Una pace stabile e durature dovrebbe necessariamente risolvere questi problemi,
ma invece a prevalere è la mancanza di partecipazione delle comunità. Ai
movimenti sociali e alla classe popolare colombiana non è mai stato regalato
niente, anzi, tutte le conquiste sono avvenute esclusivamente grazie a lotte e
mobilitazioni. Lo stesso Patricio Aylwin, che all’inizio degli anni Novanta fu
il primo presidente cileno post dittatura, disse che si sarebbe impegnato per
la “giustizia per quanto possibile”. In Colombia ieri è successo qualcosa di
peggio: chi ha votato No o si è astenuto non solo ha rifiutato di concedere
un’opportunità alla pace per il suo paese (l’elettorato filouribista), ma ha
anche lanciato un chiaro segnale di sfiducia verso la presidenza Santos, che
peraltro ha investito sulla pace soprattutto per promuovere se stesso e ha
insistito a sua volta sul cessate il fuoco caratterizzato dall’ambiguo termine
“per quanto possibile”, proprio come aveva fatto Aylwin molti anni addietro.
Non si può dimenticare che prima della rottura con Uribe, di cui era il
delfino, l’attuale presidente colombiano è stato responsabile del caso dei falsos positivos ed ha sempre presentato gli accordi di
pace come un’esclusiva vittoria dello Stato sulla guerriglia. I maligni
sostengono addirittura che Santos puntasse al Nobel per la Pace, che gli
sarebbe dovuto essere assegnato a seguito della consultazione referendaria,
poiché, il comitato del Nobel era riunito in Norvegia per assegnare l’ambito
riconoscimento proprio in questi giorni.
Nonostante tutto, quella che dal punto di
vista delle comunità indigene e contadine poteva essere definita una pace
incompleta (intimidazioni, minacce e soprusi di ogni tipo nei confronti dei
leader sociali non sono mai cessati, non a caso dal cessate il fuoco del 26
agosto almeno una dozzina di loro è stata assassinata), è stata affossata
dall’uribismo duro e puro. A stragrande maggioranza, movimenti sociali e sinistra
avevano scommesso sulla pace, ma il risultato emerso dalle urne non solo
congela tutto, ma mette a forte rischio anche i colloqui di pace aperti tra il
governo e la seconda forza guerrigliera del paese, l’Ejército de Liberación
Nacional (Eln) e non si può fare a meno di notare come, ancora una volta, il
passo dalla pace all’abisso in Colombia sia molto breve. Era già successo nel
1985, quando Unión Patriótica (Up), partito nato per rappresentare le istanze
della guerriglia in politica, fu letteralmente eliminato dal paramilitarismo di
Stato: oltre cinquemila esponenti di Up vennero sterminati dagli squadroni
della morte. Allora, come oggi, le Farc avevano cercato di fare politica
legalmente e nelle sedi istituzionali, ma la loro proposta fu respinta brutalmente.
Oggi rischia di accadere la stessa cosa: Juan Manuel Santos ha garantito,
d’intesa con le Farc, che la parola non tornerà in ogni caso alle armi, ma
l’obiettivo di risolvere le cause che hanno portato alla violenza strutturale
dello Stato e del sistema capitalista, il traguardo a cui miravano le
organizzazioni popolari, resterà probabilmente un miraggio. Paramilitarismo e
multinazionali, a seguito del disastro referendario, prospereranno ancora per
molti anni e la speranza di poter fare politica senza essere assassinati
resterà una chimera. Dal punto di vista delle transnazionali, la Colombia si
confermerà come la cosiddetta locomotora minera, con buona pace di coloro che si
auguravano di vivere in un paese dove sovranità alimentare e territoriale potessero
rappresentare un nuovo modello di sviluppo sociale ed economico. Certo, negli
accordi di pace il ruolo delle imprese multinazionali non era contemplato in
alcun modo, ma sono loro spesso ad armare le mani dei paras e delle Bacrim (Bandas criminales) per
imporre nuove dighe o miniere a cielo aperto e sanno che potranno comunque
continuare a farlo impunemente, mentre la proprietà della terra resterà nelle
mani di pochi.
Inoltre, sulla vittoria di No e
astensione ha pesato la violenta campagna mediatica uribista contro la
trasformazione delle Farc da movimento guerrigliero a partito politico legale,
condita da farneticanti allarmi sul rischio che in Colombia penetrasse il
castro-chavismo. Evidentemente, però, questo argomento ha fatto presa sugli elettori
ed è servito per assestare un colpo anche alle traballanti sinistre
continentali. Un altro aspetto negativo, non di poco conto, che scaturisce dal
successo del No riguarda le presidenziali del 2018. A questo punto prende
fortemente quota la candidatura di Vargas Lleras, vicepresidente di Santos che
mai si è speso realmente per la pace, mentre sarà Humberto De la Calle,
principale negoziatore a L’Avana, a correre per il santismo, ma il Congresso
che scaturirà dalle presidenziali del 2018 rischia di essere ancora più
reazionario dell’attuale, se non apertamente fascista.
La vittoria del Si avrebbe rappresentato
un ottimo risultato non solo per la Colombia, ma per l’intera America Latina,
attualmente in una difficile congiuntura politico-economico-sociale: il
fallimento del referendum non significa solo un’occasione persa, ma potrebbe
essere foriero di scenari imprevedibili e inquietanti.
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