Il referendum popolare che doveva ratificare gli accordi di pace tra
governo di Bogotà e guerriglia delle FARC, raggiunti all’Avana con l’appoggio
di tutta la comunità internazionale, si è risolto con la vittoria del No. Il
50.2% del 37% di partecipanti al voto si è infatti pronunciato per il No alla
Pace. E’ un risultato inatteso, nessun sondaggio lo aveva pronosticato (il No
era attestato appena al 35%), e che lascia costernati. Il Presidente Juan
Manuel Santos, il conservatore che aveva preso la strada del dialogo, è il
grande sconfitto. Il suo predecessore, Álvaro Uribe, trionfa e punta ancora una
volta la pistola alla tempia di un paese intero mentre le FARC confermano di non
volere riprendere le armi.
Tra le considerazioni da fare ve n’è una ineludibile. La Colombia, al
contrario della maggior parte della regione, ha una lunga tradizione di bassa
partecipazione elettorale (e di brogli e di violenza). Ma dai mancati quorum italiani
alla Brexit allo stesso referendum ungherese di ieri la bassa partecipazione
non sta semplicemente affermando l’indifferenza di maggioranze ai processi
democratici (che non è poco) ma sta rendendo i processi elettorali, in
particolare i referendum, delle lotterie imprevedibili dal risultato del tutto
casuale.
Non basta più dire che gli astenuti hanno torto se appena 6,4 milioni
su 35 di aventi diritto (oltretutto mal distribuiti sul territorio) hanno
bocciato l’accordo, imponendo lo stop a un processo di pace storico che avrebbe
probabilmente portato al Nobel i protagonisti. Bisogna dire, che piaccia o no
il risultato, che oramai siamo di fronte a un meccanismo inceppato nel quale la
volontà popolare resta altrettanto irrisolta dopo il voto.
In queste condizioni è perfino inutile discutere sul discorso di
guerra a morte impiantato nel paese, in particolare nell’epoca della Presidenza
di George Bush negli USA, per il quale i “narcoterroristi” delle FARC andavano
sterminati fisicamente uno a uno, negando qualunque ragione a un conflitto
agrario pluridecennale e che aveva espulso sei milioni di contadini dalle loro
terre per consegnarle in particolare all’agroindustria. Quel discorso,
veicolato per anni dai media monopolisti, oggi ha trionfato esplicitandosi
(dalle città, non dalle campagne e dalle giungle dove il conflitto ha causato
morti e sofferenze) nel rifiuto del trattato di pace che avrebbe dovuto
restituire alla vita civile la maggior parte dei guerriglieri, garantire una
riforma agraria, risarcire le vittime del conflitto e affrontare il problema
della coltivazione di droghe.
Le parti, sia Santos che il capo negoziatore delle FARC, Rodrigo
Londoño, alias Timochenko, appaiono deluse ma fiduciose, ma il momento è
drammatico. Forse è presto per dire che la sconfitta della pace nel referendum
in Colombia sia il rovescio finale dell’illusione che l’America latina potesse
svoltare definitivamente nella direzione della riduzione delle ingiustizie ma
certo, il momento è grave.
da qui
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