0.
Si può sempre parlare ai giovani, purché non diventi un vizio. Parlare dei
giovani invece ha una scadenza: quella “certa età”, da me raggiunta, che non
permette di confondere la frequentazione dei giovani con la partecipazione alla
loro condizione. E in antropologia – che ha una radice euristica e non è un
ramo della filosofia – il solo comandamento che non si può tradire è
l’osservazione partecipante, che non vuol dire travestirsi da indigeni ma condividere
la loro situazione e dunque, per quanto riguarda i giovani, la loro
generazione. Così, se non ci si vuole ricoverare nella clinica sociologica del
dato e del giudizio oggettivo, la soggettiva condivisione - ovvero
l’appartenenza allo stesso “campo” in cui si fa ricerca - è una conditio sine
qua non si può spacciare per antropologica un’osservazione che esamini “dal di
fuori” il contesto e il testo che caratterizza attori sociali molto più giovani
del ricercatore. Sono stato “giovanologo” anch’io, ma nell’epoca in cui avevo
un’età compatibile e un’esperienza comparabile. Poi, anche al fine di
continuare a studiare le nuove generazioni e le nuove trasformazioni, ho
trovato un trucco, cioè un campo entro il quale ad ogni età si può vantare un
diritto di cittadinanza, se si ottempera al dovere di una convinta
partecipazione. Il trucco o il campo è stato - ed è ancora per me - il Teatro,
dove ogni spettatore è partecipante per convenzione, e può aggiungere la
convinzione di una relazione diretta con l’attore. E il teatro è comunque anche
il luogo dove gli spettatori e gli attori non hanno età o non dovrebbero
averla, visto che il suo tempo è sospeso, il suo spazio è separato e “il gioco
delle parti” (di entrambe le parti, sia di chi il teatro lo fa, sia di chi lo
vede) è indefinito per definizione. Da “antropologo del teatro” posso dunque
parlare dei giovani attori, e interrogarli e interpretarli anche fuori della
scena, quando si disperdono e infine confluiscono nel mare degli attori
sociali. Ma anche allora – quando l’attor giovane torna a immergersi nel
sociale – è meglio un’osservazione che si limiti al momento e al modo del suo
“spettacolo”, senza la protervia o la superbia di cercare di comprendere tutta
la sua realtà. E’ questo il limite, ma infine anche il vantaggio, di una
“antropologia teatrale” che si affaccia sulla complessa condizione sociale dei
giovani, appena fermandosi alle mode e soffermandosi sulle immagini… Ma poi c’è
davvero molto altro nelle subculture giovanili e non? E mi verrebbe da aggiungere:
c’è un’altra antropologia possibile oggi, oltre a quella del “come se”? (1) 1.
Ho cominciato a occuparmi di giovani attori qualche decennio fa, quando si
manifestò un’improvvisa moda culturale o un imprevisto fenomeno sociale che
ancora prosegue, forse con meno intensità ma con la stessa ambiguità di
decifrazione: una quantità sorprendente di giovani si era messa a “fare
teatro”. La quantità abnorme faceva peraltro il paio con una qualità da
inseguire: un’alta professionalità per la quale ci si voleva organizzare e
definire fin da subito “professionisti”. Non si trattava dunque – per quei
giovani attori – di dare sfogo a una passione amatoriale, ma della scelta di un
mestiere e dunque di una vita da dedicare intensamente e interamente al teatro.
Sul finire degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta, in Italia (ma non
solo in Italia), si contavano a centinaia i gruppi di nuovo teatro (prima di
base, poi di ricerca, quindi di sperimentazione…) che si insediavano ovunque
nel territorio, riempivano di festival le primitive estati culturali e
animavano ogni ambiente o cliente sociale. E davvero non si capiva come mai
migliaia di giovani si mettessero a fare teatro in tempi in cui il cinema e la
televisione erano non solo dominanti ma già accessibili (le cineprese e il
videotape non erano agili e diffusi come gli smartphones, ma erano già a
disposizione). Forse, prima di tutto questo “fare teatro”, soltanto il “fare
musica” aveva avuto un più grande e più giustificato exploit giovanile; e però,
fin da subito è apparso chiaro come la nuova opzione dell’attore – anziché del
cantante e musicista – fosse diversamente motivata ed orientata. L’Attore era
una seconda scelta ma anche un’identità di riserva per generazioni nate dal
riflesso e cresciute nel riflusso della lotta politica. L’Attore, prima ancora
di essere un mestiere, può essere una forma di militanza: un impegno attivo che
coinvolge ed espone la persona nella sua interezza e concretezza, che la spinge
a operare in gruppo, che le assegna compiti di comunicazione e di critica, che
le riconosce funzioni relazionali prima ancora delle ambizioni creative… Che il
teatro potesse partecipare alle istanze di contestazione, alle prove di
controinformazione, alle ansie di “rivoluzione culturale” era già stato evidente
nel postsessantotto (e nel “teatro politico”, che ha avuto il suo culmine ma
anche il suo limite in Dario Fo), ma la sua successiva proliferazione ed
espansione negli anni Ottanta era sì figlia della cultura politica ma insieme
madre della politica culturale: dal gruppo politico al gruppo teatrale non si
ereditava nessuna delle funzioni oggettive ma si distillavano tutte le istanze
soggettive di una “militanza di ricambio” che passava dalla Politica alla
Cultura – in tutti i sensi “senza colpo ferire”. La “motivazione teatrale” di
quel momento e movimento - che si era perfino autodefinito “teatro
antropologico” - è stato il mio primo tema di ricerca da antropologo del
teatro. In breve, era una motivazione diversa da quella che oggi spinge i
giovani a produrre arte e/o cultura, anche perché era attoriale in senso pieno
e finanche esclusivo. Essere attore era necessario e perfino sufficiente, nel
senso che gli spettacoli venivano solo di conseguenza, e con scarsa frequenza e
nessuna urgenza. Ogni gruppo si dava orari e calendari di lavoro massacranti,
finalizzati all’apprendimento e all’allenamento degli attori: attori in erba e
perfino in seme, ma che da subito viaggiavano e scambiavano e studiavano
elementi di cultura e d’arte teatrale anche senza frequentare il Dams (è il
Dams che ha vissuto su di loro e non viceversa). Attori che cercavano e
trovavano modelli e maestri – diretti o indiretti, viventi o defunti –
nell’arco di tutta la storia del teatro del Novecento e delle sue avanguardie,
ma anche nel panorama di tutta la geografia del teatro mondiale e l’etnografia
del rito, suo antenato. Le miniere e le maniere della pedagogia teatrale erano
tante da soddisfarsi e confondersi, visto che i giovani attori di allora erano
stati anticipati e accompagnati dalla stagione teatrale più lunga e più ricca
del secolo, piena di presenze o assenze a cui ispirarsi o abbeverarsi:
Grotowski e Brook e il Living di Beck e l’Odin di Barba e Carmelo Bene e Leo De
Berardinis e la Bausch e Kantor e Wilson… Chi è ancora vivo? Chi è davvero
morto? Bastano questi nomi a giustificare l’intensità e la durata di una
“motivazione teatrale” caratterizzata da una fame di acculturazione
stupefacente, a fronte – va detto senza stupirsi – di risultati artistici
francamente non eccellenti. Ma l’arte viene dopo, se viene, e prima di lei
conta la scelta di un’Attività/Identità: pochi delle centinaia di giovani
attori di allora sono diventati bravi, ma tutti hanno continuato per anni e
spesso per tutta la vita una militanza teatrale che ha poi fornito le miriadi
di animatori, operatori, organizzatori di un sottosistema che ancora oggi
alimenta – perfino invisibile – la sopravvivenza del sistema istituzionale del
teatro del presente. In quel momento e dentro quel movimento di “teatro di gruppo”,
pareva davvero che ‘essere giovani’ ed ‘essere attori’ fosse la stessa cosa. E
una qualche verità c’era, e magari c’è ancora in questa identificazione, anche
se l’attore non è più da tempo né un modo di essere né una moda per apparire:
ieri sembrava perfino una scelta contro il mercato e oggi è l’ultima opzione di
un mercato senza lavoro. Insomma la fortunata endiadi Giovane e Attore ha poi
improvvisamente smesso di essere la somma di due forze per diventare l’unione
che fa la debolezza, anche se nessuno dei due (sia il giovane che l’attore
delle attuali generazioni) l’ha ancora capito. Il fatto è che la pubblicità
prosegue ben oltre il commercio, e oggi più di ieri – nella dimensione della
creatività diffusa e dell’espressività obbligatoria – assicura a tutti i
giovani che “attori si nasce”, anche se poi non lo si diventa mai. L’eterna
assonanza fra la fama e la fame fa il resto, e lo fa per tutti i giovani
d’oggi, tutti continuamente invitati a iscriversi a uno dei tanti corsi e
ricorsi di formazione. E allora, “en attendant Godot”, perché non di teatro? 2.
Per capire se e come è cambiata la “motivazione teatrale” basta affidarsi alla
fiorente pubblicità del settore: non quella per gli spettatori ma quella per
gli attori. Io ho avuto fortuna: nei muri e nei negozi della mia piccola città
di provincia spiccava, fino a pochi mesi fa, una locandina che riassumeva in
pochi slogan i punti qualificanti di un bando di concorso ufficiale per la
formazione dell’attore. La prendo a pretesto perché il suo testo è un vero
modello, anzi un gioiello di inestimabile completezza. Sopra la fotografia a
tinte forti e fosche di una quasi giovane attrice in atto da urlo, con mano in
posa plastica alta sopra la testa e una involontaria tetta di fuori (a indicare
passione e invocare libertà), erano stampati tutti gli annunci utili a
ricapitolare la situazione in cui versa il teatro, mentre riversa sui giovani i
suoi corsi di formazione. Non un teatro qualunque, visto che il Bando a cui la
locandina rinvia è quello della Regione e del Teatro Stabile e dei maggiori e
minori enti aggregati, come si evinceva dai logo che ormai incoronano tutti i
manifesti di tutte le manifestazioni e che vanno dal local del Comune al global
dell’Europa (i cui fondi sono ormai essenziali sia per la cultura che per
l’agricoltura). Il manifesto in questione recitava, in sequenza dall’alto in
basso: “Arte Teatrale Performativa e Scrittura Scenica - Percorso di Alta
Formazione d’Eccellenza – Corso di Perfezionamento Professionale in Scrittura
Scenica per Attori Performer – Corso Gratuito – Borsa Lavoro.” L’esagerazione
di maiuscole non è fedele all’originale, ma resta al di sotto della vistosità
grafica in cui si sono sbizzarriti i tipografi e gli autori. Come si legge,
niente di avvincente e tutto tra l’antiquato e magari il cafone, ma è proprio
questo un primo punto: la pubblicità per questo genere di commercio formativo
cerca gonzi e non va per il sottile, non intende convincere ma colpire,
gridando le sue certificate promesse, un po’ come fa l’attrice ritratta sullo
sfondo. Innanzitutto bisogna essere chiari e forti e perfino sfacciati con
l’esaltazione di segni che fingono di essere significati e viceversa, proprio
come avviene a teatro. Quindi serve un’abbondanza di aggettivi e sostantivi che
abbindoli, ma che soprattutto difenda e diffonda il prestigio dell’arte
scenica: pardon scenica scritturale e performativa, come solo un percorso di
alta formazione d’eccellenza può garantire. Ma lasciamo perdere la forma e
passiamo al contenuto: nel suo stupido e nel suo piccolo, questa locandina
teatrale è davvero “tutto un programma”, nel senso che riassume tutti i punti e
le linee dell’offerta politica della formazione professionale destinata ai
giovani attori (ma anche a tutti gli altri giovani). A cominciare dal fondo,
ovvero dall’accoppiata tra il Corso Gratuito e la Borsa Lavoro. 3. Alla borsa e
al lavoro nessuno ci crede più, ma servono per tirare a campare. Il lavoro di
cameriere a Londra o la borsa per diventare attore a Perugia in fondo si
somigliano: il ruolo conta poco purché ci sia un minimo di status, che viene
nel primo caso da Londra e nel secondo dal Teatro. La precarietà non è poi
questa grande sventura, se permette una libertà di scelta che si ripaga da
sola, e intanto distrae dalla mancanza di una paga sicura. La breve durata di
una borsa o di un lavoro incoraggia una mobilità sociale che, quando si è
giovani, si può chiamare avventura, scommessa, esperienza e infine si deposita
in un curriculum che non conta poi molto ma – come dice la parola stessa –
scorre sempre. Certo, finché la corsa o il corso è insieme prestigioso e
gratuito, ovvero ambito da tutti e accessibile a tutti, sia pure dietro
domanda, previo concorso, dopo un provino. La gratuità non va mai disgiunta dal
merito, che come si sa comincia a piacere assai più del diritto. La gratuità è
partecipazione, dice oggi una nuova canzone che non ha scritto nessuno ma che
cantano tutti. Dopo il partecipare, il vincere è per pochi ma è giusto così: la
selezione è pur sempre naturale e – anche quando c’è il trucco o il ricatto o
la raccomandazione – è un bene che ci sia, anzi fa bene due volte, sia a chi la
subisce sia a chi la esercita. La commissione di un corso di formazione e
l’ente che lo finanzia sono felici e si felicitano per aver selezionato
qualcuno: nessuno si sente in colpa nell’eliminarne cento ma si congratula con
se stesso per quell’uno che ha eletto. Non lo assume – non è suo compito – ma
ancor meglio lo sceglie e lo accoglie: in un certo senso lo assolve dai suoi
peccati e lo avvia verso il perfezionamento professionale e – se avrà talento –
verso la realizzazione di sé. Ma di più, ne farà un Attore, dunque un artista
che, mentre è ancora un investimento, già partecipa del patrimonio culturale
del Territorio. Visti dalla parte di chi li organizza, i corsi di formazione
valgono da subito, prima ancora di dare quello che promettono. Sono essi stessi
la promessa e la promozione della cultura, che conta ben più della scommessa di
trovare un lavoro. Tanto più che – televisione docet e Maria De Filippi
benedicet – l’apprendimento dell’arte fa già spettacolo in sé e per tutti: non
è un caso se ogni saggio annuale è benaccetto e benvisto da un pubblico (non
solo di “amici”) che – ne siamo sicuri – sarebbe già disposto a pagare un
biglietto per spiare ogni sera i segreti dei maestri e i fallimenti degli
allievi. E, proprio come alla tivvù, farebbe applausi e commenti con maggior
gusto e competenza di quando va a teatro a confrontarsi con spettacoli finiti e
firmati, cercando di capire qualcosa che non si carpisce mai… 4. Visti e
vissuti dall’altra parte, i corsi di scrittura scenica per attori e performer e
affini sono presi sul serio e svolti con fatica, anche se sono esami che non
finiscono mai. Non c’è candidato attore che una volta “iniziato” non prosegua
il suo apprendimento in modo incessante, praticando training di tutti i tipi e
inseguendo stages per tutte le stagioni. Oggi come ieri, l’attor giovane è
curioso e vorace, aperto a ogni altra arte e parte di un teatro che è anche
danza e musica e narrazione e poesia e arte plastica e infine “atto
performativo”, che può essere niente ma raccoglie tutta la varietà dell’azione
scenica. Oggi come ieri, la motivazione teatrale sembra dunque di robusta
costituzione, ma ci sono differenze e distanze che vanno segnalate, se si vuole
proseguire il discorso e aggiornare un percorso che ancora riguarda una
quantità abnorme di giovani, che ancora inseguono il sogno di una alta qualità
professionale. Intanto, a parità di impegno, si deve constatare che la parentela
con la militanza è finita da un pezzo, nel bene e però anche nel male: non ci
sono più le influenze ideologiche che sostenevano una vita e un teatro “di
gruppo”; è finito il mito del collettivo e il rito dello scambio reciproco, e
ciascun attore sa di essere solo anche quando si fa compagnia; una solitudine
di ciascuno che è però anche liberazione di tutti, una volta tramontata la
dittatura della maestria e incominciata la festa della creatività. Su questa
festa ha proliferato una Politica Culturale che per decenni ha assuefatto tutti
senza saziare nessuno, facendo finta che il teatro e l’arte abbiano davvero una
parte importante nel destino di ognuno e perfino nelle sorti del paese. I
giovani attori sono così passati dalla libera costituzione di un proprio
teatro, alla sudditanza dell’istituzione che lo incarna o lo governa: dal
piccolo assessore al grande direttore (su su fino al potente ministero) non
cercano più soldi ma riconoscimenti, o al massimo appartamenti: se non si
ottengono i fondi “che ahimè non ci sono”, si avranno magari soffitte in cui
porre la propria “residenza”, talvolta senza sala-prove ma con il nome “teatro”
sul campanello… Infine, la formazione attoriale è passata dalle ansie
pedagogiche alle frattaglie didattiche, magari anche di alta scuola e nobile
firma: il mercatino ieri alternativo del fare e del sapere teatro, dopo il
disastroso matrimonio con l’università, è diventato un centro commerciale di
vasta superficie e scarsa profondità, a fronte del quale o contro il quale non
resta che iscriversi alle polverose e sempre rispolverate Accademie, che ormai
rappresentano – per i più motivati – la prima scelta e insieme il più alto
vertice della scuola d’attore. 5. Ma la “motivazione teatrale” non riguarda
soltanto le vocazioni di una minoranza in movimento, ma raccoglie anche le
invocazioni della maggioranza dei giovani in mutamento: in mancanza e in attesa
di un certificato autentico da attore sociale, passare per lo stadio di finto
attore teatrale fa comodo a tutti i camerieri di Londra e gli studenti di
Perugia. Si ha cioè l’impressione che “essere attori” sia un possibile
desiderio di tutti, ma si ha anche la sensazione che sia imposto come un
imprescindibile imperativo per tutti. La “tratta dei giovani” è cominciata
molti anni fa, passando per varie fasi di trattativa e di trattamento. La
questione giovanile ha una storia lunga almeno sessant’anni, ma anche una breve
filosofia che spiega (e separa in due successivi trentenni) gli atteggiamenti
degli adulti verso le nuove generazioni: si è passati dal paternalismo
autoritario dei giovani da guidare e poi temere e perfino reprimere al
maternalismo dei giovani da incoraggiare e valorizzare e infine stimare, tanto
più quanto più si facevano deboli le loro speranze e tristi le loro condizioni.
Oggi siamo al culmine della loro disgrazia e non bastano i renziani o i
grillini a smentire questa situazione. Eppure forse siamo anche nel colmo della
grazia ricevuta, se è vero che i giovani vivono in un mondo sia globale che
locale, sia reale che virtuale, pieno di consumi e servizi e nuovi linguaggi e
magiche tecnologie, dove le contraddizioni possono travestirsi da opportunità:
i giovani infatti hanno tutto e non sono niente, sono il futuro ma non hanno
futuro, godono di una libertà per tutti pur senza indipendenza e soffrono una
dipendenza da tutto, vissuta però in piena autonomia… Insomma, a conti fatti e
a guardar bene, hanno già le stesse caratteristiche di un attore teatrale,
ovvero hanno tutte le ragioni per diventarlo. Non so quanto sia attraente o
conveniente per loro, ma so quanto conviene alla società dello spettacolo
arrivata al suo terzo e ultimo atto: diventare attori è darsi da fare e farsi
vedere, è accumulare esperienze e liberare espressioni, è metterci la faccia e
occupare una scena purchessia. Diventare attore, anche quando non va di moda, è
pur sempre un modo di diventare imprenditore di se stesso e per se stesso. E
non c’è niente di più ambito ed elevato di “essere se stesso”, il comandamento
più ripetuto e rispettato che ci sia, malgrado sia l’esatto contrario del
“conosci te stesso” di socratica memoria e definitivo oblio. Cosa si chiede al
giovane o all’attore se non di essere se stesso, di manifestare la propria
autenticità, di recitare perfino la banalità come se fosse misteriosa
profondità? Eppure sull’angosciosa stupidità di questo mantra della cultura di
massa non c’è un adulto, un genitore o un insegnante o infine un governante che
ci rifletta. Ecco perché si dice ai giovani che è meglio essere attore che
spettatore: meglio impegnarsi che distrarsi, meglio praticare un attivismo
espressivo anche cieco che coltivare una passività del guardare che rischia di
diventare davvero riflessione. E depressione. E perfino critica. 6. La
battaglia fra la creatività e la critica è una recente e fin troppo fortunata
invenzione. Si fa credere, ma quel che è peggio si vuole credere alla loro
contraddizione, pur di non aprire più il rapporto fertile della loro
coniugazione. Nessuno come chi fa teatro conosce invece l’intensità e la necessità
di questo rapporto, visto che in scena non si dà finzione ovvero creazione che
non sia un “atto critico”. Anche i più giovani attori sanno che il “senso” si
trova solo alla fine di una tormentosa pars destruens fatta di interrogazioni
senza risposte e di ricerche impossibili. Ma, dall’altra, la voce e la moda del
mercato battezza come creatività ogni irriflessa e compiaciuta espressione,
premia ogni semplificazione e valorizza ogni consolazione. E tutto questo non
avrà senso ma ha un peso che non si può non valutare e soprattutto non si può
evitare. Sugli attuali “attor giovani” – teatrali o sociali che siano – preme
dal basso non più una cultura di massa, ma una massa culturale mediatica
commerciale e infine tumorale; non so quanto la sua pubblicità sulla facilità
della vita e la felicità del consumo li influenzi o li orienti, ma so che conta
molto di più del residuale cielo di ideologie e utopie che incombeva sui
giovani attori di ieri e che, peraltro, ha prodotto non pochi equivoci e molti
fallimenti. Inutile dire da che parte sto: ogni generazione è uno scarrafone
bello per conto suo. Quello che posso avvertire da spettatore partecipante sia
del teatro che della società, è che i giovani vivono diversamente l’attuale
“mutazione antropologica” che tutti segnalano ma nessuno analizza con il rigore
e il dolore necessari. C’è chi fra loro ne avverte tutta la confusione, ma
anche chi la prende con filosofia e soddisfazione: “c’è una Mutazione ed è
questa la nostra novità e la nostra opportunità” – molti giovani cominciano a
dire con sconcertante orgoglio. Si è giovani non per l’esuberanza fisica o la
rinnovata forza morale, ma per la disinvoltura e competenza con cui si sa
vivere nel nuovo contesto di usi e costumi, di mode e consumi: “noi siamo il
frutto della mutazione!”. Questo è l’errore. Quelli che sono “mutati” del tutto
e per sempre sono gli adulti, ai quali davvero – dopo le tante trasformazioni
festeggiate o subite – si può applicare il participio passato del verbo mutare.
I giovani sono ancora dei “mutanti” che si sforzano di adeguare la loro natura
alla cultura, e sostano e soffrono sulla soglia di quel conflitto inevitabile
tra biologico e sociale, che un tempo si risolveva con riti di passaggio che
non ci sono più. Forse allora la causa prima o più arcaica, che li spinge –
ancora una volta – all’incontro con il teatro e all’impegno dell’attore, sta
proprio nella possibilità di ribadire l’azione fisica e la relazione diretta.
Ma intanto c’è anche un’altra causa nuova o nuovissima, se è vero che l’esercizio
del teatro non è in sé arcaico ma solo anacronistico, e in qualche modo
paradossalmente somiglia al corpo finto e al tempo sospeso e allo spazio vuoto
della realtà virtuale. Forse allora oggi (ma non da oggi) il teatro regge o si
rilancia perché –in virtù dei suoi limiti dimensionali e delle sue ambizioni
relazionali – somiglia ai social media, più della televisione e del cinema,
almeno per la solitudine con cui l’attuale attor giovane ama esporsi in una
scena o in un sito insieme pubblico e privato, protetto dall’anonimato e
tentato dalla notorietà. O viceversa. In un denso reportage di una scrittrice e
giornalista slovena, Dubravska Ugresic, si ripercorrono le datate origini e i
recenti trionfi di quella che lei chiama “la cultura karaoke”, madre di tutte
le attuali illusioni, o meglio religioni della “rete”. Un passo decisamente
blasfemo può suggerire anche ai meno critici un po’ di sana diffidenza verso il
nuovo mondo e il nuovo modo di essere giovane e/o attore della cultura
contemporanea: “…possiamo immaginare internet come un mega-karaoke con un
milione di microfoni che un milione di persone si precipita ad afferrare per
cantare la propria versione della canzone di qualcun altro. La canzone di chi?
Questo non importa: l’amnesia sembra essere un sottoprodotto della rivoluzione
informatica. L’importante è cantare.” (2) 7. Quanti sono i giovani che vanno a
fare o vorrebbero fare o appena accettano di fare l’attore? Non si tratta di
conoscerne il numero ma di indovinarne il volume. Non si tratta di considerare
soltanto quelli che scelgono la professione (di fede) ma anche i moltissimi
che, pur senza speranza, ne accettano l’occasionale carità. A colpi di
animazioni scolastiche e di occasioni mediatiche non c’è nessuno che non abbia
scagliato la prima o l’ennesima pietra, in un qualunque corso teatrale o gioco
performativo. E’ anche vero che c’è corso e corso e c’è gioco e gioco, e però
tutta l’erba fa un fascio da quando l’isolamento è un diritto individuale e la
globalizzazione un dovere sociale. Pochi e sempre più rari sono gli esempi
buoni e gli esercizi critici di un teatro ancora collettivo ed educativo che
cerca altro e guarda alto, senza arretrare nella mondanità d’antan e senza
affogare nella palude delle performing arts . Pochi e rari sono i giochi e i
corsi che avversano il solipsismo dell’attore solo al comando della sua
virtuale trappola per topi. Commentando in un convegno la resistenza ma anche
la decadenza dell’animazione teatrale, Goffredo Fofi ammoniva che “il gioco in
solitudine proposto dalla società post-moderna (videogiochi, computer, rete) è
un grande inganno e un modo del dominio.” (3). Ma forse l’avvertenza è già
scaduta, se è vero che la cultura del postmoderno è finita, perché era solo
l’avvento di un incombente o già attuale “pseudomodernismo”. Il suo inventore,
Alan Kirby, un professore di letteratura di Oxford, così spiega le nuove regole
del nuovo gioco: “Questo mondo pseudomoderno, così spaventoso e in apparenza
fuori controllo, nutre inevitabilmente il desiderio del ritorno al mondo
infantile del gioco, che caratterizza anche il mondo culturale pseudomoderno.
Qui la trance rappresenta uno stato emotivo tipico, quello di un’immersione
completa dentro la propria attività che sostituisce radicalmente la
consapevolezza dell’ironia. A differenza della nevrosi del modernismo e del
narcisismo del postmodernismo, lo pseudomodernismo abolisce il mondo, creando
il nuovo spazio inesistente e privo di gravità dell’autismo muto. Basta
cliccare, premere un tasto, e vi trovate a essere “coinvolti”, inghiottiti,
senza capacità di decidere. Voi siete il testo, non c’è nessun altro, non c’è
“l’autore”, non esiste niente, nessun altro tempo o luogo. Siete liberi, siete
il testo: il testo siete voi.” (4)
NOTE
(1)
C’è un capitolo intitolato Intermezzo sulla finzione: accenni a un’antropologia
del ‘come se’ in un libro di Francesco Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia
dello spazio e del tempo e del potere (Bollati Boringhieri, Torino, 1993,
pp.113 e ss.) in cui da Kant a Geertz si ripercorre l’importanza e infine la
verità antropologica della “analogia drammaturgica della vita sociale”.
(2)
Dubravska Ugresic, Cultura karaoke, Nottetempo ed., Roma 2014, cfr. p. 23
(3)
G. Fofi, Il teatro salvato dai ragazzini (testo pubblicato nel libro omonimo
curato da D. Pietrobono e R. Sacchettini, Ed. dell’Asino, Roma, 2011, cfr. p.
15).
(4)
La frase e la teoria di Kirby è ancora nel libro della Ugresic, cfr. p. 25 e
ss.
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