Nel luglio del 2015 a Bruxelles ho conosciuto Denise Gagnon, energica e
loquace rappresentante del Réseau québécois
sur l’intégration continentale (Rqic). Denise aveva
attraversato l’oceano per partecipare a un incontro sulla
campagna internazionale contro i due accordi di libero scambio che l’Unione
europea stava negoziando, il primo con il Canada (l’ormai celebre Ceta,
Accordo economico e commerciale globale), il secondo con gli Stati Uniti (il
Ttip, Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti).
Era una di quelle impegnative giornate estive belghe, quando di estivo c’è
solo il mese sul calendario e tocca mettere la giacca per uscire a prendere una
boccata d’aria. Denise mi aveva spiegato che il Canada e l’Unione europea
avevano già raggiunto l’intesa sul contenuto dell’accordo. Era cominciata la
fase dell’esame giuridico, che sarebbe durata oltre un anno.
L’Rqic, e così tutti i gruppi e le associazioni canadesi contrari al Ceta,
speravano che il risultato delle elezioni politiche del 19 ottobre 2015 potesse
rimettere in discussione il trattato, voluto dal governo conservatore di
Stephen Harper e accusato di anteporre gli interessi delle multinazionali ai
diritti dei consumatori e dei lavoratori e alla tutela dell’ambiente.
Il potere di otto parlamenti
La vittoria dei liberali guidati da Justin Trudeau non ha portato al ripensamento sperato. In Canada la campagna contro il Ceta è andata avanti, ma con gli occhi puntati sull’altra sponda dell’Atlantico: ormai solo gli europei avevano il potere di modificare o bloccare il trattato.
La vittoria dei liberali guidati da Justin Trudeau non ha portato al ripensamento sperato. In Canada la campagna contro il Ceta è andata avanti, ma con gli occhi puntati sull’altra sponda dell’Atlantico: ormai solo gli europei avevano il potere di modificare o bloccare il trattato.
Un anno dopo la mia chiacchierata con Denise, nel luglio del 2016, la
Commissione ha accolto la richiesta di alcuni stati membri, dichiarando che il
Ceta era un accordo misto (comprende cioè disposizioni di competenza europea e
nazionale).
Per entrare in vigore, dopo il via libera dei governi degli stati membri e
la firma ufficiale tra l’Unione europea e il partner commerciale, un accordo
misto deve essere approvato non solo dal parlamento europeo ma anche dai
parlamenti di tutti e ventotto gli stati membri. La Commissione può tuttavia
decidere l’applicazione provvisoria dell’accordo, nelle parti di competenza
europea, subito dopo l’approvazione del parlamento europeo, nell’attesa che si
pronuncino gli altri parlamenti. C’è un unico stato membro che chiede ai suoi
deputati di pronunciarsi sugli accordi misti prima della firma ufficiale: il
Belgio, che di parlamenti ne ha otto.
Dall’inizio dei negoziati sul Ceta, nel 2009, ong, sindacati, associazioni
di categoria, esponenti di parlamenti nazionali ed eurodeputati si sono
interessati al trattato, hanno analizzato i documenti disponibili, hanno
espresso perplessità, in particolare sul meccanismo di risoluzione delle
controversie tra aziende e stati, che favorirebbe gli interessi delle aziende
attraverso la creazione di tribunali speciali. È stata lanciata una petizione contro il
Ttip e il Ceta che ha raccolto più di tre milioni di firme.
Anche i deputati del parlamento vallone hanno fatto il loro lavoro: hanno
studiato il testo, organizzato audizioni di esperti, segnalato alla Commissione
europea i punti che non li convincevano, e questo già a ottobre del 2015. La
Commissione sapeva benissimo che il Ceta, senza modifiche sostanziali,
rischiava di non essere approvato dal parlamento vallone, e quindi neanche dal
Belgio, ma ha preferito tirare dritto, convinta che una regione non avrebbe mai
osato compromettere la firma di un accordo europeo.
Brusco risveglio dell’informazione
Poi, all’inizio di ottobre, dopo una lunga indifferenza, i mezzi d’informazione europei hanno improvvisamente scoperto il Ceta, la sua importanza, la sua firma imminente e “l’irresponsabile determinazione” con cui la regione Vallonia minacciava di far saltare anni di negoziati, compromettendo le relazioni con il Canada e condannando l’Unione europea a un “inarrestabile declino commerciale”.
Poi, all’inizio di ottobre, dopo una lunga indifferenza, i mezzi d’informazione europei hanno improvvisamente scoperto il Ceta, la sua importanza, la sua firma imminente e “l’irresponsabile determinazione” con cui la regione Vallonia minacciava di far saltare anni di negoziati, compromettendo le relazioni con il Canada e condannando l’Unione europea a un “inarrestabile declino commerciale”.
Le cose non sono andate così, e la Commissione lo sapeva benissimo, ma ha
preferito alimentare la sorpresa e l’indignazione, moltiplicando gli ultimatum
al Belgio e le mezze
concessioni senza nessun valore giuridico nella speranza che la
situazione si sbloccasse in tempo per la visita di Justin Trudeau a Bruxelles,
il 27 ottobre.
Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha formulato una tetra profezia:
“Il Ceta potrebbe essere l’ultimo accordo commerciale” negoziato dall’Unione
europea. Il governo federale belga, guidato da una coalizione di centrodestra a
maggioranza fiamminga, si è detto preoccupato dalla
“radicalizzazione” delle posizioni valloni.
L’Unione europea è ostaggio di un pugno di parlamentari esaltati che
rappresentano meno dell’1 per cento della popolazione europea: ecco come è
stata presentata la situazione.
Da qualche giorno comincia a farsi avanti un’altra analisi. Sempre più
commentatori denunciano la malafede delle istituzioni europee, che da un lato
auspicano una maggiore partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni
dell’Unione e dall’altro non accettano che questi stessi cittadini esercitino
il loro diritto di sorveglianza democratica.
In Belgio, altri tre parlamenti (quello della regione Bruxelles-Capitale,
quello della Comunità francese e quello della Commissione comunitaria francese)
hanno bocciato l’accordo, ma la Vallonia è diventata il simbolo di questa
resistenza.
Europeista convinto
Il merito è del suo giovane ministro-presidente, il socialista Paul Magnette, che non si è lasciato intimidire dalla pioggia di pressioni e ha continuato a difendere con eloquenza la posizione espressa dal parlamento: no al trattato nella sua forma attuale, ma piena disponibilità a ridiscuterlo per raggiungere una nuova intesa.
Il merito è del suo giovane ministro-presidente, il socialista Paul Magnette, che non si è lasciato intimidire dalla pioggia di pressioni e ha continuato a difendere con eloquenza la posizione espressa dal parlamento: no al trattato nella sua forma attuale, ma piena disponibilità a ridiscuterlo per raggiungere una nuova intesa.
Magnette è un europeista convinto, sensibile alla crisi del rapporto tra
istituzioni e cittadini dell’Unione europea fin dai tempi del suo lavoro di ricerca all’Université
libre de Bruxelles.
Opporsi al Ceta per lui non vuol dire opporsi all’Unione europea, ma a un
certo modo di fare politica al livello europeo: con condiscendenza, scarsa
trasparenza, tanta premura verso le grandi aziende e minore attenzione agli
interessi dei cittadini. Lo spiega in un bel discorso pronunciato
il 14 ottobre, che consiglio di ascoltare (o leggere)
a chiunque desideri ritrovare un po’ di fiducia nella classe politica europea.
Ora non è chiaro che fine farà il Ceta. Da lunedì circolano informazioni
contrastanti. Donald Tusk e Justin Trudeau hanno dichiarato che
l’incontro del 27 è ancora possibile anche se tutto indica il contrario.
Secondo l’eurodeputato italiano Gianni Pittella un nuovo accordo potrebbe
essere raggiunto nel giro di due o tre settimane, altri ipotizzano tempi più
lunghi. L’eurodeputato belga Guy Verhofstadt ha suggerito una soluzione più
radicale: il Consiglio potrebbe chiedere alla Commissione di tornare sui suoi
passi e annullare il carattere misto del Ceta. Di certo la Commissione, spinta
dal Canada e con il sostegno del governo federale belga, cercherà in tutti i
modi di piegare o di aggirare l’opposizione della Vallonia.
Comitato di accoglienza
È altrettanto certo che dovrà affrontare una resistenza rinforzata dalle vicende di queste ultime settimane. In Canada, Denise e gli altri membri del Réseau québécois sur l’intégration continentale hanno accolto con entusiasmo la notizia della “paralisi del Ceta”: “È frutto di una formidabile mobilitazione sociale dai due lati dell’Atlantico che è cominciata nel 2010 e si è intensificata negli ultimi mesi”, si legge in un comunicato del 24 ottobre. “Il Ceta presenta delle lacune così profonde che nulla può giustificarne l’adozione se non l’ostinazione di un’élite politica ed economica che non esita a calpestare la democrazia e insiste nel portare avanti un modello neoliberista che rappresenta una sconfitta per i popoli e per l’ambiente”.
È altrettanto certo che dovrà affrontare una resistenza rinforzata dalle vicende di queste ultime settimane. In Canada, Denise e gli altri membri del Réseau québécois sur l’intégration continentale hanno accolto con entusiasmo la notizia della “paralisi del Ceta”: “È frutto di una formidabile mobilitazione sociale dai due lati dell’Atlantico che è cominciata nel 2010 e si è intensificata negli ultimi mesi”, si legge in un comunicato del 24 ottobre. “Il Ceta presenta delle lacune così profonde che nulla può giustificarne l’adozione se non l’ostinazione di un’élite politica ed economica che non esita a calpestare la democrazia e insiste nel portare avanti un modello neoliberista che rappresenta una sconfitta per i popoli e per l’ambiente”.
Il comunicato si conclude con un invito a Trudeau: “Farebbe meglio a
restare in Canada e a cominciare a consultare la società civile per capire
cos’è che non va nel Ceta”. Se dovesse venire a Bruxelles, troverà ad
aspettarlo un animato comitato di accoglienza. Decine di associazioni belghe,
all’origine della campagna di protesta Ttip game over, avevano infatti
programmato da tempo un’azione contro la firma del Ceta, azione dal nome
premonitore: “Ceta hang over”, il rinvio del Ceta.
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