giovedì 10 aprile 2025

La missione Rubio fallisce in Giamaica: l’assistenza medica cubana resta. E lui si vendica - Flavio Bacchetta

 

Non sapremo mai cosa si sono detti Donald Trump e Marco Rubio al rientro del Segretario di Stato a Washington dopo il meeting multilaterale a Kingston con Barbados, Giamaica, Haiti, Trinidad e Tobago, più altri stati caraibici collegati da remoto, e i due successivi in Guyana e Suriname.

Rubio era partito convinto di avere gioco facile con le isole anglofone, ma ha dovuto incassare un sonoro rifiuto alla richiesta di annullamento dell’accordo per l’assistenza medica fornita da Cuba. Gli Stati caraibici hanno fatto quadrato per difendere il programma concordato con l’Avana. Dal Covid in poi, dottori e infermieri cubani si sono rivelati pressoché insostituibili nel sostenere un servizio sanitario traballante, che diventa inesistente nel caso di Haiti.

Riguardo al petrolio importato nei Caraibi dal Venezuela, e negli stessi Stati Uniti dalla Guyana, il veto sull’energia è sfumato in partenza, dal momento che per ora i dazi su petrolio e gas non sono contemplati nell’agenda Trump. La Giamaica – che ha una partnership solida con Caracas per greggio e gas liquido – ha tirato un sospiro di sollievo, mentre la Guyana, forte dei suoi nuovi pozzi off shore, ha avuto gioco più facile, essendo già nella lista Usa dei paesi fornitori di petrolio.

Dal bastone alla carota

Rubio si è trovato subito in difficoltà: partito a spron battuto, minacciando i premier convenuti di ritirare a loro e al personale diplomatico il visto per entrare negli Stati Uniti se non avessero provveduto ad annullare i permessi che consentono ai medici cubani di agire all’estero, ha dovuto registrare il netto rifiuto degli alleati.

Dopo il timido no di Andrew Holness, primo ministro giamaicano, partner storico dei Rep Usa, Mia Mottley, primo ministro di Barbados, e Ralph Gonsalves per St. Vincent e Grenadine si sono detti pronti a restituire il visto seduta stante se il segretario di stato avesse insistito nel ricatto. Rubio ha cercato di svicolare con la tattica del divide et impera, chiedendo incontri separati con i singoli paesi, ma la Mottley lo ha inchiodato, accusandolo apertamente di voler indebolire i capi di governo convenuti. La leader delle Barbados aveva già negli anni passati fatto valere le sue ragioni, rimuovendo il 30 novembre 2021 la Regina dalla carica simbolica di Capo di Stato, proclamando la repubblica e uscendo così dal Commonwealth Realm, che ne limitava l’indipendenza amministrativa, vincolando l’economia bajana agli interessi del Regno Unito.

Fu uno smacco notevole per gli inglesi – che i bajani dileggiano chiamandoli redlegs (gambe rosse) – per i quali Barbados e Bahamas rimanevano colonie con le Cayman loro cassaforte. Dal 2021 Barbados affianca le isole gemelle di Trinidad & Tobago, già repubbliche dal 1970 pur mantenendo rapporti d’affari con l’ex impero. La Mottley aveva poi sferzato duramente i capi di stato convenuti al summit Onu sul cambiamento climatico, tacciandoli di ipocrisia e inerzia. Parole profetiche oggi che la questione clima è praticamente svanita dagli impegni Usa e il combustibile fossile salito di nuovo in cattedra dopo un decennio di parole al vento, letteralmente, su energie rinnovabili e auto elettriche.

Ipocrisia stelle e strisce

La strategia di Rubio si è dimostrata subito fallimentare, accusando i presenti di sfruttare il personale medico cubano in combutta con il governo centrale che secondo il Segretario di Stato usa i suoi medici come merce di scambio, togliendo loro il passaporto e incassando direttamente gli stipendi. In realtà Cuba trattiene il 60% delle spettanze per finanziare il programma che comprende anche la scholarship, l’istruzione gratuita per gli studenti che provengono da famiglie indigenti.

Gli stati ospitanti hanno dichiarato compatti che i medici immigrati sono trattati allo stesso livello dei sanitari locali. Per esperienza diretta, posso dire che diversi in Giamaica lavorano anche dentro strutture private che sono al di fuori del programma governativo, quindi nel complesso il trattamento di cui usufruiscono, pur se non privo di lacune, è comunque una via d’uscita visto che in patria – quando va bene – arrivano a stento a cento dollari al mese. I medici, non gli infermieri, claro.

L’ipocrisia di Rubio cozza con la realtà e il suo tentativo, se fosse riuscito, avrebbe causato un collasso del sistema sanitario caraibico e africano, senza contare che anche in Italia i dottori cubani si sono rivelati preziosi, in un SSN che da anni è diventato un colabrodo scarseggiando cronicamente di mezzi e personale.

Conclusioni

A Rubio è andata male anche in Guyana, che ha tenuto duro sul programma condiviso con Cuba, mantenendo duty free i prodotti petroliferi esportati negli Usa, frutto del greggio ricavato dalle estrazioni in mare. D’altra parte gli Stati Uniti ci tengono a mantenere buoni i rapporti con la nazione confinante col Venezuela non solo per il petrolio, ma anche per un eventuale intervento militare ai danni del nemico storico, ergendosi a difensori della Guyana sul contenzioso che Maduro ha iniziato, reclamando per sé la regione guyanese di Essequibo, ricca anch’essa di petrolio e che oltretutto equivale a circa un terzo del piccolo Stato caraibico.

È giocoforza per Trump sorvolare sulla questione ideologica, evitando di applicare dazi sulla materia prima importata dal suo alleato, essenziale per gli Stati Uniti.

Ps. La vendetta di Rubio non si è fatta attendere: l’ambasciata Usa ha emesso un nuovo Travel Warning per scoraggiare l’afflusso turistico verso Barbados, Colombia, Cuba, Giamaica (a cui era stata promessa la rimozione), Haiti, Messico e Venezuela per non aver ceduto ai suoi ricatti. Colpire le economie dei paesi in via di sviluppo che non si piegano alla volontà degli Stati Uniti è una specialità della Casa (Bianca) da sempre.

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“Nella storia di Washington gli operatori sanitari di Cuba erano spie, ora sono vittime”

Omar Stainer Rivera è un ricercatore e scrittore cubano e ha pubblicato diversi articoli su quella che definisce la “strategia di boicottaggio” del governo degli Stati Uniti contro le missioni mediche cubane nel mondo ora, ancora una volta, colpito dalle recenti sanzioni promosse dal Segretario di Stato Marco Rubio. Stainer è anche l’autore del libro “The White House vs. White Coats”, che approfondisce questo argomento, e sta preparando un nuovo libro sull’argomento. Abbiamo condotto questa intervista al IV Colloquio Internazionale Patria 2025, tenutosi dal 17 al 19 marzo presso l’Università dell’Avana.

 

Stainer spiega che la strategia è cambiata. Fino a pochi anni fa, i medici cubani in tanti paesi erano presentati, nella retorica di Washington e in quella di certa stampa collegata, come “agenti del governo cubano”, anche come “spie” o “propagandisti del comunismo”, quando si trattava di cooperazione in paesi i cui governi non erano legati all’Avana; o, come strumenti per sostenere “le basi di appoggio al governo”, quando era alleato di Cuba, come nel caso del Venezuela. In entrambi i casi, l’account diplomatico e mediatico ha aggiunto due messaggi: l’incapacità professionale di questo personale cubano e l’accusa di aver “tolto il lavoro” al personale indigeno. Successivamente, la Casa Bianca ha cambiato il discorso e ha ritenuto più efficace presentare il personale di assistenza medica come vittima della “tratta di esseri umani” o del “lavoro schiavo”, una narrazione che si mantiene ancora oggi.

In ogni caso, l’obiettivo di questa strategia è quello di cancellare o rendere impossibile qualsiasi accordo medico di Cuba all’estero, sia annullandolo, sia rendendolo così difficile da renderlo impossibile firmarlo e attuarlo. Per cosa? Distruggere l’immagine della cooperazione cubana e porre fine alle entrate che, in alcuni paesi, Cuba ottiene per il suo sistema sanitario pubblico interno.

Per fare questo, il governo degli Stati Uniti utilizza vari attori subordinati: i media (il caso del “Wall Street Journal” è uno dei più significativi), le ONG come Prisoners Defenders, i membri del Congresso e i sindacati medici, tra gli altri.

Per quanto riguarda i Difensori dei Prigionieri, Omar Stainer indica che è la principale fonte del Governo degli Stati Uniti nei suoi rapporti sul “traffico di esseri umani” a Cuba, in un trattamento “circolare”, in cui il Governo e la suddetta ONG, che risponde al cento per cento ai suoi interessi, si alimentano a vicenda con storie, esempi e linguaggio.

Omar Stainer Rivera Carbó (La Sierpe, Sancti Spíritus, 1984): Laureato in Psicologia e master in Scienze della Comunicazione. Diplomato presso il Centro di Formazione Letteraria Onelio Jorge Cardoso. Ha vinto premi e menzioni al Concorso di Racconti Brevi dell’Editorial Capitán San Luis 2014 e 2015, così come al Premio 26 de Julio, dove ha ottenuto una menzione di ricerca e un premio nel genere biografico per il romanzo ancora inedito, su Félix Varela, Yo no sé callar. È stato finalista al Premio Fantoches 2019 con il romanzo Yo maté a Mella, dove vengono ricreati brani della vita di Julio Antonio Mella. Ha pubblicato Un país bajo la lluvia, Editorial Oriente, 2019.

X di Omar Stainer: @omar_stainer

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È tornato il dottor Stranamore – Massimo Nava

 

Esistono delle contromisure?

Prendere atto di queste tendenze significa immaginare al più presto le contromisure, vuoi per contrastarle e renderle reversibili, vuoi per accompagnarle e costruire a proprio vantaggio nuovi equilibri geopolitici, commerciali, culturali e persino ideali. In realtà, nessuno dei decisori (forse ad eccezione della sola Cina) sembra avere chiara in testa questa alternativa e muoversi di conseguenza. Nemmeno Donald Trump, che pure ha innescato la grande rivoluzione ma naviga a vista. E tantomeno l’Europa, come sempre in ordine sparso o assente su tutti i fronti caldi.

Decisioni dettate da improvvisazione

Le minacce attuali sono ancora più angoscianti proprio per la quasi assenza di visioni responsabili condivise e per il prevalere di decisioni dettate da improvvisazione/reazione, talvolta isterica. Come se non fosse la prima volta nella storia recente che una grande potenza rompe gli equilibri internazionali e sceglie il protezionismo. Lo fecero gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fra le due guerre.

Trump/Vance/Musk piccoli Stranamore

Se andiamo a rileggere le ultime dichiarazioni del trio Trump/Vance/Musk a proposito di Nato ed Europa e prendiamo alla lettera i programmi di riarmo della UE, viene in mente «Il dottor Stranamore», di Stanley Kubrick. Il film ruota attorno al dilemma di un attacco nucleare da parte degli Stati Uniti contro la Russia, mentre nella realtà di oggi si immagina un attacco russo all’Europa. La sostanza non cambia, così come la percezione del pericolo, esaltata o ridotta secondo convenienza, a prescindere comunque dalla logica: se la Russia ha in mente un attacco, dovremmo essere pronti da ieri, non fra dieci anni, quando Putin sarà probabilmente fuori scena. E se Mosca dialoga con Washington e vorrebbe riaffacciarsi al G7, perché dovrebbe invadere o bombardare l’Europa?

Francia, Gran Bretagna, Polonia

In ogni caso, Francia e Gran Bretagna stanno già valutando le proprie capacità nucleari (con simulazioni di attacco e possibili risposte) per alzare la posta in gioco nel dibattito sulla difesa in Europa. La Polonia è il capofila europeo del riarmo. La Germania ha mandato al macero in poche settimane il proprio debito con la Storia e con l’umanità. La Lituania e l’Estonia si sono calate nei panni del cavaliere bianco contro l’orso russo.

L’estone Kaia Kallas agli esteri

L’alto rappresentante per la politica estera della Ue, l’estone Kaja Kallas, si è distinta per avere gettato olio bollente sull’approccio americano alla guerra in Ucraina. A nome della Ue, è ancora convinta che l’Ucraina riesca a vincere, dopo il fallimento di tre anni di sanzioni alla Russia e di forniture armi all’Ucraina come unica politica dell’Ue. Peraltro, il suo piano di riarmo dell’Ucraina – 40 miliardi di nuove forniture – è morto prima di nascere, avendo riscontrato l’opposizione di diversi Paesi. In pratica, una prova d’improvvisazione mista a personalizzazione ideologica. La perplessità – se non proprio l’irritazione – delle cancellerie europee starebbe soprattutto nel metodo: una fonte ha spiegato che la liberale estone si comporta ancora come se fosse il primo ministro della piccola Repubblica baltica, senza prestare grande attenzione ai delicati equilibri e alle diverse sensibilità dei 27 in politica estera.

Problema ‘deterrenza’ nucleare

Ancora più preoccupante è il fatto che l’isolazionismo degli Stati Uniti, non più garanti della sicurezza internazionale, l’aggressione della Russia all’Ucraina e i piani segreti di Iran e Cina, abbiano spinto diversi paesi, dalla Polonia all’Australia, dal Giappone alla Corea del Sud a porsi anche la questione della deterrenza nucleare. Tutti sembrano avere dimenticato la crisi di Cuba, quando nel 1962, lo stallo della Baia dei Porci tra Stati Uniti e Russia sfiorò uno scambio missilistico tra le superpotenze. La logica del dottor Stranamore ruota attorno a un dilemma irrisolvibile che tuttavia è alla base del riarmo: se il mio avversario dispone di armi nucleari e teme di essere colpito o potrebbe pensare di colpirmi, meglio essere pronti a colpire per primi.

È una logica che vale anche per le armi convenzionali, come si vede dai processi di riarmo già lanciati in Polonia, Germania, Sud Corea, Australia, Gran Bretagna e presto Canada, e dal lancio del programma europeo, «Rearm Eu».

L’accoppiata Trump/Musk

Paradossalmente, questi processi sono innescati dal venire meno degli Stati Uniti come iperpotenza imperiale che oggi si pone come potenza continentale, decisa a proteggere i propri interessi economici e il giardino di casa. Questo ha generato ovunque insicurezza strategica e volatilità economica, tanto più che l’atteggiamento della Casa Bianca, non essendo dettato da una strategia lineare, non sembra nemmeno prevedibile.
Di fatto, l’accoppiata Trump/Musk sta azzerando i tentativi di costruire una globalizzazione intelligente e un sistema di relazioni multipolare per sostituirli con una forte deregulation commerciale, finanziaria, militare, peraltro in contraddizione con i principi delle democrazie liberali incarnati dal modello economico, sociale e statuale americano.

Suprematismo bianco e tecno imperialimo

La deregulation americana è inoltre accompagnata da tendenze culturali e ideologiche che stanno cambiando la pelle della società americana e si pongono come tendenze da esportazione che poco hanno a che vedere con una democrazia matura: suprematismo bianco, criminalizzazione e disprezzo per gli avversari, controllo dei media, attacchi alla magistratura, nuove barriere statuali, delegittimazione dei contrappesi istituzionali, immigrazione e integrazione narrati come pericoli e disvalori.
Qualcuno ha parlato di tecno-integralismo, se si considerano lo strapotere economico e tecnologico del personaggio Musk accoppiato alla sua visione del mondo e dei rapporti umani. È un percorso che sta mandando in soffitta i valori dell’Occidente, l’etica protestante del capitalismo, la visione keynesiana dell’economia e del ruolo dello Stato e che oggi rischia di travolgere anche i valori dell’Europa.

Democrazia Usa molto malata, quella Ue brutti sintomi

Se la democrazia americana sembra oggi malata, quella europea non se la passa molto bene. Le dinamiche politiche interne ai Paesi più importanti sembrano assecondare la rivoluzione americana. Basti osservare la crescita dei populismi in Francia e Germania e il recente attacco alla magistratura dal parte di Marine Le Pen dopo la condanna all’ineleggibilità e la solidarietà che essa ha riscosso fra le destre europee e negli Usa. D’altra parte, la cronica incapacità di decisioni rapide e condivise condanna la Ue alla marginalità politica oggi e a quella economica domani. In tre anni di guerra in Ucraina, la Ue non ha nemmeno immaginato un piano di pace né ha inventato una figura super partes che sapesse dialogare fra le parti. Lo stesso dicasi per il Medio Oriente.

«Burn After Reading – A prova di spia»

Se il dottor Stranamore di Stanley Kubrick ci richiama l’angosciante incertezza del mondo, un film molto meno conosciuto – «Burn After Reading – A prova di spia» dei fratelli Coen – ci rimanda alla stupidità e al dilettantismo del potere a proposito del giornalista americano di The Atlantic accidentalmente aggiunto alla messaggeria segreta fra ministri e alti funzionari della Casa Bianca. Le disfunzioni sono altrettanto e forse più pericolose delle decisioni autoritarie e improvvisate.

Il consenso non è sinonimo di competenza

Donald Trump sta così mettendo in scena la sua presidenza, illudendo se stesso e il suo staff che il consenso popolare sia sinonimo di competenza (vale anche per l’Italia, Ndr). E come in ogni sistema di potere praticamente assoluto, fra buffoni di corte, approfittatori, clientele e consiglieri interessati alla carriera, nessuno osa dire che «Il Re è nudo». Se solo l’opinione pubblica facesse tesoro delle sue affermazioni, delle fake news e dei suoi propositi su Covid e vaccini, confine messicano e Groenlandia, trasformazione di Gaza nella Miami del Mediterraneo, propositi di deportazione di migranti, confusione fra Iva e dazi e via delirando, forse non saremmo a questo punto. Eppure queste cose non sono sceneggiatura da film: sono state dette, teorizzate, conclamate senza contraddittorio. Ma l’opinione pubblica è assente o schierata. E la critica, come la magistratura, è un trascurabile impiccio.

Quanto ai contrappesi istituzionali, basti pensare al ruolo assunto da Elon Musk nella politica americana e sulla scena mondiale: l’amministrazione, il sistema di telecomunicazioni satellitari, le nuove tecnologie trasformate in affari di Stato gestiti personalmente e con pieni poteri. In pratica in affare privato.

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mercoledì 9 aprile 2025

La Dittatura di Wall Street è finita. Ora gli Stati si preparano a PRIVATIZZARE TUTTO

 

Lo sterminio a Gaza è il male oscuro del nostro Occidente - Pino Arlacchi

Per secoli gli imperi hanno applicato e giustificato metodi vendicativi; solo di recente l’opinione pubblica ha avuto il potere di stabilire cosa è giusto.

Come è possibile che a Gaza, negli stessi luoghi di analoghi misfatti descritti dalla Bibbia, l’esercito israeliano armato dagli Usa stermini senza pietà donne e bambini a migliaia senza suscitare reazioni di orrore in Occidente?

La risposta viene da lontano, e sta nel male oscuro che continua ad affliggere l’Occidente nonostante i suoi tentativi di curarlo. L’arma di affamare una popolazione assediata per farla arrendere o annichilirla è vecchia quanto l’Iliade e la Bibbia. La morte per inedia e maltrattamenti delle popolazioni ostili o ridotte in schiavitù è stata per lungo tempo, per i poteri occidentali, una possibilità che rientrava nell’ordine naturale delle cose.

Nell’antichità greco-romana madre dell’Occidente, giustizia voleva dire vendetta e il concetto di giustizia era completamente arcaico. Esso includeva il genocidio, come quando Agamennone rimprovera il fratello Menelao d’aver compassione per un ostaggio che lo implora di non ucciderlo: “… Perché mai tanti riguardi per questi uomini? Ti hanno proprio fatto così del bene a casa tua? No. Di loro qui nessuno ha da sfuggire alla morte. Neanche il piccolo che la madre si porta ancora in grembo – no, neppure quello scamperà. Devono scomparire tutti insieme…”. E Omero approva, dicendoci che quest’esortazione di Agamennone, date le sue “buone ragioni”, coglie nel segno e convince il fratello.

Dovevano passare mille anni perché una più evoluta idea di vendetta/giustizia si affermasse in Occidente, giungendo a includere la proporzionalità e la clemenza, e a escludere l’annichilimento del nemico e di tutta la sua stirpe. Ed è su questo sfondo che dobbiamo collocare la massima biblica dell’“occhio per occhio e dente per dente”.

La legge del taglione fu un progresso. Essa significava che occorreva limitarsi a togliere solo un occhio per ogni occhio, piuttosto che uccidere il trasgressore e tutti i suoi parenti. Questa evoluzione dal genocidio alla proporzionalità dell’atto di vendetta si accompagna alla progressiva distinzione tra responsabilità individuale e colpa collettiva.

Ma la tensione tra queste diverse concezioni della guerra e della vendetta/giustizia, in realtà, non si è mai sciolta in Occidente. È divenuta minoritaria perché sopravanzata dal processo di incivilimento, per poi tornare alla ribalta nei nostri giorni, con genocidi e crimini contro l’umanità il cui ritorno veniva ritenuto impossibile. L’Olocausto nazista e il genocidio di Gaza sono due tristi esempi di ciò.

Nei secoli la violenza della Bibbia ha continuamente prevalso sul Vangelo, costituendo un modello che ha ispirato le Crociate, le guerre di religione, l’espansione coloniale oltreoceano, il genocidio dei nativi americani e altri crimini fino a Gaza.

Il Vaticano dei cattolici è stato simbolo di corruzione e di violenza lungo l’intera epoca moderna, mentre i pastori protestanti hanno benedetto tutte le nefandezze europee nel Nuovo Mondo. Si è dovuti arrivare al XX secolo per trovare Papi che hanno iniziato a ripudiare la guerra, e ai nostri giorni per avere Francesco, il cui Pontificato si è caratterizzato per la condanna alla guerra in quanto tale, senza se e senza ma.

È vero che la tradizione occidentale della guerra è variegata, includendo le guerre di conquista, di conservazione dello status quo e le guerre imperiali. Ma in fondo a ogni guerra c’è sempre stata, e c’è, l’opzione dell’herem, dell’annientamento puro e semplice del nemico, a dispetto degli stessi scopi iniziali del conflitto. Ed è stato proprio il maggiore studioso della guerra occidentale, von Clausewitz, ad ammonirci che “l’introdurre un principio di moderazione nella guerra è una vera assurdità”.

Il culmine della traiettoria iniziata con i genocidi della Palestina del Vecchio Testamento è stata l’invenzione dell’arma più conforme al genocidio: la bomba atomica creata dai vertici della scienza occidentale, e usata dagli americani a Hiroshima e Nagasaki. La guerra atomica globale è la versione ultima dell’herem biblico. È il regalo che la vocazione distruttiva e autodistruttiva dell’Occidente ha fatto a se stesso e al resto del mondo.

Gli imperi si sono autocelebrati definendosi come portatori di stabilità e di pace. In realtà, la “pacificazione” è consistita nell’uso della violenza senza freni contro ogni insubordinazione. Di fronte alla ribellione, l’ultima ratio del potere imperiale è stata quasi sempre il genocidio. È così che si sono comportate due potenze “democratiche” come Atene e Roma. L’annichilimento della popolazione di Melos da parte di Atene viene giustamente ricordato come uno dei primi genocidi. Una tipica campagna di conquista come quella della Gallia da parte di Giulio Cesare o della Giudea da parte dell’imperatore Adriano poteva costare centinaia di migliaia di vittime civili.

La mentalità genocidiale s’è trasmessa quasi intatta dall’antichità al Medioevo. Il genocidio come strumento di governo s’è trascinato per i secoli successivi e fin dentro il Novecento. L’opzione dello sterminio totale fu tenuta sul tavolo dai poteri metropolitani che si trovarono a fronteggiare popolazioni che sostenevano la guerriglia e i movimenti di liberazione nazionale. In Corea, Algeria, Vietnam, Laos e altrove, i regimi democratici imperiali hanno rinunciato con riluttanza a usare le tattiche d’annientamento.

Il fattore decisivo per la cessazione dei genocidi imperiali durante la decolonizzazione postbellica e fino adesso, non è stato la capacità militare delle forze ribelli ma l’evoluzione dell’opinione pubblica nei territori metropolitani. Questa ha condannato con veemenza sempre maggiore le pratiche di sterminio e ha fatto dipendere i risultati elettorali dal comportamento dei governi su questo tema, creando nel contempo il cosiddetto “tabù atomico”.

Gli eserciti metropolitani si sono trovati così nell’impossibilità di vincere guerre contro piccole entità ribelli. Non potendo usare le armi della distruzione totale, sono stati costretti a ritirarsi. L’ultimo episodio è la ritirata ignominiosa Usa dall’Afghanistan nel 2021, dopo 20 anni di occupazione militare.

Una diagnosi approfondita del male oscuro che affligge la civiltà occidentale fin dai suoi albori non è stata ancora fatta. Alcune grandi menti hanno percepito il destino tragico dell’Occidente senza darne una vera spiegazione. La vita dell’Europa sembra come sovrastata da un indelebile difetto primordiale che la condanna al declino e alla fine.

Questo ordine di idee è inchiodato all’intuizione di Nietzsche sul nichilismo europeo, cioè sul cupio dissolvi dell’Occidente. La guerra senza freni ha finito col trionfare, da noi, su ogni altra cultura militare. Questa stessa tradizione ha portato al disastro della prima guerra mondiale combattuta quasi esclusivamente tra stati europei. La Seconda guerra mondiale ha completato la rovina iniziata dalla prima e ha introdotto nella scena le armi nucleari, che sono l’avveramento della massima di Nietzsche, nonché la negazione dell’idea che la guerra sia la continuazione della politica.

Ma è tempo di andare avanti, perché anche le civiltà possono crescere, imparare dagli errori e curare le proprie patologie. È tempo d’andare avanti perché altri aspetti del destino occidentale – quelli del lato illuminato della sua storia – hanno creato le condizioni per un possibile superamento del male oscuro. Può anche darsi che ci troviamo al fondo di una breve caduta, pronti per un nuovo rimbalzo come quello avvenuto dopo il 1945.

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martedì 8 aprile 2025

«Voluntary Humanitarian Refusal. Una scelta che non puoi rifiutare»

Al via la campagna per denunciare l’uso strumentale dei rimpatri volontari assistiti dai paesi di transito

 

Una campagna promossa da Asgi, ActionAid Italia, A Buon Diritto, Differenza Donna e Lucha y Siesta, Spazi Circolari e Le Carbet.

Negli ultimi dieci anni, i Rimpatri Volontari Assistiti (RVA) hanno assunto un ruolo centrale nelle politiche di gestione delle migrazioni, sia nei paesi di destinazione, come quelli europei, sia nei cosiddetti paesi di transito. Questi programmi sono fortemente promossi e ampiamente finanziati dai governi europei e attuati principalmente dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), che li definisce come “assistenza logistica o supporto finanziario, inclusa l’assistenza alla reintegrazione, alle persone migranti che non possono o non vogliono rimanere nel paese di destinazione o di transito e che decidono di tornare nel proprio paese di origine”.

A distinguerli dai rimpatri forzati dovrebbe essere la volontarietà, il desiderio della persona di tornare nel proprio paese, a cui si offre assistenza logistica e finanziaria per effettuare il viaggio. Un rimpatrio può essere considerato davvero volontario se la decisione è libera e informata, se non vi è alcuna coercizione fisica o psicologica e se esistono per la persona che lo richiede alternative reali al rimpatrio, come l’accesso a forme di protezione e a canali di migrazione regolare. Tuttavia nei paesi di transito come la Libia e la Tunisia queste condizioni sono sistematicamente assenti: le persone migranti sono costrette a ricorrere ai rimpatri per sfuggire a situazioni di violenza, torture e sfruttamento e non per una scelta libera, non possono accedere a forme di protezione legale né a canali di migrazione regolare, e il rimpatrio le espone spesso a rischi nei paesi di origine. 

Da anni, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) e gli Special Rapporteurs sui diritti dei migranti denunciano queste criticità. Eppure l’Italia e l’Europa continuano a finanziare i programmi di rimpatrio “volontario” da paesi di transito senza garanzie effettive di protezione.

Proprio per denunciare l’uso strumentale e distorto dei rimpatri volontari assistiti dai paesi di transito nasce la campagna “Voluntary Humanitarian Refusal: una scelta che non puoi rifiutare” lanciata dalle organizzazioni Asgi, ActionAid Italia, A Buon Diritto, Differenza Donna, Le Carbet, Lucha y Siesta e Spazi Circolari.

I dati raccolti dalle organizzazioni

RVA dalla Libia con finanziamenti italiani 1: tra settembre 2017 e dicembre 2024 sono state rimpatriate dalla Libia con finanziamenti stanziati dal MAECI, nell’ambito del c.d. fondo Migrazioni (ex fondo Africa), 11.415 persone, all’interno dei progetti dell’OIM Comprehensive and Multi-sectoral Action Plan in Response to the Migration Crisis in LibyaMulti-sectoral support for vulnerable populations and communities in LibyaMultisectoral support for vulnerable migrants in Libya.

L’ammontare dei finanziamenti ai programmi di rimpatrio volontario e reintegrazione:

§     2.450.000 euro, di cui 970.000 per il VHR, nell’ambito del progetto OIM Multisectoral support for vulnerable migrants in Libya (luglio 2024 – giugno 2026);

§      5.150.910 euro, nell’ambito del progetto OIM Multi-sectoral support for vulnerable populations and communities in Libya (settembre 2021-gennaio 2025);

§   11 milioni, nell’ambito del progetto OIM Comprehensive and Multi-sectoral Action Plan in Response to the Migration Crisis in Libya (settebre 2017 – aprile 2021).

RVA dalla Tunisia con finanziamenti italiani: tra marzo 2022 e febbraio 2024 sono state rimpatriate dalla Tunisia, con finanziamenti stanziati dal MAECI nell’ambito del c.d. Fondo premialità, 1.441 persone, nell’ambito del progetto dell’OIM Enhancing Response Mechanisms and Assistance to Vulnerable Migrants in Tunisia, nuovamente finanziato dal MAECI nel novembre 2024.
Un nuovo finanziamento di 3 milioni erogato dal MAECI nel novembre 2024 ha portato a più di 9 milioni la totalità del finanziamento, estendendo il numero di persone da rimpatriare entro il 28 febbraio 2027 a 2.050. Nelle diverse fasi del progetto in questione, le risorse economiche sono state progressivamente stanziate a favore dei programmi di RVA&R, a discapito delle misure di assistenza per le persone migranti in Tunisia, per un totale di quasi 5 milioni, che rappresenta più dell’80% dei costi operativi del progetto, al netto delle spese.

Con la campagna le organizzazioni promotrici chiedono:

§ 

lo stop ai finanziamenti ai rimpatri “volontari” dai paesi di transito, quali la Libia e la Tunisia, dove il rimpatrio diventa una scelta obbligata; 

§  l  libertà di movimento e politiche di protezione, non di esternalizzazione, e lo stop alla cooperazione legata a logiche di deterrenza e blocco della mobilità, per permettere la libera circolazione e il reale esercizio del diritto di lasciare il proprio paese in cerca di protezione, nel pieno rispetto del diritto di asilo; 

§  l l'interruzione immediata degli accordi e dei finanziamenti finalizzati a impedire l’arrivo delle persone migranti in Europa; 

§  l l'adozione di politiche attive di protezione, che garantiscano la possibilità di entrare in Europa per le persone che fuggono dalle violenze e dalle persecuzioni in Libia e Tunisia e nei loro paesi di origine; 

§    maggiore trasparenza, garanzie e monitoraggio dei diritti umani nei progetti finanziati con fondi pubblici.

§   

Scarica il manifesto della campagna

                     

È possibile unirsi alla campagna compilando questi moduli:

 

§      Form per organizzazioni

§   

§    Form per adesioni individuali

§   

da qui

Se l’Ucraina entra in Ue il disastro sarà completo: a Trump le terre rare, a noi la ricostruzione - Luca Fazzi

Gli spasmi delle coalizioni europee che hanno sostenuto tre anni di carneficine in Ucraina, rinunciando a qualsiasi sforzo di natura diplomatica, sono entrati nella fase più pericolosa.

Il passo che rischia in questa fase di accelerare il disastro è l’entrata dell’Ucraina nell’Unione Europa auspicata e evocata sempre più frequentemente dalle oligarchie sconfitte del vecchio continente. Con il veto di Trump sull’ingresso del paese aggredito militarmente nella Nato, alle élites europee al potere prive del coraggio di muovere una guerra diretta alla Russia, non resta che la carta dell’allargamento del proprio confine geografico e sono molti i politici internazionali e nazionali che, in metaforica prima linea, supportano questa ipotesi.

Le ragioni di tale scelta, date in pasto a un ormai esangue opinione pubblica attraverso media e propaganda quotidiana, sono la difesa della democrazia e dei valori europei in uno scenario che approssimerebbe i tardi anni Trenta e l’ascesa del Terzo Reich. Ora che difendere l’Ucraina inglobandola nella Ue aumenti la possibilità di resistere all’invasione russa senza la possibilità di attivare l’articolo 5 della Nato, non si capisce come possa accadere. Quello che invece è molto chiaro è che alla fine del conflitto, se l’umanità sopravviverà, l’Ucraina verrà divisa in due parti e che la parte fuori dall’influenza russa diventerà un terreno miliardario di ricostruzione e investimenti. Siccome è da decenni che le politiche europee sono guidate dagli interessi di lobbies e grandi investitori, ciò che è destinato ad accadere è che l’adesione all’Europa comporterebbe un impegno, venduto come etico e morale, di aiutare i nuovi fratelli e sorelle per ricostruire la nazione.

Donald Trump ha già dichiarato di essere in credito di 500 miliardi con Zelensky da ripagare con terre rare. Agli europei spetteranno dunque gli oneri della ricostruzione. Quando si parla di responsabilità morale degli europei naturalmente non si fa riferimento alle oligarchie che hanno contribuito a prolungare la guerra e la distruzione per tre anni: le Von der Leyen, le Metsola, i Macron, i Draghi, i Gentiloni. Se a pagare il conto fossero i patrimoni delle élites guerrafondaie, dei portaborse e magari dei clienti che ne hanno beneficiato direttamente come le grandi industrie delle armi, forse, si potrebbero anche avanzare meno obiezioni.

A saldare il debito che la maggior parte dei cittadini europei non ha cercato, e non ha voluto, saranno invece i pensionati a cui in Italia la Consulta ha appena confermato il taglio delle rivalutazioni periodiche degli assegni previdenziali, i lavoratori con i salari che a fatica arrivano a fine mese, i giovani costretti a lavorare fino a 70 anni, i cittadini che venti anni fa avevano accesso alle cure del SSN e che dopo che i loro stati hanno aderito all’agenda della competizione europea sono costretti a rivolgersi al privato, se hanno le risorse, o altrimenti a non curarsi.

A guadagnare invece non è difficile prevederlo saranno coloro che tirano le fila: i fondi internazionali, gli amici degli amici, quelli che vedono sempre una opportunità imprenditoriale, anche dalla fine del mondo. Certo: è giusto sottolineare che i cittadini europei hanno votato la rappresentanza politica più indecorosa e incapace del dopoguerra e quindi, in parte, sono anche loro responsabili della tragedia. Ma forse in nome di quegli alti valori di democrazia che continuamente i politici al potere richiamano per giustificare ogni loro decisione, prima di avviare la procedura di ammissione definitiva dell’Ucraina all’Unione Europea, bisognerebbe come minimo organizzare un referendum e chiarire i vantaggi e i costi di una simile operazione. Così ciascuno potrebbe valutare pro e contro della storica scelta e magari anche riflettere sul fatto che un ulteriore impoverimento della popolazione europea è l’ovvia anticamera dell’esplosione di populismi e dei sovranismi e la fine dall’Europa come è stata conosciuta dal dopoguerra a oggi.

A meno di non volere naturalmente continuare a credere che la Russia si stia veramente preparando a invadere il vecchio continente. Il che, fosse vero, dovrebbe comportare almeno l’immediata rimozione dell’olandese Rutte da segretario generale della Nato, protagonista un paio di giorni fa della solenne affermazione secondo cui, se Putin provasse già oggi a invadere i sacri confini della terra della libertà e della democrazia, la risposta che riceverebbe sarebbe letale.

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lunedì 7 aprile 2025

Il mestiere di giornalista raccontato da Riccardo Orioles

Vivere per fare le cose giuste

"Vogliamo vivere, ci piace stare al mondo, vorremmo continuare a starci il più a lungo e il meglio possibile, e tutto sommato non abbiamo voglia di fare male ad altre persone come noi. Ecco, questa è l'elementarità della condizione umana".

In questo video

che Riccardo Orioles ha inserito ieri su Youtube, viene tracciata a zig-zar, fra ricordi e riflessioni veloci, la sua visione del mondo.

Già giornalista dei Siciliani e caporedattore del settimanale "Avvenimenti", si esprime nel video in un flusso di coscienza ininterrotto, legato da un filo conduttore: la scelta di vivere per uno scopo, spesso da ricercare mentre si vive. E' un flusso di pensieri che attraversa la sua vita e quella di tanti altri. La sua voce, a tratti malinconica ma mai priva di speranza, costruisce una conversazione con i suoi amici di lunga data.

E si chiede ad un certo punto: "Stiamo facendo qualcosa di utile o stiamo semplicemente perdendo tempo? Come facciamo a saperlo?"

È il dubbio che attraversa chi, come lui, ha dedicato la vita al giornalismo d'inchiesta, a quel "mestiere" che dà il titolo al suo programma.

"Naturalmente - aggiunge - siamo impegnati per cercare di mantenere le cose civili".

Il suo pensiero va alle persone che, in diverse parti d'Italia e del mondo, portano avanti questo impegno, spesso senza conoscersi tra loro. "È un meccanismo buffo e divertente," osserva, "queste connessioni casuali tra persone distanti che si ritrovano a collaborare su iniziative legate alla storia dei Siciliani e all'impegno civile."

Orioles parla del "nostro giornale", un "modestissimo foglio di quattro paginette" che cerca di mantenere viva la memoria e di collegare queste persone sparse. Un piccolo faro nella tempesta dei tempi, in un'epoca in cui "i re sono diventati più cattivi e gli imperi adesso sono molto più aggressivi". Un'epoca in cui ritornano mentalità fasciste che rimettono in discussione tabù fondamentali, come il rispetto della vita dei bambini.

Il pensiero corre a Pippo Fava, il giornalista ucciso dalla mafia nel 1984, e alle sue lezioni di "buon giornalismo" a Catania e Palermo. Orioles ricorda la definizione che Fava dava della mafia: "Una cosa che fa parte della nostra società, del nostro mondo, delle banche, del Parlamento, del governo." Una visione lucida di un sistema di potere che va ben oltre la criminalità organizzata.

Eppure, nonostante tutto, nelle parole di Orioles c'è spazio per una speranza testarda: "Possiamo essere ottimisti perché non si è fermato assolutamente né si fermerà questo meccanismo fondamentale di noi esseri umani". La speranza che le piccole azioni di oggi, i tentativi di vivere "coraggiosamente cercando di fare qualcosa di utile, di non fare male a nessuno e in qualche modo di sopravvivere," porteranno frutti che i "nipotini tra una quarantina d'anni" potranno raccogliere.

"Vogliamo vivere, ci piace stare al mondo, vorremmo continuare a starci il più a lungo e il meglio possibile, e tutto sommato non abbiamo voglia di fare male ad altre persone come noi," conclude Orioles. "Ecco, questa qui è l'elementarità della condizione umana".

Una verità semplice per chi non ha mai smesso di credere nel valore della memoria, della connessione umana e dell'impegno civile.


Riccardo Orioles, nato a Milazzo nel 1949, ha iniziato a scrivere come giornalista negli anni Settanta collaborando con piccoli giornali locali e partecipando alle prime esperienze delle radio libere. Nel 1982, insieme a Pippo Fava, ha fondato "I Siciliani", un mensile edito a Catania. Il giornale, unico nel panorama cittadino dell’epoca, denunciava apertamente le attività illecite di Cosa Nostra. Il giornale affrontava temi come mafia, massoneria e politica, con l’obiettivo dichiarato di condurre inchieste rigorose e portare alla luce ciò che per anni era rimasto nell’ombra. A poco più di un anno dalla nascita del giornale, nel gennaio 1984, Pippo Fava fu assassinato dalla mafia.

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Bucha: il lato censurato della storia – Testimonianze all’ONU

 

domenica 6 aprile 2025

Max Blumenthal: “Gli Stati Uniti sono diventati agenti di Israele”

 

Il silenzio degli agnelli - Carlos X. Blanco

 

Ci conducono, come se fossimo agnelli, al macello. I cittadini dell'Europa occidentale sono stati agnelli per molto tempo. Un agnello è mansueto anche quando finge di non esserlo e mostra i suoi denti da erbivoro ai lupi e ad altra fauna: i lupi che sono liberi nel mondo, e le iene che guidano il gregge, lo sanno, ed è per questo che stanno preparando l´olocausto per questo gregge di pecore con i denti scoperti. Ursula e Sanchez sono erbivori guidati da lupi molto feroci nell'ombra.

Sarà l'olocausto degli europei, con la complicità - attiva o passiva - della cosiddetta sinistra.

Uno dei riferimenti teorici della sinistra spagnola, Manolo Monereo, in una recente intervista per la pubblicazione “El Viejo Topo” [numero di marzo 2025, in dialogo con Miguel Riera], ha sostenuto, con una grande dose di realismo, che la vera sinistra non esiste più. Ci può essere la destra e l'ultradestra, o la sinistra neoliberale (woke, progressista, arcobaleno, postmoderna o come la si voglia chiamare). E quest'ultima non è certo la vera sinistra. È semplicemente l'ala “progressista” della destra neoliberista di sempre.

In questa intervista, Monereo propone una traversata del deserto, cioè una lenta e faticosa ricostruzione della sinistra, assumendo - ancora una volta - tutti i suoi valori irrinunciabili (repubblicanesimo, socialismo, uguaglianza tra cittadini e tra territori), ma, dice, senza spendere un solo minuto per criticare la sedicente ma falsa sinistra, oggi e di recente al potere in Spagna e in altri paesi europei.

Una sinistra chiaramente atlantista (e quindi guerrafondaia), neoliberista, globalista, transumanista, immigrazionista e - in breve - nemica delle classi popolari o lavoratrici.

Un errore grossolano, in mezzo a tutto il buon senso che Monereo emana. Modestamente, e con affetto, vorrei farglielo notare. Tutti i populismi neoliberali della peggior specie (Trump e l'Alt Right anglosassone, Milei e la sua motosega in Argentina, Meloni e il suo otanismo in Italia, il sionista Abascal nella stessa Spagna...) tutti esemplari prodotti dallo stesso feroce capitalismo, non possono essere combattuti se prima non si elimina radicalmente ogni confusione: resta un pregiudizio nominalista (e Monereo lo commette) chiamare “sinistra” ciò che, senza ulteriori indugi, continua a qualificarsi come tale. Nel governo spagnolo, accanto a Pedro Sánchez, c'è una signora che è secondo vicepresidente del governo e si finge “di sinistra”, la vicepresidente del governo spagnolo: Yolanda Diaz. Persino Pedro Sanchez e tutta la sua schiera di socialisti fustigatori sono “di sinistra”, se dobbiamo ascoltare le loro dichiarazioni.

Ma concentriamoci su Yolanda. È la leader del partito politico Sumar che, ogni giorno che passa del governo socialista di Sánchez, sprofonderà sempre di più nel guerrafondaio, nei tagli criminali alla spesa sociale e nella russofobia. Con l'inoperosità e la mera “postura” degli altri gruppi di sinistra (Podemos, Izquierda Unida, Compromís...), la Spagna si sta unendo alla schiera di agnelli pronti a entrare in una guerra folle, ingiusta e non vincibile, e tutta questa sinistra affamata di posizioni, stipendi e indennità è complice.

Nella questione del presunto riarmo dell'Europa, un desiderio che implica un esborso e un indebitamento senza precedenti per le martoriate economie nazionali dell'Occidente, abbiamo il vero banco di prova della “sinistra”. Nessuno di questi partiti di establishment (partitocrazia) è stato in grado di unire un vero fronte civico, al di là delle differenze ideologiche, strategiche o tattiche tra loro. Non è che non si sia formato un blocco di solidarietà con il popolo russo (che dovrebbe essere il riflesso innato del popolo spagnolo e di altri nostri vicini), dato il profilo dittatoriale di Zelensky e il suo non celato ruolo storico di fantoccio dell'Impero occidentale. Lungi da manifestazioni di massa in solidarietà con la Federazione Russa, lungi anche dal vedere le strade spagnole piene di manifestanti per la pace e la neutralità, i cittadini sono indifferenti quando non ingoiano (e qui c'è molto da ingoiare!) la narrazione ottomana di uno “zar” o di un “nuovo Stalin” che minaccia di portare i suoi carri armati o i suoi missili a Madrid o a Lisbona.

Sono ogni giorno più convinto della necessità di superare queste etichette feticiste (“sinistra”, “destra”, “populismo”). Un'alternativa repubblicana, popolare, socialista, che si opponga veramente al sistema corrotto che mantiene i Paesi dell'Europa occidentale in un regime di colonia, vassallaggio, protettorato è ciò che va costruito con tenacia.

“Essere di sinistra”, mettendosi alle spalle le aggettivazioni di moda (neoliberista, arcobaleno, atlantista, governativa, transfemminista...) non è essere di sinistra. È, prima di ogni altra cosa, uno scherzo e una contraddizione.

Pertanto, a Monereo o a chiunque di noi voglia uscire dalla NATO, dall'UE, dall'Agenda 2030, dall'Euro, dall'“asse occidentale”, dal delirio multiculturale, transgender, transumanista, e così via, direi solo due parole: Critica feroce!

Il peggio del populismo, per quanto si possa anteporre la lettera U-L-T-R-A, è dietro l'angolo. Un sacco di gente arrabbiata comprerà la merce avariata, difficile da digerire e puzzolente che, curiosamente, avrà come ingredienti il fascismo sionista, l'impero del dollaro e della tecnologia, il neoliberismo più rigido e il massacro più apocalittico delle classi medie e lavoratrici del cosiddetto Occidente. per porre fine a talune dolorose ingiustizie Questa è la chiave dei vari populismi che una sinistra tendenzialmente ottusa chiama “nazismo”.

O si ricostruisce questa alternativa repubblicana, socialista e democratica, al di fuori della NATO e dell'UE, o arriverà il peggiore dei lupi e il più sinistro dei mattatoi. O la guerra stessa.

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sabato 5 aprile 2025

Strage fascista di Brescia: sentenza dopo 51 anni conferma le complicità istituzionali e atlantiche - Alessandro Marescotti

 

La definizione ormai abusata di “servizi segreti deviati” non regge più alla luce di questa sentenza. I depistaggi furono un’azione consapevole, deliberata, volta a mantenere l’Italia all’interno dell’orbita atlantica e a garantire l’“ordine”, anche a costo di sacrificare vite innocenti.

 

A cinquantun anni di distanza dai fatti, una nuova sentenza emessa in primo grado riapre il dibattito pubblico sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, avvenuta il 28 maggio 1974, in cui morirono otto antifascisti e oltre cento persone rimasero ferite. A darne notizia è un articolo di Giovanni Bianconi pubblicato sul Corriere della Sera di oggi, 4 aprile 2025, con il titolo "Una sentenza che conferma la trama stragista e i depistaggi".

Il provvedimento giudiziario riguarda Marco Toffaloni, una persona che all’epoca dei fatti era minorenne e che oggi risiede in Svizzera, con il nome di Franco Maria Muller, al riparo da eventuali conseguenze legali. La Svizzera ha dichiarato che non procederà alla sua estradizione nemmeno in caso di condanna poiché per la legge elvetica il reato di cui è accusato risulta prescritto. 

Nonostante ciò, l’autore dell’articolo sottolinea come la sentenza non sia affatto priva di valore: essa contribuisce infatti a delineare con maggiore chiarezza il contesto e le responsabilità che portarono all’attentato di Brescia, inserendolo all’interno di un disegno strategico più ampio che interessò l’Italia tra il 1969 e il 1974.

Secondo Bianconi, la sentenza rappresenta l’ennesima conferma del ruolo svolto da ambienti dell’estrema destra neofascista, protetti da complicità istituzionali che operarono sistematicamente per ostacolare la verità. L’articolo contesta la definizione ormai abusata di “servizi segreti deviati”, proponendo una lettura più radicale: quella di un’azione consapevole, deliberata, volta a mantenere l’Italia all’interno dell’orbita atlantica e a garantire l’“ordine”, anche a costo di sacrificare vite innocenti e deviare le indagini giudiziarie.

La sentenza riconosce infatti l’aggravante dell’intralcio al lavoro degli inquirenti dell’epoca, confermando come la macchina dei depistaggi non fu frutto di improvvisazione, ma parte integrante di una strategia politico-istituzionale. La volontà di proteggere “estremisti neri di tutte le età” – come scrive Bianconi – è ormai un dato acquisito nei principali procedimenti relativi a quella stagione di violenza politica.

Questa novità giudiziaria, pur giungendo a distanza di oltre mezzo secolo, rappresenta un passo importante nella ricostruzione della verità storica e giudiziaria su uno degli episodi più tragici e simbolici dell’epoca della “strategia della tensione”. La memoria delle vittime, l’impegno degli antifascisti e la richiesta di giustizia che per decenni si è levata da Brescia trovano oggi un ulteriore riconoscimento nelle aule dei tribunali.

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Il ripristino della menzogna e della follia nella storia americana - Chris Hedges

 

L'ultimo ordine esecutivo del Presidente Donald Trump, intitolato “RIPRISTINO DELLA VERITÀ E DELLA SANITÀ NELLA STORIA AMERICANA”, riproduce una tattica utilizzata da tutti i regimi autoritari. In nome della lotta ai pregiudizi, essi distorcono la storia della nazione trasformandola in una mitologia che fa comodo a se medesima.

La storia sarà usata per giustificare il potere delle élite al governo del presente, divinizzando le élite al potere del passato. La storia farà sparire la sofferenza delle vittime del genocidio, della schiavitù, della discriminazione e del razzismo istituzionale. La repressione e la violenza durante le nostre guerre sindacali - centinaia di lavoratori sono stati uccisi da teppisti, sicari delle aziende, poliziotti e soldati della Guardia Nazionale durante la lotta per la sindacalizzazione - non saranno raccontate. Figure storiche, come Woodrow Wilson, saranno archetipi sociali le cui azioni più oscure, tra cui la decisione di risegregare il governo federale e di supervisionare una delle campagne di repressione politica più aggressive della storia degli Stati Uniti, saranno ignorate.

Nell'America dei nostri libri di storia approvati da Trump - ho letto i libri di testo usati nelle scuole “cristiane”, quindi non si tratta di congetture - le pari opportunità per tutti esistono e sono sempre esistite. L'America è un esempio di progresso umano. Si è costantemente migliorata e perfezionata sotto la tutela dei suoi governanti illuminati e quasi esclusivamente maschi bianchi. È l'avanguardia della “civiltà occidentale”.

I grandi leader del passato sono ritratti come paragoni di coraggio e saggezza, che hanno portato la civiltà alle razze minori della terra. George Washington, che con la moglie possedeva e “affittava” più di 300 schiavi e supervisionava brutali campagne militari contro i nativi americani, è un modello eroico da imitare. L'oscura brama di conquista e di ricchezza - che si cela dietro la schiavitù degli africani e il genocidio dei nativi americani - viene messa in secondo piano per raccontare la storia della valorosa lotta dei pionieri europei ed euroamericani per costruire la più grande nazione del mondo. Il capitalismo è benedetto come la massima libertà. Coloro che sono poveri e oppressi, che non hanno abbastanza nella terra delle pari opportunità, meritano il loro destino.

Coloro che hanno lottato contro l'ingiustizia, spesso a costo della propria vita, sono scomparsi o, come nel caso di Martin Luther King Jr, sono stati santificati in un banale cliché, congelato per sempre nel tempo con il suo discorso “I Have a Dream”. I movimenti sociali che hanno aperto uno spazio democratico nella nostra società - gli abolizionisti, il movimento operaio, le suffragette, i socialisti e i comunisti, il movimento per i diritti civili e i movimenti contro la guerra - sono scomparsi o ridicolizzati insieme a quegli scrittori e storici, come Howard Zinn ed Eric Foner, che documentano le lotte e le conquiste dei movimenti popolari. Secondo questo mito, lo status quo non è stato messo in discussione nel passato e non può essere messo in discussione nel presente. Abbiamo sempre avuto riverenza per i nostri leader e dobbiamo mantenerla.

“Fai attenzione a ciò che ti dicono di dimenticare”, ammoniva preveggentemente la poetessa Muriel Rukeyser.

L'ordine esecutivo di Trump inizia così:

Negli ultimi dieci anni, gli americani hanno assistito a uno sforzo concertato e diffuso per riscrivere la storia della nostra nazione, sostituendo i fatti oggettivi con una narrazione distorta guidata dall'ideologia piuttosto che dalla verità. Questo movimento revisionista cerca di minare le notevoli conquiste degli Stati Uniti, mettendo in cattiva luce i principi fondanti e le pietre miliari della storia. Con questa revisione storica, l'impareggiabile eredità della nostra nazione di promuovere la libertà, i diritti individuali e la felicità umana viene ricostruita come intrinsecamente razzista, sessista, oppressiva o comunque irrimediabilmente imperfetta. Invece di promuovere l'unità e una più profonda comprensione del nostro passato comune, il diffuso sforzo di riscrivere la storia approfondisce le divisioni sociali e promuove un senso di vergogna nazionale, ignorando i progressi compiuti dall'America e gli ideali che continuano a ispirare milioni di persone in tutto il mondo.

 

Gli autori promettono di sostituire i pregiudizi con la “verità oggettiva”. Ma la loro “verità oggettiva” consiste nel sacralizzare la nostra religione civile e il culto della leadership. La religione civile ha i suoi luoghi sacri: il Monte Rushmore, Plymouth Rock, Gettysburg, l'Independence Hall di Philadelphia e Stone Mountain, l'enorme bassorilievo che raffigura i leader confederati Jefferson Davis, Robert E. Lee e Thomas J. “Stonewall” Jackson. Ha i suoi rituali: il Giorno del Ringraziamento, il Giorno dell'Indipendenza, il Giorno del Presidente, il Giorno della Bandiera e il Giorno della Memoria. È patriarcale e iper patriottico. Feticizza la bandiera, la croce cristiana, l'esercito, le armi e la civiltà occidentale, un codice per la supremazia bianca. Giustifica il nostro eccezionalismo e il nostro diritto al dominio globale. Ci lega a una tradizione biblica che ci dice che siamo un popolo eletto, una nazione cristiana, nonché i veri eredi dell'Illuminismo. Ci informa che i potenti e i ricchi sono benedetti e scelti da Dio. Nutre l'elisir oscuro del nazionalismo sfrenato, dell'amnesia storica e dell'obbedienza indiscussa.

Al Congresso sono state presentate proposte di legge che chiedono di scolpire il volto di Trump sul Monte Rushmore, accanto a George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, di rendere il compleanno di Trump una festa federale, di mettere il volto di Trump sulle nuove banconote da 250 dollari, di rinominare l'aeroporto internazionale di Washington Dulles in aeroporto internazionale Donald J. Trump e di emendare il 22° emendamento per consentire a Trump di servire un terzo mandato.

Un sistema educativo, scrive Jason Stanley in “Erasing History: How Fascists Rewrite the Past to Control the Future”, è ”la base su cui si costruisce una cultura politica. Gli autoritari hanno capito da tempo che, quando vogliono cambiare la cultura politica, devono iniziare a prendere il controllo dell'istruzione”.

La cattura del sistema educativo, scrive, “non solo rende una popolazione ignorante della storia e dei problemi della nazione, ma anche frammenta quei cittadini in una moltitudine di gruppi diversi senza possibilità di comprensione reciproca, e quindi senza possibilità di azione unitaria di massa”. Di conseguenza, l'antieducazione rende la popolazione apatica, lasciando il compito di gestire il Paese ad altri, siano essi autocrati, plutocrati o teocrati”.

Allo stesso tempo, i despoti mobilitano il gruppo presumibilmente danneggiato - nel nostro caso gli americani bianchi - per compiere atti di intimidazione e violenza a sostegno del leader e della nazione e per esigere una punizione. Il duplice obiettivo di questa campagna anti-educativa è la paralisi dei soggiogati e il fanatismo dei veri credenti.

Le rivolte che hanno attraversato la nazione, scatenate dagli omicidi di George Floyd, Breonna Taylor e Ahmaud Arbery da parte della polizia, non solo hanno denunciato il razzismo istituzionale e la brutalità della polizia, ma hanno preso di mira statue, monumenti ed edifici che commemorano la supremazia bianca.

A Portland, nell'Oregon, una statua di George Washington è stata imbrattata con le parole “colonizzatore genocida” e poi abbattuta. La sede delle Figlie Unite della Confederazione, che ha guidato l'erezione di monumenti ai leader confederati all'inizio del XX secolo a Richmond, in Virginia, è stata incendiata. La statua dell'editore di giornali Edward Carmack, un sostenitore del linciaggio che esortò i bianchi a uccidere la giornalista afroamericana Ida B. Wells per le sue indagini sul linciaggio, è stata abbattuta. A Boston, una statua di Cristoforo Colombo è stata decapitata e sono state rimosse le statue dei generali confederati Robert E. Lee e Stonewall Jackson, insieme a quella dell'ex sindaco e capo della polizia razzista di Filadelfia, Frank Rizzo. L'Università di Princeton, che ha a lungo resistito alle richieste di rimuovere il nome di Woodrow Wilson dalla sua scuola di politica pubblica a causa del suo virulento razzismo, ha infine ceduto.

I monumenti non sono lezioni di storia. Sono giuramenti di fedeltà, idoli del culto degli antenati bianchi. Imbiancano i crimini del passato per imbiancare i crimini del presente. L'ammissione del nostro passato, obiettivo della teoria critica della razza, infrange il mito perpetuato dai suprematisti bianchi secondo cui la nostra gerarchia razziale è il risultato naturale di una meritocrazia in cui i bianchi sono dotati di un'intelligenza, di un talento e di una civiltà superiori, piuttosto che di una gerarchia costruita e rigidamente applicata. I neri, in questa gerarchia razziale, meritano di stare in fondo alla società a causa delle loro caratteristiche innate.

È solo nominando e documentando queste ingiustizie e lavorando per migliorarle che una società può sostenere la sua democrazia e muoversi verso una maggiore uguaglianza, inclusione e giustizia.

Tutti questi passi avanti verso la verità e la responsabilità storica devono essere invertiti. Trump ha attaccato le mostre dello Smithsonian Institution, del National Museum of African American History and Culture e dell'Independence National Historical Park di Philadelphia. Promette di “agire per ripristinare i monumenti, i luoghi di culto, le statue, i cartelli o le proprietà simili preesistenti”. Chiede che vengano rimossi i monumenti o le mostre che “denigrano in modo inappropriato gli americani passati o viventi (comprese le persone vissute in epoca coloniale)” e che la nazione “si concentri sulla grandezza delle conquiste e del progresso del popolo americano”.

L'ordine esecutivo prosegue:

La politica della mia amministrazione è quella di riportare i siti federali dedicati alla storia, compresi i parchi e i musei, a monumenti pubblici solenni ed edificanti che ricordino agli americani la nostra straordinaria eredità, i costanti progressi verso la creazione di un'Unione più perfetta e il record ineguagliato di avanzamento della libertà, della prosperità e del benessere umano. I musei della capitale della Nazione dovrebbero essere luoghi in cui gli individui vanno per imparare, non per essere sottoposti a indottrinamento ideologico o a narrazioni divisive che distorcono la nostra storia comune.

 

Gli attacchi a programmi come la teoria critica della razza o la diversità, l'equità e l'inclusione, come sottolinea Stanley, “distorcono intenzionalmente questi programmi per creare l'impressione che coloro le cui prospettive vengono finalmente incluse - come i neri d'America, per esempio - stiano ricevendo una sorta di beneficio illecito o un vantaggio ingiusto”. Così prendono di mira i neri americani che hanno raggiunto posizioni di potere e di influenza e cercano di delegittimarli come immeritevoli. L'obiettivo finale è giustificare una presa di potere delle istituzioni, trasformandole in armi nella guerra contro l'idea stessa di democrazia multirazziale”.

Stanley, insieme a un altro studioso di Yale sull'autoritarismo, Timothy Snyder, autore di “On Tyranny” e “The Road to Unfreedom”, sta per lasciare il Paese per insegnare all'Università di Toronto.

Potete vedere la mia intervista con Stanley qui.

L'obiettivo non è insegnare al grande pubblico come pensare, ma cosa pensare. Gli studenti ripeteranno a pappagallo gli slogan e i luoghi comuni che si usano per rafforzare il potere. Questo processo priva l'istruzione di qualsiasi indipendenza, indagine intellettuale o autocritica. Trasforma le scuole e le università in macchine per l'indottrinamento. Chi si oppone all'indottrinamento viene scacciato.

“Il totalitarismo al potere sostituisce invariabilmente tutti i talenti di prim'ordine, indipendentemente dalle loro simpatie, con quei pazzi e quelle pazzerelle la cui mancanza di intelligenza e creatività è ancora la migliore garanzia della loro lealtà”, scrive Hannah Arendt in ‘Le origini del totalitarismo’.

Gli oppressori cancellano sempre la storia degli oppressi. Hanno paura della storia. Era un crimine insegnare a leggere agli schiavi. La capacità di leggere significava che avrebbero potuto avere accesso alle notizie sulla rivolta degli schiavi ad Haiti, l'unica rivolta degli schiavi riuscita nella storia dell'umanità. Potevano conoscere le rivolte degli schiavi guidate da Nat Turner e John Brown. Potrebbero essere ispirati dal coraggio di Harriet Tubman, l'ardente abolizionista che compì più di una decina di viaggi clandestini verso sud per liberare gli schiavi e che in seguito servì come esploratore dell'esercito dell'Unione durante la Guerra Civile. Potrebbero avere accesso agli scritti di Frederick Douglass e degli abolizionisti.

La lotta organizzata, vitale per la storia delle persone di colore, dei poveri e della classe operaia per garantire l'uguaglianza, insieme alle leggi e ai regolamenti per proteggerli dallo sfruttamento, devono essere completamente avvolti nell'oscurità. Non ci saranno nuove indagini sul nostro passato. Non ci saranno nuove prove storiche. Non ci saranno nuove prospettive. Ci verrà proibito di scavare nella nostra identità di popolo e di nazione. Questa calcificazione è progettata per divinizzare i nostri governanti, distruggere una società pluralista e democratica e inculcare un sonnambulismo personale e politico.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

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