sabato 4 gennaio 2025

Genocide Israel vive nel passato - Haidar Eid

  

Uno Stato fondato sull’apartheid e sul colonialismo di insediamento non è più sostenibile.

 

 “Il vecchio mondo sta morendo e il nuovo mondo lotta per nascere; ora è il tempo dei mostri”, scriveva il filosofo italiano Antonio Gramsci nel 1929.
Queste parole mi tornano in mente mentre osservo la rapida disintegrazione dell’Israele dell’apartheid, nel senso storico del termine.

È una colonia di insediamento che sta fallendo la sua missione, ovvero annientare la popolazione nativa e sostituirla con coloni “civilizzati”. Mentre il regime di apartheid implode lentamente, i palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, stanno pagando un prezzo orribile.

Lo “Stato ebraico”, come si definisce, ha commesso crimini di guerra inimmaginabili e ha violato innumerevoli leggi internazionali. Ed è riuscito a farla franca con tutti questi crimini grazie al sostegno illimitato fornito dall’Occidente coloniale.

Ciononostante, il crollo procede a ritmo costante. Molti non hanno capito che questa disintegrazione è inevitabile, compresa, paradossalmente, la leadership del popolo palestinese. È per questa mancanza di lungimiranza che i leader palestinesi hanno firmato gli accordi di Oslo e hanno fatto della razzista “soluzione dei due Stati” uno slogan nazionale camuffato da “indipendenza”.

Oslo ha di fatto cancellato la natura coloniale dell’oppressione palestinese, presentandola invece come una “antica guerra” per la proprietà della terra. Firmando gli accordi, il leader palestinese Yasser Arafat ha completamente ignorato la realtà del colonialismo dei coloni che i palestinesi stavano subendo.
Subito dopo la stretta di mano tra Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1993, lo studioso palestinese Edward Said scrisse: “Ora che l’euforia si è un po’ affievolita, possiamo guardare all’accordo tra Israele e l’OLP con il necessario sangue freddo. Si scopre che per la maggior parte dei palestinesi è molto più inadeguato e sbilanciato di quanto molti avessero inizialmente ipotizzato.

La volgare messa in scena della cerimonia alla Casa Bianca, l’umiliante performance di Arafat che ha ringraziato il mondo per aver rinunciato alla maggior parte dei diritti del popolo palestinese e il risibile ruolo di Bill Clinton come imperatore romano del XX secolo che accompagna i suoi due re vassalli nei rituali di riconciliazione e sottomissione: Tutto questo ha potuto oscurare solo temporaneamente la portata davvero incredibile della resa palestinese”.
A volte mi chiedo se Arafat e il resto della leadership dell’OLP abbiano letto Said, Frantz Fanon, Amilcar Cabral, Ghassan Kanafani o altre figure anticoloniali del loro tempo.

Il sionismo politico, che pretende di rappresentare “la nazione ebraica”, è emerso nell’Europa del XIX secolo e ha naturalmente emulato le ideologie europee dell’epoca. Rivendicava il “diritto” di stabilire il proprio Stato in qualsiasi territorio del mondo, non importa dove. Ha messo gli occhi sulla Palestina, sostenendo che si trattava di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” e ha fatto ciò che gli europei avevano già fatto in Africa, nelle Americhe, in Australia, in Nuova Zelanda e in alcune parti dell’Asia.

Il genocidio – come hanno documentato molte opere anticoloniali – è ed è sempre stato una componente intrinseca del colonialismo di insediamento. Sono inseparabili. E questo è il caso del sionismo coloniale.
Non si può comprendere il continuo massacro in livestreaming dei due milioni di persone di Gaza e il vanto che la maggior parte degli israeliani ne fa sui social media senza metterlo in relazione con questa ideologia coloniale egemonica.

Fin dalla sua creazione, Israele ha sistematicamente perseguito l’“eliminazione” dei nativi. Gaza in questo momento sta pagando il prezzo di ciò che il principale storico fascista di Israele, Benny Morris, ha sostenuto essere il mancato “trasferimento” di tutti i palestinesi dalla Palestina nel 1948.
Questo perché nel 1948 Gaza è diventata il più grande campo profughi del mondo, pieno di palestinesi autoctoni che si sono rifiutati di essere ripuliti etnicamente e genocidiati e che hanno costantemente ricordato agli israeliani il “lavoro non finito”. Ora stanno sopportando l’ira del genocida Israele, intenzionato a stabilire la sua affermazione come un dato di fatto – che “non esiste un popolo palestinese”.

Ma la prosperità dell’apartheid e del colonialismo di insediamento fa ormai parte della storia. Uno Stato fondato su di essi non può sopravvivere.
Nel mezzo del genocidio di Gaza, questo potrebbe non essere così ovvio, ma ricordiamo che la caduta del regime di apartheid del Sudafrica è iniziata nei momenti più bui della storia sudafricana, alla fine degli anni ’80, quando tutto sembrava così cupo. A quel tempo, la gente non si rendeva conto che il regime razzista si stava disintegrando e che una nuova alba si stava avvicinando.

La resistenza, nelle sue varie forme, combinata con il più alto livello di “sumud” (fermezza) è diventata la norma a Gaza. Ci si aspetta che questa resistenza e questo sumud si diffondano in tutta la Palestina storica e in altri luoghi.
Gaza è diventata il centro dell’universo. Se cade, il Sud globale seguirà il suo esempio. Il mondo non ha altra scelta che smantellare l’unico regime di apartheid rimasto che sta commettendo un genocidio senza precedenti nel XXI secolo.

A volte sogno di poter viaggiare nel futuro e tornare con un messaggio. Nel futuro, guido la mia auto sulla strada costiera da Gaza, nel sud, ad Haifa, nel nord, ascoltando la voce angelica di Fairuz e raccontando alle mie figlie dell’orribile passato, quando uno Stato chiamato Israele ci proibiva di vedere il resto del nostro Paese. Racconto loro di un periodo in cui il mondo è rimasto inattivo mentre Israele massacrava decine di migliaia di bambini e donne e di quando, alla fine, le persone di coscienza hanno deciso che quando è troppo è troppo.

Come ha detto acutamente lo scrittore americano Mike Davis: “Ciò che ci fa andare avanti, in definitiva, è il nostro amore reciproco e il nostro rifiuto di chinare la testa, di accettare il verdetto, per quanto onnipotente possa sembrare”.

Torno dal futuro con l’ottimismo che “il tempo dei mostri” finirà presto.

 

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza. Attualmente è ricercatore associato presso il Center for Asia Studies in Africa (Casa) dell’Università di Pretoria.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

 

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2024: anestesia generale

 


venerdì 3 gennaio 2025

Draghi scopre l’acqua calda e propone di affogarci dentro - Gianluca Cicinelli

Immaginate di trovarvi su una nave che imbarca acqua. Mario Draghi, l’uomo al timone, si alza in piedi e dichiara con solennità: “C’è un problema strutturale. La nave non è più sostenibile così com’è”. Applausi. Poi aggiunge: “Ma per ripararla, sacrifichiamo le scialuppe di salvataggio”. Ed è qui che l’analogia con il capitalismo europeo odierno prende forma: un sistema che Draghi stesso riconosce come insostenibile, ma che suggerisce di riformare tagliando ancora pensioni, Stato sociale e diritti fondamentali.

L’ammissione del fallimento del capitalismo finanziario
Non è da tutti ammettere che il modello economico dominante abbia un problema, soprattutto se si è stati tra i protagonisti della sua gestione. Draghi, nel suo intervento al simposio del CEPR a Parigi, ha puntato il dito contro il paradigma europeo basato su esportazioni e bassi salari, un modello che ha compresso la domanda interna e creato una spirale di precarietà per i lavoratori. “Non è più sostenibile”, dice Draghi. E qui, caro Mario, il keynesiano che è in noi applaude: finalmente qualcuno al centro del potere riconosce che una crescita basata sul contenimento dei salari non è solo ingiusta, ma economicamente miope.

Ma non facciamo in tempo a gioire che subito arriva la proposta: non riequilibriamo la nave aumentando la spesa pubblica per rilanciare la domanda interna, come insegnerebbe Keynes. No, meglio scavare ancora più in profondità, tagliando ulteriormente il welfare. Una mossa che somiglia a spegnere un incendio con la benzina.

Ma che grande novita: le pensioni come nemico pubblico
Draghi ci mette davanti cifre impressionanti: passività pensionistiche tra il 150% e il 500% del PIL in Europa. Una cifra “monstre”, dice lui. E la soluzione qual è? Non riformare il sistema per garantire maggiore equità contributiva o migliorare la redistribuzione, ma continuare a presentare le pensioni come un peso insostenibile. Certo, in un sistema che ha scelto di favorire i capitali rispetto al lavoro, le pensioni sembrano un lusso. Ma solo perché il sistema stesso ha reso impossibile pensarle come un diritto collettivo, anziché come un fardello.

Invece di chiedersi come redistribuire ricchezza e risorse per sostenere una popolazione che invecchia, Draghi invita a “migliorare la composizione della spesa fiscale”. Traduzione: tagliare il welfare per finanziare investimenti dei quali – ironia della sorte – beneficeranno solo i soliti noti, quelli che non si preoccupano della pensione.

L’alternativa che Draghi ignora

La diagnosi è corretta: l’Europa ha bisogno di investimenti pubblici significativi per affrontare le sfide del futuro, dalla digitalizzazione alla transizione energetica. Ma Draghi scarta la soluzione più semplice e giusta: emettere debito comune europeo e rilanciare la domanda interna attraverso politiche espansive. In un sistema economico stagnante, è il settore pubblico che deve prendere l’iniziativa, stimolando investimenti e consumi per creare un ciclo virtuoso.

Invece, Draghi preferisce affidarsi al solito mantra delle “riforme strutturali”. Ma anche qui il termine viene reinterpretato: non più tagli ai salari, ma “riqualificazione” dei lavoratori. Un passo avanti, certo, ma senza politiche concrete che garantiscano salari dignitosi e diritti universali, questa riqualificazione rischia di diventare l’ennesimo slogan vuoto.

La finta urgenza delle “cifre monstre”
Uno dei trucchi più vecchi del capitalismo neoliberista è spaventare l’opinione pubblica con cifre astronomiche. Draghi non fa eccezione: passività pensionistiche enormi, 800 miliardi l’anno per investimenti in difesa, energia, digitalizzazione. Certo, sono numeri impressionanti. Ma è davvero impossibile trovare risorse? O forse è il sistema fiscale europeo, costruito per favorire i grandi capitali, che andrebbe riformato?

Keynes suggerirebbe di guardare dove si accumula la ricchezza: nei profitti delle grandi multinazionali, nei paradisi fiscali, nei mercati finanziari. Un’imposta minima europea sui profitti, una vera lotta all’evasione fiscale, e un debito comune sarebbero sufficienti a finanziare quegli investimenti senza sacrificare pensioni e welfare. Ma Draghi, come tanti altri, preferisce ignorare queste soluzioni.

Un modello di sviluppo diverso è possibile
Il problema di fondo è che Draghi – come molti altri difensori del capitalismo finanziario – non riesce a immaginare un modello di sviluppo diverso. L’Europa potrebbe puntare su una crescita inclusiva, basata su investimenti pubblici, redistribuzione e rafforzamento dello Stato sociale. Ma questo richiederebbe una svolta politica e culturale che metta al centro il benessere delle persone, non i profitti.

In conclusione, Draghi ci offre un’ammissione di colpa e una promessa di perseverare nell’errore. Riconosce che il capitalismo finanziario ha fallito, ma propone soluzioni che perpetuano le disuguaglianze. Non è troppo tardi per cambiare rotta, ma serve il coraggio di abbandonare vecchi dogmi e immaginare un futuro diverso. E questo coraggio, purtroppo, sembra mancare.

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L’Europa si lega agli Usa, ma non può rinunciare al gas russo - Demostenes Floros

giovedì 2 gennaio 2025

Perché per me gli psicologi, soprattutto quelli diocesani, dovrebbero stare fuori dalla scuola - Alex Corlazzoli

 

A scuola non abbiamo bisogno di psicologi ma di pedagogisti oltre che di presidi, maestri e professori che ne sappiano di psicologia. Non solo. Nelle nostre aule entrano spesso a fare progetti di educazione sessuale psicologi dei consultori diocesani che hanno il divieto di parlare di aborto (che è legge nello Stato italiano) e di anticoncezionali, creando un danno inestimabile nelle teste dei nostri ragazzi.

La notizia dell’approvazione in Manovra di un fondo di 10 milioni di euro per il sostegno psicologico nelle scuole nel 2025 non è per nulla buona. La proposta, voluta dal Partito Democratico, dimostra l’ignoranza dei compagni di Elly Schlein che con questa iniziativa – supportata dal Governo – stanno avallando la perversa abitudine di affidare ogni problema dell’aula al magico psicologo. Secondo questi illuminati politici basterebbe un servizio di sostegno psicologico, mirato a supportare studenti e studentesse nelle situazioni di difficoltà, per risolvere problemi di bullismo, di relazioni con i genitori, tra gli studenti, con i docenti e tanto altro ancora.

Da quando vivo da maestro tra i banchi ho visto una “psicologizzazione” dell’istruzione preoccupante. L’episodio più eclatante è di qualche anno fa, quando le mie colleghe chiamarono la psicologa perché un alunno masticava il chewing gum durante la lezione. Con queste parole non sto negando l’utilità della psicologia. Anzi. Credo profondamente nel fatto che ad avere gli strumenti necessari che offre la psicologia debbano essere coloro che hanno a che fare tutti i giorni con i bambini e i ragazzi. Oggi, invece, assistiamo all’utilizzo dello psicologo scolastico allo stesso modo di come si usa l’accensione della candela in chiesa quando all’evento di una malattia, di un momento di difficoltà ci si affida ai Santi.

Dovremmo avere tutti i docenti formati per avere oltre a competenze in matematica, italiano o informatica anche elementi di psicologia perché chi fa il nostro mestiere non sta dietro il vetro di uno sportello ma vive ore ed ore con delle persone favorendo (o almeno così dovrebbe essere) una crescita umana responsabile.

A mancare nella scuola in maniera strutturale sono, invece, i pedagogisti che restano figure adoperate spesso solo nei nidi o alle scuole dell’infanzia. Così come dovremmo iniziare ad avere la consulenza di psichiatri perché i problemi di salute mentale (sempre più numerosi) coinvolgono anche i più piccoli.

Andrebbe, inoltre chiarita una questione: gli psicologi dei consultori diocesani o scelgono di essere dei veri formatori e informatori o se ne stanno fuori dalla scuola. Ho avuto a che fare con psicologi assunti dalla Chiesa che hanno mostrato tutto il loro oscurantismo: obbedendo al loro datore di lavoro non hanno parlato di contraccettivi, di pillola e di tutte le altre modalità che vi sono per non avere figli o per prevenire malattie sessuali. Così non hanno accennato al tema dell’aborto, impedendo in questo modo a dei giovani di avere una conoscenza adeguata e libera.

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Capodanno a zone rosse! Umanità gregge - Matteo Saudino

 

Sila, pallidula, rigida, nudula - Enrico Campofreda

 

Non c’è gioia né lieto fine nel recente Natale di Khan Yunis. E come potrebbe esserci se quello è diventato un angoscioso luogo di dolore e morte? Si muore, si muore continuamente in ogni modo, a ogni età, si muore a pochi giorni dalla luce sopraggiunta con un destino terribilmente segnato. Il filo vitale di madri che partoriscono alla maniera antica, col solo affanno,  non riesce a prolungarsi che di poche ore o di qualche giorno. Questo raccontano gli afflitti genitori di Sila che hanno cercato di offrirle il tepore dei propri corpi sotto il cielo di questi giorni comunque ghiacciato anche nella Striscia di Gaza. I loro fiati alla maniera degli animali della grotta di Betlemme, visto il periodo e i luoghi in cui la piccina nasceva, richiamano l’antica storia della cristianità. Ma per Sila l’avvìo è stato più crudele di quello del bambinello di Maria di Nazareth. Le tende del campo di sfollati di Al Mawasi riparano meno di inesistenti grotte, mentre le case, dopo più d’un anno di bombe, sono ammassi di macerie. E si deve stare lì, in quei lager di concentramento e sterminio, voluti da chi odia ogni famiglia del posto, decidendo che quelle dune devono rappresentare l’unico rifugio per un domani da trascorrere sotto la nuda terra. Un padre, che non è Jousef ma Mahmoud, dopo non averla sentita più piangere, poiché il poco latte del seno materno neppure riusciva a nutrirla, se l’è trovata pallida,  intirizzita,  praticamente nuda sotto i poveri panni gelati. Ha accompagnato il corpicino informe nella penosa inumazione, bianco fagotto, fra le sue braccia senza versare una lacrima e con la tragedia nel cuore.

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mercoledì 1 gennaio 2025

ricordo di Paolo Benvegnù

 







Dopo la fuga dalla guerra, inizia l’altra battaglia: quella per vivere una vita decente - Mauro Armanino

‘Io sono la guerra’, aveva quasi urlato Cisca, originaria della Democratica Repubblica del Congo. Una storia di esilio senza fine costellata da innumerevoli esperienze vissute sulla propria carne di donna. Si trova adesso nel suo paese di origine e i contatti, fatalmente, col tempo si sono allentati. Potrebbe essere un buon segno perché lei voleva mettersi al servizio di donne, come lei, ferite dalla guerra.

Una volta cominciate le guerre non finiscono mai. Lasciano paure, cicatrici, traumi, ferite, memorie di congiunti, amici e vicini uccisi o minacciati di morte. La fuga, l’esilio e, spesso, il lungo viaggio alla scoperta di una terra ospitale nell’inutile tentativo di dimenticare il dramma vissuto nella propria. Le immagini della casa abbandonata, bruciata e distrutta abiteranno per sempre i loro occhi.

Sono arrivate a Niamey non da molto. Le vedove e le madri i cui figli hanno perso la vita per le azioni terroriste di ‘Boko Haram’ o altri gruppi affini. Molte di loro avevano trovato lavoro nel Mali, cercando un improbabile riparo dalla violenza armata. Anche in quel Paese le cose si erano messe male e così, per vie traverse hanno raggiunto il Niger. Altre donne le hanno raggiunte per analoghi motivi. Queste ultime, come le precedenti, sono scappate dal ‘gigante’ demografico e in parte anche economico dell’Africa, la Nigeria. Queste persone non sono che fastidiose incombenze statistiche per le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie. Vivono di nascosto in città col numero imprecisato di bambini ignari, per ora, del destino che li attende. Le guerre, quando incominciate, non finiscono mai.

Dopo la guerra, la violenza armata, l’esodo, la fuga e la scomparsa del mondo conosciuto comincia l’altra guerra. Quella che si continua a combattere per ricominciare a vivere una vita decente in mezzo a gente che troppo spesso non coglie il dramma che gli sfrattati del futuro si portano dentro.

Alfredo è partito dal Camerun dove aveva creato un’accademia di calcio. Ora gioca, di nascosto, con la vita. I ricordi gli scivolano tra le dita. La figlia di cui non ha più notizie e la famiglia di cui ha perso le tracce. La guerra nella guerra continua per il cibo, un alloggio, i documenti, la salute e un lavoro che gli permetta di ridare vigore alle sue illusioni perdute. Prega, partecipa a convegni religiosi e, da qualche giorno, si è presentato alla Casa della Cultura russa recentemente apertasi a Niamey.

Vorrebbe cominciare a seguire i corsi gratuiti di lingua perché spera, un giorno, di essere scelto per una borsa di studio in Russia. Difficile cogliere dove può condurlo la sorte. Nel frattempo ha seguito corsi di informatica e spera di tanto di fondare un’altra accademia. In essa si imparerebbe come le spade possano diventano vomeri, le lance falci e l’arte della guerra sarebbe ripudiata per sempre.

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