E’ incredibile come gli
uomini, in ogni istante della loro vita, tendano alla Felicità pur non avendo
in alcun modo chiaro in cosa essa consista. Com’è possibile cercare qualcosa e,
contemporaneamente, non sapere cosa si stia cercando? Inoltre, davvero siamo
certi che la felicità sia da “cercare”? Uno dei problemi tipici dell’umanità,
d’altra parte, sta proprio nel trascorrere il tempo a cercare ciò che non
conosce, a rispondere frettolosamente alla domanda senza averla compresa.
Il termine felice veniva anticamente attribuito agli
alberi (“arbor felix”, secondo una dolce espressione di
Catone), designando in tal modo piante particolarmente feconde, capaci di
produrre molti frutti. L’etimo originario (Féo –
in greco Phyô, “produco”),
suggerisce proprio l’idea della fertilità, della produttività. Da qui la
riflessione. La felicità non ha evidentemente a che fare con ciò che deriva
dall’esterno, con ciò che ci viene dato o che possiamo procurarci, bensì è
strettamente connessa con la nostra capacità di essere fecondi, creativi;
consiste nel dare, insomma. Non nell’avere. Un dare che, però, si traduce
nell’offrire ciò che appartiene alla nostra stessa natura, così come l’albero
davvero fecondo offre in abbondanza i suoi stessi frutti realizzando
pienamente, in tal modo, la sua profonda e particolarissima natura.
La felicità consiste,
allora, nell’essere pienamente se stessi e nel donare copiosamente i propri
frutti al mondo, non come sacrificio – si badi bene – bensì come unica via per
realizzare pienamente la propria personalità.
E’ lo stesso Socrate,
autentico padre della filosofia occidentale, a ricordarci che ciò che rende
felici è la realizzazione della propria essenza. E a chiamare tale
realizzazione virtù (in
greco ἀρετή, areté).
Nessun essere vivente
fischia come il merlo; il fischiare è quindi la virtù propria di questo
animale, una virtù che, tutte le volte che è posta in essere, lo rende felice
proprio perché gli permette di sentirsi pienamente se stesso. Nessun essere vivente
è così felice come il ghepardo quando corre, perché nessuno corre come il
ghepardo. Ecco perché i greci usano la parola areté. Essa
designa la capacità stabile di un essere, di eccellere in qualcosa; una
capacità che Socrate fa dipendere dalla natura stessa delle cose,
riconoscendone una diversa e peculiare in ogni essere.
Tradotto nella parola
latina virtus, tale
concetto rivela il successivo intento filosofico di restringerne il significato
al solo campo umano (da vir, uomo),
laddove Socrate aveva riconosciuto una areté in ogni essere vivente. A
proposito dell’uomo, l’insegnamento socratico era stato per altro chiarissimo:
la sua virtù consiste nel pensare; niente pensa come l’uomo. In altre parole,
ciò che ci contraddistingue e che ci permette di produrre i nostri particolare
frutti, ciò ce ci rende davvero felici è pensare, riflettere, meditare. Siccome
però ognuno di noi possiede inclinazioni ed attitudini diverse, la nostra
personale virtù consiste nell’applicazione di tale facoltà razionale ai singoli
campi della vita verso cui ci sentiamo maggiormente portati. Comporre sinfonie,
costruire finestre, innalzare muri di cinta, insegnare geografia: tutte queste
sono attività razionali applicate alle diverse mansioni che – per carattere,
per inclinazione ed anche, certamente, per motivazioni legate all’ambiente in
cui siamo nati e vissuti – ci sentiamo portati a svolgere.
Riassumendo, allora, la
vera felicità sta nel sentirsi fecondi ed in grado di produrre frutti
nell’ambito per il quale ci sentiamo naturalmente portati; significa sentirsi
se stessi, liberi di fiorire nel modo che più ci contraddistingue e ci permette
di contribuire, in maniera del tutto personale, al bene collettivo. Ho sempre
in testa la frase che il grande atleta e corridore Eric Liddel pronuncia nel
celebre film di cui è protagonista, Momenti di gloria: “Quando corro sento che Dio è felice”. Ognuno di noi è chiamato ad essere se
stesso, nulla più; ad ognuno di noi è chiesto di fare ciò per cui è nato. Nulla
può renderci più felici, e nulla può rendere più felice Dio – se ci crediamo –
che ci ha creati così come siamo e che ci vuole puri, autentici. La purezza tanto venerata
dalle religioni nulla ha, infatti, a che fare con l’astinenza sessuale o con la
rinuncia di principio a qualsivoglia piacere; essa consiste solo ed unicamente
nell’autenticità, nell’essere se stessi, puri nello
stesso senso in cui viene detta pural’acqua incontaminata, priva di commistioni con
altre sostanze.
E’ un altro gigante della
filosofia greca, Platone, ad evidenziare nella sua Repubblicacome ogni
cittadino, nella società, debba svolgere il compito verso cui si sente
maggiormente portato; solo così uno Stato potrà dirsi veramente giusto, giacché
la giustizia, per il grande allievo di Socrate, si può dire che non abbia a che
fare con la distribuzione dei beni – così come comunemente ed impropriamente si
ritiene – bensì con la “distribuzione delle persone” nei diversi ruoli della
comunità. Uno stato in cui ognuno “fa ciò che è” è uno stato felice, composto
da persone felici. E’ soltanto per questo, non per chissà quale crisi
economica, che il nostro mondo è così infelice.
Perfettamente in linea con
questa visione della felicità è anche Epicuro, filosofo ellenistico di grande
spessore, convinto che la felicità debba essere considerata il reale obiettivo
della ricerca filosofica. Accusato erroneamente di edonismo, Epicuro ritiene,
sì, che la felicità consista nel piacere, ma considera altresì il piacere in
modo molto diverso da come abitualmente lo si intende. La sua famosa teoria che
distingue piaceri in movimento e piaceri stabili afferma infatti che se i primi
ci derivano dall’esterno e sono quindi soggetti a mutamento, solo i secondi
sono da preferire e sono in grado di accordarci la piena felicità, in quanto si
traducono in assenza di dolore e di turbamento (atarassia
ed aponia). Non dunque la temporanea gioia procurataci da un avvenimento
particolarmente gratificante o fortunato, da un successo o da un qualsiasi bene
materiale, può produrre in noi vera felicità, bensì l’estemporanea
consapevolezza (che capita ogni tanto, in rari momenti di grazia e di effettivo
e profondo piacere), di star bene, di essere vivi, sani e sereni,
momentaneamente liberi da dolori fisici e da dispiaceri o preoccupazioni. Una
felicità, ancora una volta, che deriva da noi stessi, dal nostro stesso
esistere, dall’essere al mondo, e non da qualsiasi causa esterna.
Da tutto ciò l’uomo deve
trarre l’insegnamento secondo cui la felicità è a portata di tutti. Ogni essere
vivente, e quindi anche ogni uomo, può essere realmente felice se solo ha il
coraggio di imparare ad esser se stesso. Ma tutto ciò, per i più, è davvero
troppo: l’esser se stessi costa, espone, sbilancia pericolosamente al di là dei
rassicuranti confini del gruppo.
Personalmente sono
convinto che ciò che veramente ci appartenga sia solo ciò che non possediamo.
Tutto quello che consideriamo in nostro possesso può venirci tolto dagli altri,
dal caso, dalla malattia; ma solo chi ha vissuto l’esperienza della perdita di
quelle cose che possedeva e per le quali aveva lottato anni ed anni, quelle
stesse che riteneva indispensabili alla propria esistenza, solo costui conosce
bene quel rendersi conto di poter vivere felice anche senza nulla, solo un tale
individuo ha assaporato appieno quell’irrinunciabile senso di un vivere
autentico, concessogli proprio dal precario equilibrio del trovarsi
improvvisamente sulla punta estrema dell’universo, a diretto contatto con
l’essere. Gli alberi, le piante, gli uccelli in volo, il vento nei capelli, il
senso di libertà di fronte al mare agitato, lo spettacolo meraviglioso di un
tramonto infuocato, di una notte disseminata di stelle… Tutto ciò non potrà mai
esserci sottratto. Tutto ciò, davvero, ci apparterrà per la vita, proprio
perché non è in alcun modo in nostro possesso.
A guardare bene, ogni
manifestazione naturale, ogni pianta, ogni animale, rivela la propria profonda
felicità derivante dal proprio esser se stesso. Soltanto l’uomo, nel suo
costringersi a dissimulare, a far violenza alla propria natura, volontariamente
si forza ad adulare gli idoli della convenienza e dell’interesse e a condurre,
così, un’esistenza infelice, continuando a sperare in qualcosa o qualcuno che
possa un giorno donargli la tanto sospirata, incompresa, costantemente rifiutata
felicità.
Così ho imparato a
distinguere tra felicità e contentezza; ho capito che si può essere molto
felici anche in momenti di profonda tristezza. Felici seppur scontenti e in
lotta, come spesso accade a me, nella quotidiana guerra contro un mondo talvolta
disumano e ingiusto, un mondo che fa di tutto per ostacolare, invece che
favorire, la felicità delle persone. Una guerra, sì. Ma una guerra felice,
perché combattuta in maniera autentica e libera, in piena sintonia con il mio
io più profondo e più puro.
La felicità, infatti, non
ha a che fare con la gioia o l’allegria: essa consiste nel non tradire se
stessi, nel rispettare la propria personalità e le proprie inclinazioni,
producendo i propri frutti e dando al mondo i propri colori, ottenendo così l’effetto
di render contenti gli altri.
Questa divina
disposizione, se davvero si ha il coraggio di raggiungerla, costituisce una
condizione esistenziale stabile, al di là delle fasi tristi o di quelle gioiose
la cui costante alternanza, inevitabilmente, caratterizza il nostro vivere nel
mondo.
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