Un modello di riferimento inarrivabile, per
un’azione diretta durante un conferenza stampa? Munthazar al Zaidi, il
giornalista iracheno che a Baghdad lanciò le sue scarpe a George W. Bush
urlando «in nome delle vedove, degli orfani e del milione di uccisi in Iraq».
Finì in carcere, e torturato, per quasi un anno: vilipendio di capo di Stato
estero.
Bisogna dire che l’organizzazione della Nato è
criminale e va dissolta. Ma qui, all’aeroporto militare di Trapani, sotto il
tendone della conferenza stampa che presenta le esercitazioni Trident Juncture
dell’Alleanza atlantica, quali conseguenze avrebbe avuto il lancio di una
scarpa – senza mirare bene, per carità – contro l’ignaro vicesegretario
generale della Nato Alexander Vershbow? Chissà. Ad alzare un cartello contro la
Nato criminale, non succede nulla. Te lo tolgono e basta. Sarebbe stata
efficace e forse ugualmente non sanzionata una pioggia di monetine da 5 cent. O
come sarebbe stato accolto uno schizzo con la stella a 4 punte (il simbolo
dell’Alleanza) trasformata facilmente in svastica? Troppo tardi per pensarci.
Non ci sarà un altro accredito stampa, ormai! Non alla Nato, almeno.
Andiamo per ordine. Vershbow ripete quel che
ha detto poco prima, alla cerimonia di apertura. La solfa è «le esercitazioni
della Nato sono vitali per la sicurezza, la democrazia nel mondo,
l’autodifesa»; infatti, «ogni giorno ci sono nuove sfide; così dimostriamo che
possiamo difendere ogni alleato». Grandi minacce contro i valorosi Paesi membri
si addensano infatti cupe e infingarde. Vengono da Est, «la Russia si è annessa
la Crimea», da Sud, «la Russia è entrata in guerra in Siria» (non importa che
Mosca sia l’unica a combattere con successo contro il califfato e a farlo
autorizzata dal governo locale come richiede l’Onu – lo ha detto forse meglio
di tutti “Famiglia Cristiana” giorni fa). E
l’Alleanza è estremamente impegnata contro il terrorismo, visto che «gli Stati
falliti come la Libia e la Siria fanno sì che i gruppi estremisti avanzino».
Dopo alcune domande falso-provocatorie da
parte di testate italiane ed estere («Perché non dite che la Trident guarda
alla minaccia da parte della Russia?») e le risposte («ma no, non è così») ha
inizio l’azione diretta. Intanto il microfono ottenuto per fare la domandina
diventa occasione per un sermoncino – scritto sul notes – rivolto al
vicesegretario; quindi in inglese, inutile parlare ai responsabili italiani.
Ecco qua (e chissà se ne è rimasta traccia): «Lei ha detto che la Nato combatte
il terrorismo, ha anche nominato la Libia e la Siria come Stati falliti. Ha
parlato di autodifesa collettiva dei membri. Ma in realtà fu proprio, nel 2011,
la guerra della Nato in Libia, travalicando il mandato dell’Onu, a trasformarla
in Stato fallito, a mettere al potere jihadisti e a contribuire al diffondere
di gang terroriste. E sono i Paesi membri della Nato a fare in modo diretto e
indiretto guerre che rovinano nazioni e distruggono; altro che autodifesa. Di
recente poi, il bombardamento per mezz’ora e più dell’ospedale a Kunduz, in
Afghanistan. Allora, nonostante questi tragici record, questa storia tragica,
come mai la Nato non viene mai incriminata? Al massimo paga una piccola mancia
ai familiari delle vittime… ». Il parlato è meno chiaro di così, vista la
concitazione, ma è lungo così. Loro lasciano parlare. Devono mostrarsi buoni,
non far scoppiare il caso. L’Italia è democratica, la Nato di più.
Prima che Vershbow risponda, ecco il cartello
alzato, per lui lì davanti e per le telecamere lì dietro. Su carta quasi velina
per nasconderla meglio in borsa, la scritta è con pastelli a cera ma oleosi,
mal calcolati (sbavano, l’acquerello rende meglio). Su un lato, in inglese,
«Nato must dissolve»; sull’altro «Nato never pays for crimes» (monco, in
effetti, ma chiaro). Ovviamente le mani di un soldato di vedetta si allungano
subito e strappano via l’inelegante intrusa cioè la carta mentre l’attivista
sotto mentite spoglie viene lasciata lì seduta, la Nato è democratica e
protegge i civili, anche quelli ottusi.
Vershbow risponde compito, come a una vera
domanda: «La Nato in Libia ha protetto i civili, abbiamo agito per evitare una
strage» (ormai si sa che è tutto falso, ma chi protesta?). Per giustificare il
casino successivo: «Quel che è successo dopo, è frutto forse di giudizi
approssimativi….» (mis-judgements). Quanto all’Afghanistan, «ci scusiamo
tantissimo per il tragico errore» (quasi un’ora di errori?); naturalmente «è in
corso un’approfondita inchiesta, e siamo sicuri che non si ripeterà più».
Mentre si avvia all’uscita, l’impassibile
vice-segretario generale viene omaggiato, con un altro “blitz”, della poesia Il
mondo dopo la Nato, «scritta da un profugo iracheno», le copie disponibili
per i giornalisti vengono invece sequestrate, «la leggo io la poesia».
Impatto mediatico? Contenti i russi. Qualche
foto è stata fatta. Alcuni giornalisti locali nella fretta non hanno visto ma
vengono a informarsi. Il reporter di un’agenzia internazionale che in passato
ha coperto manifestazioni pacifiste a Roma senza però riuscire a farsi
trasmettere, osserva: «In altri tempi questo dissenso sarebbe costato. Adesso
rimbalza. Anzi, aiuta a parlare dell’evento Nato!». Eppure, se gesti così si
ripetessero ogni volta, come zanzare disturberebbero. Del resto, non è nel
farsi arrestare il senso di un’azione diretta con la quale si irrompe «a casa
del diavolo», proprio sotto il naso dei guerrafondai e della supponente stampa
mainstream. Il senso è far vedere che sappiamo. Nel racconto di Andersen Gli
abiti nuovi dell’imperatore, il bambino è l’unico a dire all’imperatore che
è nudo, a dirglielo in faccia.
Fine della storia della piccola azione diretta
nonviolenta.
Ma forse a qualcuno
interessa anche uno sguardo dal di dentro sulla mattinata alla base militare
fra cerimonie ed esibizioni statiche e in volo. Visto che non erano presenti
giornalisti anti-Nato. O almeno non si sono espressi.
Ecco qua, per la serie «ho visto cose…».
In fondo troverete la poesia.
Antefatto. Tutti hanno sempre detto che un
ente dannoso va sciolto.
«Nato, rest in peace», «Nato, riposa in pace».
L’augurio più geniale rispetto al destino della macchina da guerra atlantica
risale al 1967: un libro di Paul Martin per la «Campagna dei giovani per il
disarmo nucleare». E se in Italia tutto sommato possiamo puntare a un «Visto
che è Nato, morirà», non era male neanche «The
Coming Dissolution of Nato» («Il prossimo scioglimento della Nato») titolo
di uno scritto dell’attivista statunitense Albert Weisbord pubblicato da «La
parola del popolo» nel 1977. Weissbord sbagliò in pieno. Tempo prima, era stato
invece preveggente l’economista gandhiano J. C. Kumarappa. Pochi anni dopo la
nascita dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato) nel 1949 –
dunque precedente il Patto di Varsavia – egli così scrisse: «Con il pretesto
dell’autodifesa, viene istituita la Nato: per dividere il mondo in due blocchi.
Grazie alla Nato, uno Stato aggressore riesce a far dichiarare ‘aggressore’ la
vittima e a usare contro questa le armi unificate del grosso energumeno e dei
suoi alleati» (pubblicato in «Economia della condivisione», Centro Gandhi).
In effetti si proclama organizzazione per
l’autodifesa collettiva ma fa tutt’altro: negli ultimi anni ha disfatto la
Libia, distrutto la Jugoslavia, fatto danni in Afghanistan. Divora risorse e
distrugge. Non è semplicemente un ente inutile. E’ un ente disutile. E gli enti
disutili vanno cancellati.
La Nato festeggia in questi giorni i quattro
anni dall’uccisione del leader libico Gheddafi, coronamento di sette mesi di
bombardamenti in appoggio ai «partigiani rivoluzionari». La Libia ridotta a failed
state esporta terrorismo. Ma
la Nato non paga mai per i danni. Nessuno va in prigione se per conto della
stella a 4 punte uccide e rade al suolo. E al massimo le vittime ottengono
qualche migliaio di dollari di mancia. Immunità, impunità.
Ecco perché il cartello preparato per l’azione
diretta non violenta davanti alle facce dei kapò della Nato e dei
remissivissimi media aveva due messaggi: da una parte «La Nato va sciolta» (o
dissolta), dall’altro «La Nato non paga mai per i crimini».
19 ottobre, accredito alla mega-celebrazione
di Trident Juncture. Giornalismo di pace: purché si possa citare qualche
testata (anche nient’affatto mainstream) ci si può far accreditare come
free-lance alle conferenze stampa della Nato, che essendo buona non può
censurare volgarmente. Durante la guerra contro la Libia nel 2011 gli incontri
mediatici si tenevano a Napoli e a Bruxelles. Un’occasione per porre domande
scomode, ottenendo risposte che erano praticamente autodenunce. Occasione
sprecata. Peccato che i mediattivisti non pensino o non sappiano di questa
possibilità. Una sola domanda cattiva non basta. Farebbe la differenza una
sfilza di “astuti” da parte di cinque-dieci giornalisti, ogni volta, in
successione. Si chiama giornalismo di pace.
Ovviamente se oltre alle domande scomode si
alzano anche cartelli di protesta e si distribuiscono poesie post-Nato, non si
otterranno ulteriori accrediti dallo stesso ente. Dunque, occorrerebbe essere,
a turno, in molti.
Arriva via email dall’Allied Joint Force
Command con base a Brunssum (Paesi bassi), la risposta positiva alla domanda di
accredito per la «giornalista indipendente». L’evento sarà il 19 ottobre 2015,
aeroporto militare di Trapani, cerimonia di apertura delle manovre congiunte
che uno dei militari quel giorno definirà «tremendous display di forze». Da
Roma, pare, la Nato ha messo a disposizione un aereo per i giornalisti. In
tanti devono averne approfittato, atterrando direttamente vicino al tendone
della cerimonia. Infatti la mattina del 19 (tutto sommato il viaggio in
corriera Roma-Marsala non è stato male!) ad aspettare fuori dai cancelli dell’aeroporto
ci sono solo giornalisti locali, due documentaristi russi e un cane di strada
che dev’essere fresco di abbandono, ancora bello e bianco, bisognoso di
carezze; volentieri accetta l’unico cibo a disposizione, mandorle. Il soldato
di piantone non risponde alla domanda: «Ve ne prendete cura voi spero?».
Il cartello è in borsa, piegato, dissimulato
in un ingenuo faldone di materiali su sicurezza alimentare e caos climatico (ma
con la guerra, tutto c’entra). «Lasciate le borse aperte lì in quella tenda», è
l’istruzione ai giornalisti. Ahi! Basta uno sguardo veloce lì dentro e l’azione
diretta andrà a monte. Invece no. La Nato – anzi meglio l’esercito italiano – o
non si aspetta o non teme il dissenso. Si cautela invece contro gli attentati:
metal detector e cani anti-esplosivo non sono pagati per evitare le proteste
verbali e scritte.
La cerimonia, la mostra e il
volo dei salvatori di civili indifesi
La cerimonia di inaugurazione precede la
conferenza stampa. Enorme tendone attrezzato, tappeto blu Nato a terra.
Presenti militari assortiti di ogni ordine e grado, politici, uffici stampa; e
stampa. Entrano le bandiere dei trenta Paesi che si eserciteranno. Purtroppo
anche i partner non membri, quelli che non partecipano alle guerre della Nato:
Svezia, Austria, Finlandia… Sugli spalti dei media, un cronista di Radio Cuore
è in brodo di giuggiole; è nel suo elemento: accompagna passo passo le fasi,
con voce baritonale e intenta. Una signora tacco 16 si fa un autoscatto. E
scattano tutti in piedi i media alle prime note del guerrafondaio inno di
Mameli. Scrutandoli dal basso, dal sedile, paiono soldatini. La tentazione di
estrarre adesso il cartello è forte, ma sarebbe impossibile fare il discorsetto
di spiegazione e il placcaggio da parte di qualche addetto stellettato sarebbe
così rapido da non far percepire niente, se non che «una pazza si è lanciata
contro le bandiere». In questi contesti la conferenza stampa è l’unica che
offre un po’ di tempo. Accadde anche a Roma nel 2013 per l’azione contro Kerry
& Terzi & gli altri di fatto sostenitori di gruppi jihadisti.
I discorsi sono a base di «La Nato lavora per
la soluzione pacifica dei conflitti, ma certo quando questa non funziona,
abbiamo la capacità di intervenire militarmente, nel quadro dell’Onu», «le più
importanti esercitazioni degli ultimi anni sono un segnale importante che i
Paesi danno». Vershbow dice quel che ripeterà poi ai media. Un comandante spiega
che appunto si tratta di «combattere terrorismo e sovversione» e le «sfide di
regimi autocratici». Insomma «la Nato si adatta alle nuove minacce». Trident è
un «tremendous spiegamento di forze per rispondere a minacce da Nord, Est e
Sud».
Poco dopo, la conferenza stampa; e in seguito
tutti nuovamente sui 4 pullman dei media, per un’altra tappa. Sulla pista aerea
di cemento adiacente al prato stanno fermi e disciplinati diversi aerei ed
elicotteri da guerra. Neri, grigi, marroncini, chiazzati. Le telecamere si
mescolano ai soldati, grande curiosità, le ferraglie quasi si possono toccare!
Poi ecco la sfilata aerea. Sfrecciano rumorosi, arrivano di colpo, in rapida
successione, come i fuochi artificiali. Gli elicotteri si posano un po’ più in
là, sul prato. Sarebbe di impatto mettersi a correre sotto e contro quei rumori
con uno striscione arcobaleno; o almeno agitare un cartello, per qualche
fotografo attento. Ma manca la materia prima. La locandina «Nato Killing
machine», scarabocchiata in fretta sul pullman, fa appena in tempo a comparire
che subito un giovane soldato la strappa via. Inutile provare a scriverne
un’altra sul prato. «E’ entrata come giornalista, faccia la giornalista».
L’ultima occasione di protesta sarebbe il
buffet, sotto un’altra tenda. Esporre un cartellino tipo «La Nato mangia
tanto»? Inutile, taccuini e telecamere sono a riposo. Intanto un reporter della
zona dice che a causa della guerra in Libia l’astuta compagnia Ryan Air fu
risarcita con 3 milioni di euro (il Comune molto meno) per aver subito una
riduzione dei voli da e verso Trapani, a causa dei continui voli militari a due
tiri di schioppo dalle piste civili.
Comunque nel ripartire in pullman – finalmente
senza militari e senza media – verso Palermo in un pomeriggio di fresco sole, e
poi in nave per il continente, viene in mente «Hanno fatto la manifestazione»
nell’epica canzone «I treni per Reggio
Calabria» di Giovanna Marini. Ma, a parte i cartelli scritti a mano, si
parla di altri tempi, il 22 ottobre1972. Allora si rischiava molto anche a
manifestare pacificamente. Nell’Italia del 2015 invece andare alla marcia No –
Trident Juncture per le vie di Napoli, il 24 ottobre, è un obbligo senza spine.
Ecco infine la poesia di Elias, sfollato iracheno
IL MONDO DOPO LA
DISSOLUZIONE DELLA NATO (ma in realtà si chiama «Il sogno di un uomo»)
La guerra finirà
pianteremo alberi
perché rimangano
non perché siano legna da ardere
con i nostri bambini e giovani e
anziani pianteremo fiori
alle frontiere
e grano nei campi dei soldati
trasformeremo le prigioni in musei.
La guerra finirà
insieme sradicheremo le mine
come i contadini sradicano le infestanti
al ritmo dei suoni del raccolto
chiuderemo le fabbriche di armi
diventeranno ospedali e scuole materne
e i veicoli militari
diventeranno bus scolastici
una volta ridipinti con arcobaleni a onde.
La guerra finirà
alzeremo la bandiera dell’amore e della
tolleranza
cantando per gli umani e la natura
applaudendo insieme
con risate e sorrisi puri
metteremo vasi di fiori alle nostre porte
ogni fiore da una parte diversa del mondo
ordiremo un arazzo colorato
ogni filo da una nazione.
La guerra finirà
ciascuno benderà le altrui ferite
pianteremo gelsomini
sulle tombe delle nostre vittime.
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