E’
partita lunedì scorso la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà
realizzata attraverso la collocazione sul mercato di azioni della società
corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L'obiettivo dichiarato
dal governo Renzi è l'incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione
del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico
dell'operazione: l'incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un
drastico calo del nostro debito pubblico dall'attuale vertiginosa cifra di
2.199 miliardi di euro (dati Banca d'Italia, fine luglio 2015) alla cifra di
2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l'attuale utile annuale di
Poste Italiane, pari a 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo
Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016. Si tratta di un evidente
rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di
Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico,
quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa
per poter privatizzare Poste Italiane.
Fatta questa premessa, occorre aggiungere come anche il prezzo di
vendita del 40% di Poste Italiane sia stato ipotizzato al massimo ribasso,
prefigurando, ancora una volta, la svendita di un patrimonio collettivo.
Infatti, mentre Banca IMI, filiale di Intesa Sanpaolo, attribuiva, non più
tardi di una settimana fa, un valore a Poste Italiane compreso fra gli 8,95 e
gli 11,42 miliardi di euro, e mentre Goldman Sachs parlava di una cifra compresa i 7,9 e i
10,5 miliardi, ai blocchi di partenza della vendita delle azioni la società
risulta valorizzata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.
A questo, vanno aggiunti tutti i fattori di rischio insiti
nell'operazione, legati al fatto che mentre si decide di privatizzare un
servizio pubblico universale, consegnandolo di fatto alle leggi del mercato, se
ne rafforza al contempo, per rendere più appetibile l'offerta, il carattere
monopolistico nel campo dei servizi oggi offerti, per i quali non v'è invece
alcuna certezza rispetto al domani: parliamo dell'accordo vigente con Cassa Depositi
e Prestiti per la gestione del risparmio postale (1,6 miliardi di commissione),
così come dei crediti vantati da Poste nei confronti della pubblica
amministrazione (2,8 miliardi). Senza contare come la società abbia in pancia
strumenti di finanza derivata, il
cui fair value, al 30 giugno 2015, risulta negativo per 976 milioni di euro.
Ma aldilà di queste considerazioni economicistiche, è a tutti
evidente come, con il collocamento in Borsa del 40% di Poste Italiane. muti
definitivamente la natura di un servizio, la cui universalità era sinora
garantita dal suo contesto di garanzia pubblica, che permetteva, attraverso i
ricavi realizzati dagli uffici postali delle grandi aree densamente
urbanizzate, di poter mantenere l'apertura di uffici, spesso con funzioni di
presidio sociale territoriale, in tutto il territorio italiano, a partire dai
piccoli paesi. E' evidente come la privatizzazione in atto inciderà soprattutto
su questo dato: per i dividendi in Borsa diverrà assolutamente necessario il
taglio dei rami economicamente secchi, ovvero la drastica riduzione degli
sportelli nelle aree poco popolate.
E,infatti, il piano industriale già prevede -ma sarà solo
l'assaggio- la diversificazione dei modelli di recapito, che da ottobre 2015
rimarrà quotidiano per nove città definite ad “alta densità postale”, mentre
diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tautologico sottolineare
l'impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una drastica riduzione -si parla nel
tempo di 12-15.000 posti in meno- oltre al sovraccarico di ritmi per quelli che
avranno la fortuna di essere sfuggiti alla mannaia.
Di fatto, con la privatizzazione di Poste Italiane si cerca di
rendere espliciti processi che già con la precedente trasformazione in SpA
erano rimasti sotto traccia: un'attenzione sempre più residuale al servizio di
recapito postale (anche per motivi legati all'innovazione tecnologica) e un
accento sempre più marcato sul ruolo finanziario di Poste Italiane, che, oggi,
grazie alla capillarità dei suoi presidi territoriali (13.000 sportelli),
costruiti negli anni con i soldi della collettività, può tranquillamente
lanciarsi in Borsa sfruttando la fidelizzazione dei cittadini accumulata in
decenni di ruolo pubblico, per metterla a valore in prodotti assicurativi,
finanziari e in sempre più spregiudicate speculazioni di mercato. Stupisce, ma
fino a un certo punto, la totale condiscendenza dei principali sindacati ad un
percorso che non avrà che ricadute negative sia sul fronte del lavoro che su
quello dei servizi per i cittadini. Non vale la foglia di fico dell'azionariato
popolare, che in realtà rende la truffa ancor più compiuta: con le azioni per i
dipendenti e gli utenti si fa un ulteriore favore ai grandi investitori, che
potranno controllare la società senza neppure fare lo sforzo di mettere soldi
per acquistarla.
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