«Io
mi interesso di istituzioni totali. Cioè mi interesso di carceri, manicomi,
campi di concentramento, campi profughi, centri di detenzione temporanea. Me ne
interesso in modo professionale, come ricercatore per conto di una cooperativa
che si chiama Sensibili alle foglie, che è una cooperativa di ricerca. Voglio
dire, però, perché mi interesso di questo e cosa centra con il lavoro di cui
parleremo questo pomeriggio. La prima considerazione che voglio fare è che sono
stato dentro le istituzioni totali per un quarto di secolo, per 25 anni, tra
carcere diretto e carcere indiretto. Ci sono stato, per mia fortuna, dopo la
conoscenza, quando già avevo maturato una serie di esperienze nella vita e
anche, avevo maturato, un percorso di studi. Ci sono arrivato dopo aver fatto
studi di sociologia e, alla fine di questa esperienza reclusiva, negli ultimi
anni, mi è sembrata una straordinaria fortuna quella di aver trascorso così
tanto tempo all’interno di un’istituzione come il carcere, perché tutti i grandi
sociologi che fanno e costruiscono il paradigma della lettura carcere, da
Goffman a Taylor, sono tutte figure esterne all’istituzione, figure che vengono
da un’altra istituzione, vengono dall’accademia e che quindi hanno avuto un
approccio, un rapporto, con questo tipo di istituzioni molto diverso, molto
difficile, perché, evidentemente, fare un’inchiesta con persone detenute
implica una serie di sbarramenti e spesso il superamento di questi sbarramenti
è impossibile. Recentemente abbiamo pubblicato con Sensibili alle foglie un bel
lavoro fatto da due ricercatori dell’Università di Roma (un lavoro per conto
della Comunità Europea, fatto per la Regione Abruzzo), la prima dichiarazione
che questi ricercatori fanno è sull’impossibilità reale di parlare con almeno i
tre quarti della popolazione detenuta, per vari motivi: per motivi di
giustizia, di struttura delle istituzioni. Quindi ho considerato come una
grande fortuna quella di aver fatto questa esperienza e ho pensato ad un certo
punto, insieme a Nicola Valentino, che è un medico e che ha fatto un po’ il mio
percorso all’interno delle carceri, ho pensato, di mettere a frutto, anche
professionalmente, questo tipo di esperienza. Una seconda ragione, per cui me
ne sono interessato, è che questo tipo di istituzioni fanno male, sono
istituzioni che producono malessere sociale. In Italia abbiamo avuto una grande
fortuna, quella di aver avuto tra di noi Franco Basaglia, che come medico, come
terapeuta, come psichiatra nonché come persona sensibile alla vita sociale, si
è interessato di una di queste istituzioni: il manicomio. Se ne è interessato
mostrando a tutti, operatori e cittadini, come un’ambiguità teorica di fondo
rendesse impossibile comprendere cos’era il manicomio. La sovrapposizione
dell’istituzione terapeutica con l’istituzione “manicomio”, per tanti anni,
aveva costruito l’immagine che il manicomio fosse un luogo di cura e che quindi
il “mito” del manicomio funzionasse. Nella realtà, Basaglia ha dimostrato come
l’istituzione terapeutica può prendersi cura delle persone che vivono
sofferenze relazionali o sofferenze di natura psicologica, ma sicuramente non
il manicomio, che era istituzione reclusiva, ed è proprio da questa
considerazione, dal fatto che le istituzioni reclusive producono malessere aggiuntivo,
che Basaglia è partito per chiedere la mobilitazione, che c’è stata in Italia,
di tutti i cittadini e le persone sensibili, perché si arrivasse a chiudere i
manicomi, a sbarazzarsene, proprio per sviluppare in libertà e senza malesseri
aggiuntivi quello che era il percorso di cura, il percorso terapeutico che
poteva interessare a chi soffriva. L’istituzione carceraria, le istituzioni
carcerarie, costruiscono un’equivalenza tra pena e carcere, un’equivalenza
recente, in vigore solo dall’800 (prima il carcere non esisteva, c’erano
carceri come luoghi in cui si tenevano delle persone, per qualche settimana al
massimo, al fine di poterle poi sottoporre alla pena, pena che però, in quegli
anni e nei secoli prima, era considerata come supplizio, come pena di morte,
come gogna, oppure in altre forme, come pena pecuniaria). Fatto salvo il
Diritto Ecclesiastico, vale a dire l’istituzione del carcere vera e propria per
gli eretici, un filone di reclusione che viene, questo si, dai secoli
dall’inquisizione, che ha un carattere molto particolare perché lega la
reclusione all’eresia con un dispositivo tecnico che è vicino all’ergastolo
moderno: una pena che dura un tempo indefinito, non si sa bene quanto,
dipenderà da che cosa fa la persona che la subisce, se l’eretico cambia
opinione, se l’eretico abiura allora viene meno anche la necessità di tenerlo
in carcere. Fatto salvo tutto questo, la nozione di pena era una nozione, si,
legata al carcere ma anche a una temporalità elastica tutta determinata dai
comportamenti, dagli orientamenti, dagli stili di pensiero della persona,
quindi non siamo di fronte ad un’istituzione paragonabile al carcere vero e
proprio, al carcere che verrà con la fine del ‘700. Il carcere come
istituzione, come lo conosciamo noi, produce malessere, produce mortalità in
una maniera sovrabbondante, pensate che una rivista di ricerca molto importante
del Ministero di Grazia e Giustizia, ha pubblicato, ormai più di un decennio fa
prima di chiudere, un numero monografico in cui ospitava le ricerche a tutto
campo che venivano fatte in tutto il mondo, dall’America all’Europa, su
l’influenza negativa della carcerazione sui carcerati. Tutti questi
ricercatori, che sono poi i ricercatori più noti, arrivavano alla conclusione
che una media carcerazione, una medio-lunga carcerazione, produceva danni
irreversibili alla persona, produceva un deterioramento psico-fisiologico
irreversibile tale che si poneva un problema di ordine etico e anche di ordine
giuridico: -“Come possiamo noi condannare una persona che avrà come conseguenze
della sua carcerazione conseguenze che durano oltre la pena?”. È un dibattito
che, per un certo tempo, filosofi, giuristi, persone che si interessano di
problemi etici hanno portato avanti ma che poi, in tempi recenti, in qualche modo
hanno smorzato. Tuttavia, resta il fatto che la mortalità all’interno di queste
istituzioni è una mortalità che ha dei percorsi non paragonabili. Tenete
presente che oggi, su diecimila cittadini non in istituzioni totali la
mortalità è di 0.7, la mortalità dentro istituzioni totali in Italia su
diecimila detenuti è 17.6. Siamo quindi di fronte a indici non minimamente
comparabili, ciò vuol dire che siamo di fronte ad istituzioni che producono
malessere e producono una mortificazione nel senso letterale del termine. Mi
interesso di istituzioni totali perché da un punto di vista sociale,
sociologico, possiamo considerare il carcere un analizzatore molto interessante
della società in cui viviamo. Possiamo prendere questo analizzatore per leggere
una serie di dinamiche sociali. Per farvi capire proprio sommariamente quello
che cerco di dirvi: se io prendo per esempio gli Stati Uniti d’America e guardo
il tipo di istituzione carceraria ottengo informazioni che vanno molto al di là
dell’istituzione totale stessa e mi dicono qualcosa sull’organizzazione della
vita economica, sociale, sul livello dei diritti di quel paese. Tenete presente
che negli Stati Uniti ci sono 220.000.000 di persone e abbiamo un indice di
penalizzazione, cioè una quantità di persone penalizzate, che raggiungono oggi
i 6.000.000. Siamo di fronte alla scelta (scelta che non è ancora stata fatta
in Europa ma ci sono tendenze che spingono affinché si faccia) di carcerare una
parte della società, carcerarla sia direttamente, e allora, lì abbiamo l’1
milione e mezzo, 1 e 7 di detenuti stabili, ma abbiamo poi il lato indiretto
delle carcerazioni, le carcerazioni legate ai braccialetti, agli obblighi,
legate cioè a quella che è una penalizzazione di una fascia sociale.
Soprattutto abbiamo dei dispositivi tecnici che oggi consentono di rendere
questo spazio di 6 milioni di persone non convertibile, le persone che
finiscono lì non possono più uscirne. Perché non possono più uscire di lì?
Facciamo un esempio: in internet voi potete trovare sui siti delle carceri
americane i nomi di tutte le persone che transitano dentro il carcere. Questo
cosa significa? Che in una società di economia virtuale come la nostra, dove le
persone comprano i mobili a rate, la macchina a rate, pagano (a rate) il mutuo
della casa (oggi si fa addirittura il micro-credito per pagare i libri di
scuola), in una società fatta così chi finisce in una di quelle liste non avrà
accesso a nessuna di queste opzioni, a nessuna di queste possibilità. Perché se
io ti vendo una macchina la prima cosa che faccio è: - “Vado a vedere quale è
la tua solvibilità, quale è la sicurezza del mio rapporto con te e se sei stato
in un carcere è sicuro che io il contratto con te non lo stipulo”. Questo è
solo uno dei tantissimi esempi che hanno portato oggi a studiare un ciclo che
si è rovesciato, un ciclo tra il carcere e il ghetto. Perché prima avevamo una
centralità del carcere rispetto a un’area disagiata, a un’area di difficoltà
che era il ghetto, oggi abbiamo un complesso che è un carcere-ghetto, perché si
fa transito da uno all’altro, indifferentemente. Questo tipo di problema ci
dice delle cose sul modo in cui l’economia americana funziona, su come il
controllo sociale funziona. Mantenendo l’esempio sugli Stati Uniti, se sposto
lo sguardo su Guantanamo trovo un altro dispositivo, trovo, per esempio, che
viene istituito un carcere in un territorio che non è più il territorio del
diritto americano, trovo un territorio dove è sospeso il diritto americano,
dove sono sospese le garanzie per gli imputati, dove è sospeso il diritto
internazionale, perché le persone che sono recluse in quel carcere non sono
imputate di alcun reato e non sono neanche prigionieri di guerra. È, quindi, un
carcere nuovo, che ha delle caratteristiche radicalmente nuove (apparentemente
nuove). Un luogo di internamento in cui le persone internate non hanno commesso
reati, non sono imputati di reati e non sono prigionieri di guerra:
un’istituzione nuova. Un’istituzione interessante, perché mi dice che
all’interno di questo paese si stanno pensando a politiche di sicurezza che
hanno a che fare con la reclusione, con la carcerazione di una serie di figure
asociali internazionali, nazionali e via di seguito. E, allora, io posso
utilizzare, in Italia, il carcere, le istituzioni carcerarie, per leggere
queste dinamiche. Prendete per esempio i centri di detenzione temporanea, il
discorso è assolutamente identico a Guantanamo. Il centro di detenzione
temporanea è un’istituzione, nata in Europa dagli accordi di Shanghell, quindi
presente in tutti i paesi europei, ma è un’istituzione di carcerazione senza
imputazione, senza reato. Noi abbiamo un istituto che chiude delle persone, dei
migranti che non hanno commesso nessun reato se non quello di trovarsi in una
condizione di povertà, migranti sulla pelle della terra, gente che va in cerca
di fortuna e di lavoro e che incontra un territorio ostile, un territorio che
considera queste persone indesiderabili, come dice il decreto di legge. È
interessante guardare questo dispositivo, perché è una carcerazione preventiva:
- “Ti chiudo per rimandarti al tuo paese perché non voglio che transiti nel
mio”. Il dispositivo che ha costruito il centro di detenzione temporanea è
identico al dispositivo che ha costruito i 250 campi di concentramento che in
Italia ci sono stati tra il 1940 e il 1945. Quei 240, 250 campi di
concentramento di cui vi sarà difficile trovare, salvo i documenti ufficiali
(cioè i decreti legge che li hanno istituiti), una precisa documentazione
perché come tante altre cose sono stati rimossi dalla memoria collettiva.
Rimossi anche dalla memoria dei luoghi. Io abito in una zona del Piemonte che è
vicina a un importantissimo campo di concentramento, che era quello di Borgo
San Dalmazzo, dove sono transitate centinaia e centinaia di ebrei dalla Francia,
per andare a finire a Matthausen o per andare a finire a Auschwitz, ma non c’è
più traccia di questo luogo, neanche una lapide, neanche una stele. Ci sono,
tuttavia, dei ricercatori che oggi fanno molto lavoro per riportare la
consapevolezza della memoria dei luoghi ma, io direi, che per quel che riguarda
il discorso che faccio qui è interessante la consapevolezza dei discorsi
tecnici: quale è la legge istitutiva di questi campi di concentramento? La
legge che è stata firmata dal governo nel ’40 (due anni dopo le leggi razziali
quindi). Il dispositivo che è stato firmato che differenza ha rispetto al
dispositivo dei centri di detenzione temporanea? Se vi prendete la briga di
guardare questi due documenti, che sono due documenti ufficiali e pubblici, vedrete
che le parti che vengono utilizzate e i dispositivi sono assolutamente
identici. Là c’erano gli indesiderati di un regime e dovevano essere chiuse le
persone che risultavano indesiderate insieme agli ebrei, tanto è vero che sono
stati chiusi nomadi, zingari, sono stati chiusi rom, sono stati chiusi
politici, partigiani, sono stati chiuse persone di chiesa, cioè persone che
avevano varie confessioni religiose, sono stati chiusi. Il dispositivo era:
sudditi indesiderati. I sudditi indesiderati nel nostro paese dovevano essere
chiusi e in parte poi spediti, secondo gli accordi che erano stati fatti con la
Germania, deportati, in questo caso in Germania. La nozione di deportazione, se
guardate bene, è legata a quello di centro di detenzione temporanea nello stesso
modo: - “Io ti prendo e ti deporto”. Noi abbiamo appena pubblicato un libro di
una storia che ho seguito direttamente perché è un ragazzo palestinese che ho
conosciuto in carcere, questo libro si intitola La tana della iena, e questo
ragazzo è un ragazzino che viveva nel campo profughi di Chatila, dove ha perso,
al tempo delle stragi che hanno fatto più di 3.000 morti tra Sabra e Chatila,
ha perso la madre, le due sorelle e tre i fratelli, poi dopo il padre, insomma,
un ragazzino che a 9 anni ha scelto di andare a combattere in Libano, poi con
la resistenza palestinese, che a 14 anni è venuto in Italia e che ha fatto un
piccolo attentato a Roma è stato preso subito dopo perché non sapeva dove
andare, veniva da Beirut, non era mai stato fuori dal campo profughi, per cui
l’hanno preso a 50 metri da questo obbiettivo che aveva ed è finito, perché
aveva 14 anni, nel carcere minorile. Questo ragazzo, che si chiama Hassan, dopo
il carcere minorile ha fatto il carcere per gli adulti, ha fatto il carcere speciale,
perché era un terrorista internazionale e ha fatto 15 anni di carcere. La cosa
interessante è che scontata la sua pena, imparata la lingua italiana in questi
15 anni, dopo 7 anni di lavoro dentro l’istituzione carceraria, regolarmente
definita, perché gli era stato dato un tesserino fiscale perché aveva lavorato
in carcere, ebbene dopo tutto questo iter, il giorno che deve uscire dal
carcere viene preso dalla polizia di frontiera e viene messo al centro di
detenzione temporanea di Ponte Galeria. Gli si dice : -“Si, è vero, tu hai
finito la pena, hai pagato tutto quello che dovevi pagare, ma tu sei un
indesiderabile, sei un terrorista internazionale, avrai anche pagato la pena ma
tu il piede sul territorio nazionale non lo metti”. E finisce a Ponte Galeria.
Ora, fortuna sua e fortuna nostra, il campo profughi della Siria da cui lui
proveniva non c’è più, in Palestina non ci può andare, non lo possono espellere
perché non potrebbe mai transitare, come terrorista internazionale per Israele,
e quindi, dopo i 60 giorni, il giudice l’ha messo fuori e lui ha fatto una
richiesta per un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Gli è stato
risposto: - “Non ti daremo il permesso per motivi umanitari, perché per legge
non è possibile, hai fatto più di 5 anni di carcere. Non è possibile scegliere
questa soluzione, però non sappiamo dove mandarti quindi non risponderemo alla
tua domanda, se qualcuno ti ferma tu dì “ecco, io ho fatto la domanda per il
permesso di soggiorno”. Dove finirà? Al centro di detenzione temporanea, farà i
60 giorni e poi riuscirà. E lui così è entrato, è uscito, è entrato, è uscito,
entra ed esce da questo centro di detenzione temporanea, in una spirale
assolutamente folle, perché quest’uomo ha 30 anni, ha pagato quel che doveva
pagare, non può andare da nessun’altra parte nel mondo, non può stare in
Italia, perché nessuno gli può dare lavoro, perché non ha documenti dal momento
che gli hanno ritirato il tesserino fiscale il giorno che è uscito dal carcere
dicendogli: – “Valeva finché tu eri in carcere ma ore tu sei fuori, non vale
più, non hai documenti”. Questo problema, che noi abbiamo sollevato con un
libro, che abbiamo anche portato in una grossa trasmissione televisiva, a
Ballarò, che è stato raccontato, non ha suscitato nessun tipo di mutamento
della sua condizione, giriamo, giriamo ogni tanto nelle università, nelle
università di diritto, per porre il suo problema come problema di diritto,
giriamo nei centri sociali, nelle città che ci danno ospitalità per mostrare
questo paradosso legato sempre ad un’istituzione che è presente in Italia e
sulla quale c’è un atteggiamento un po’ simile a quello che c’è stato rispetto
ai 240-250 campi di concentramento: - “Cioè, si è vero, ci sono stati ma
nessuno se ne ricorda più”. E alcuni neanche pensano che ci siano stati. Ho
fatto questa premessa parlando di istituzioni totali per dire perché mi
interesso di istituzioni totali e perché a partire da questo interesse mi sono
incontrato con il mondo del lavoro. Io per conto della cooperativa faccio soprattutto
un lavoro di ricerca, un lavoro di socio-analisi, lavoriamo con comunità
terapeutiche, con centri profughi, ma anche con persone che hanno avuto lunghi
internamenti e che hanno avuto traumi da lunghi internamenti. Lavoriamo su
questi terreni e tuttavia faccio anche un lavoro didattico, faccio un corso in
università, faccio dei seminari di formazione di operatori e in uno di questi
interventi pubblici erano presenti dei sindacalisti di Milano che lavoravano
nella grande distribuzione milanese, cioè Esselunga, Bennet, Rinascente, Standa
e sentendo il resoconto di alcuni dispositivi che operano all’interno delle
istituzioni totali uno di questi sindacalisti mi ha presentato una storia e mi
ha chiesto: - “Questa storia che relazione ha con le storie che hai raccontato
te? C’è un nesso? Si può dire che all’interno delle istituzioni ordinarie ci
sono dispositivi totalizzanti? E se si, si può dire entro che limite? In che
modo, visto che una tendenza alla totalizzazione viene persino indicata e
registrata da Goffman?”. Questo il suo intervento. Rimanemmo che ci saremmo
incontrati a Milano per discutere meglio perché io era troppo tempo che ero
fuori dal mondo che non fossero le istituzioni totali e non me la sentivo di
rispondere subito a questa domanda. Questo incontro ha prodotto prima un
seminario con degli operatori e sindacalisti e poi una ricerca con commesse e
scaffalisti che lavoravano nella grande distribuzione. Per noi la ricerca è
ricerca socio-analitica, è una assemblea in cui si narrano storie e a partire
dalle storie che vengono messe in relazione con altre storie nelle istituzioni
totali si cercano di individuare dei dispositivi. Abbiamo lavorato per circa
due anni e da questo lavoro è nato il libro che presento, ed è nato a partire
da una prima considerazione che a me è sembrata molto interessante e che ha
spinto poi la cooperativa ad accettare questa commessa di lavoro. La
valutazione che abbiamo fatto è che questa proposta ci veniva fatta in un
momento in cui a livello mondiale nella classifica tra le prime aziende per
fatturato avveniva una grande rivoluzione, al vertice dominato da decenni dalle
grandi aziende meccaniche e in particolare dalla General Motors nel 2001 era
sbalzata un’azienda che si chiama Wal-Mart, un’azienda estremamente interessante
perché un’azienda della grande distribuzione americana che per la prima volta
superava come fatturato quello della General Motors, un fatturato di 220
miliardi di dollari contro i 180 miliardi di dollari della General Motors, un
superamento quindi non piccolo, ma inoltre superava l’indice di tutte le
aziende private del mondo di occupazione, presentava un’occupazione di un
milione e duecento mila persone e la caratteristica di questa occupazione era
però ancora più interessante dei numeri perché i contratti che la Wal-Mart
stipulava erano tutti quanti contratti a tempo determinato, contratti part-time
e tutti contratti che non andavano oltre le 25 ore settimanali. Eravamo quindi
di fronte ad una macchina complessa, gigantesca che era in grado di gestire
un’enorme forza lavoro tutta flessibile nel momento in cui in Italia si
incominciava ad affrontare seriamente le implicazioni di questa flessibilità.
La sfida di ricerca a noi ha interessato molto, perché studiando i campi di
concentramento era apparso molto chiaro ad alcuni sociologi come Bauman per
esempio (sociologi molto istituzionali, che non sono ai bordi del mondo della
ricerca, ma sono persone accreditate nell’accademia) che per capire le
dinamiche del mondo del lavoro si doveva guardare a fondo l’impianto
burocratico organizzativo e i dispositivi che erano stati inventati e messi a
punto da una grande azienda come quella di Auschwizt. Erano nati una serie di
lavori di grandi ricercatori che avevano spinto uno sguardo non più
etico-politico sul mondo dei campi di concentramento, ma molto tecnico per
vedere come sia gestita una massa fluttuante di forza lavoro. Noi, con questo
tipo di interesse, abbiamo iniziato a fare questo lavoro socioanalitico,
abbiamo raccolto storie ed ad un certo punto abbiamo individuato un dispositivo
centrale dell’organizzazione del lavoro molto interessante, un dispositivo che
potremmo definire così: lo scambio simbolico tra la disponibilità richiesta al
lavoratore e l’inclusione nei programmi dell’azienda. Cosa stava succedendo in
queste aziende? Stava succedendo un mutamento molto radicale delle modalità di
organizzazione del lavoro, che sono quelle che conosciamo: c’è un contratto,
c’è un sistema di diritti, la persona finisce a seconda del suo inquadramento
in uno o nell’altra delle caselle di questo sistema di diritti. No, qui stava
succedendo qualcosa di completamente diverso: il lavoro veniva tradotto in
termini di disponibilità a lavorare, senza fissare i margini di tale
disponibilità, disponibilità alla flessibilità del tempo, alla flessibilità
dello spazio, alla flessibilità delle mansioni. Cosa intendo dire? Autogrill:
un giorno faccio il pizzaiolo ma il giorno dopo posso lavare i pavimenti e il
giorno dopo ancora posso servire al bar: - “Là dove serve io vado a lavorare.
Un giorno posso essere in un negozio e il giorno dopo a 50 km” - flessibilità
nello spazio - “Un giorno posso lavorare 3 ore, il giorno dopo posso lavorare
12 ore. Ho un sistema, estremamente elastico, di definizione della mia
disponibilità, io devo darti la mia disponibilità a seguire i tracciati
d’azienda, che sono tracciati nuovi. Piove: c’è più gente nel negozio si lavora
più oggi e meno domani, c’è più traffico: si lavora più oggi e meno domani”. Il
lavoratore deve darsi la sua disponibilità a flettersi a seconda del tracciato
d’azienda. Questa disponibilità gli consente di restare incluso nei programmi
dell’azienda. Ora guardate questo rapporto che caratteristica ha: la
caratteristica di non avere più una dimensione sociale, collettiva, ma una dimensione
personale. È lo stesso identico dispositivo inventato ad Auschwizt, un
dispositivo che è stato inventato per un motivo molto preciso e complesso:
gestire una grande massa di persone dentro un campo di concentramento: -“Se io
ho 5 mila persone, come faccio a tenerle lì? Metto 10 mila soldati? E allora il
problema diventa serio, perché mi costa troppo”. Chiunque di voi abbia anche
solo sfogliato qualche libro di storia avrà visto che tutti i campi di
concentramento non avevano strutture così, avevano qualche filo spinato,
qualche filo elettrico, qualche garitta. Chiunque abbia letto i libri di Primo
Levi, i libri dei grandi testimoni che abbiamo avuto qui in Italia (per non
parlare dei testimoni di altri paesi, tradotti anche quelli per altro, almeno i
principali), chiunque l’abbia fatto sa benissimo che il dispositivo di gestione
di un campo di concentramento era affidato agli stessi internati, affidato a
partire da uno scambio simbolico elementare: -“Tu, per sopravvivere qui dentro
hai bisogno di un pezzettino in più di pane di quella che è la razione, se no,
non duri molto, ma, se tu vuoi un pezzettino in più di pane, io te lo posso
anche dare a condizione che tu fai il capobaracca. E il capobaracca cosa deve
fare? Questo, quello e quello. Finché tu osserverai scrupolosamente i compiti
della mansione che ti affido resterai capobaracca ma il giorno che per qual si
voglia motivo, tu non ottemperi alla mia richiesta, quel giorno perdi il tuo
posto. Quindi se sei in una struttura a tempo determinato non è garantito nulla
della tua vita, fino a che tu sei lì devi produrre, devi dare una prestazione
che è del tutto arbitraria, cioè non è legata a un sistema di diritti, tu non
hai dei diritti: - “Chi ti dice che devi fare quella determinata mansione, chi
ti dice quel giorno cosa fai e il giorno dopo cosa farai?”. È dentro questo
scambio che tu “giochi” l’idea di sopravvivenza, che perde, quindi, la sua
caratura collettiva, la sua dimensione di un problema che riguarda tutti gli
internati per diventare un problema che riguarda solamente te. Gli storici,
figure accademiche cui i libri sono stati tradotti anche in Italia da grandi
editori come Feltrinelli ed Einaudi, hanno mostrato che questo dispositivo è
identico al dispositivo della pulizia etnica che era stata fatta, per esempio,
in Polonia negli anni che hanno preceduto e accompagnato i campi di
concentramento; per chi vuole guardare a fondo questo problema c’è un
bellissimo lavoro di Christopher Browing, pubblicato da Einaudi, che si
intitola Uomini comuni che analizza questo percorso della pulizia etnica e
mostra come a compiere la pulizia etnica siano state non le SS, da un punto di
vista “pratico”, ma i prigionieri di guerra polacchi. È ovvio: - “Io faccio dei
prigionieri di guerra e poi li metto nella condizione di o morire o tentare
delle vie diciamo di “sopravvivenza” che non sono garantite ma che fanno il
lavoro disposto”. È ciò che noi vediamo costantemente in tutte le istituzioni
totali ed è il dispositivo che Primo Levi ci invita a guardare bene, perché lo
chiama il dispositivo della “zona grigia”. È un’osservazione importante questa
di Primo Levi, la trovate nel suo ultimo libro sui campi di concentramento,
Sommersi e salvati, nel capitolo che si intitola proprio La zona grigia. Dopo
Primo Levi si è suicidato perché non è arrivato a capo del problema che pone in
quel capitolo, in quel capitolo invita il cittadino, il lettore a guardare al
campo di concentramento non cercando di immaginarsi che cosa sia il campo di
concentramento: - “Evitate di fare un esercizio mentale di questo genere perché
tanto è destinato al fallimento, fareste solo delle fantasie; piuttosto,
guardate nel mondo del lavoro in cui voi stessi siete inseriti come funzionano
le carriere oggi a Torino o nel nord Italia” - guardate bene che cos’è il
dispositivo dei privilegi, guardate come funziona il dispositivo dei privilegi.
È un dispositivo che, oggi, trovate in tutti i supermercati, in molti
supermercati trovate la gigantografia del dipendente del mese. Uno va e vede
che quella cassiera o quello scaffalista, quel magazziniere è il dipendente del
mese e il dipendente del mese è colui che ha dato la disponibilità più ampia
nello scambio simbolico con l’azienda, e viene premiato non con una moneta, non
viene pagato di più per quello che ha fatto, viene pagato con un prestigio, un
piccolo spazio che può essere il preludio a un passo di carriera. Il
dispositivo della gestione dei privilegi è il dispositivo della gestione dello
spezzettamento della massa dei lavoratori in un’infinità di posizioni
singolari. Ora: il dipendente del mese ci può far sorridere ma se poniamo il
problema in termini molto più concreti: una mamma che ha un bambino molto
piccolo e che fa un lavoro parttime perché, vivendo a Milano oppure a Torino,
ha bisogno di avere un po’ più di soldi in casa perché non ce la fa con il solo
stipendio del marito che lavora anche lui precariamente. Bon.. fa un part-time,
e, in questo part-time, sapendo che ha un bambino, le danno uno spezzato,
un’apertura e chiusura che va a puntare, diciamo così, il dito sull’orario in
cui lei deve portare il figlio a scuola. Allora questa donna si rivolgerà al
suo capo e gli dirà: - “Senti, io cosa posso fare? Cosa potete fare voi? Io a
quell’ora devo portare mio figlio a scuola, non ho né una baby-sitter, né una
zia, come faccio?” – “Parliamone” – risponderanno – “Si può fare, noi ti
facciamo un contratto in cui ti garantiamo che in quella fascia tu non verrai
mai messa nelle turnazioni, ma tu però ci garantisci che il primo Maggio, che
il giorno di Natale, a Pasqua tu verrai a lavorare, perché non porti tuo figlio
a scuola. È uno scambio. Noi ci rendiamo disponibili a risolvere il tuo
problema ma tu ti rendi disponibile a risolvere il nostro”. Così lei andrà a
lavorare e non prenderà i soldi del supplemento di lavoro in orario festivo,
niente, prenderà semplicemente l’equivalente di un giorno di lavoro perché c’è
stato questo tipo di scambio. È un “privilegio” come vedete: - “Se tu non
accetti quello, io ti metto fuori dall’inclusione dei programmi dell’azienda,
lo posso fare non perché sono cattivo, bestialmente aggressivo nei confronti
delle madri che hanno dei figli, no, semplicemente perché c’è un sistema di
leggi”. La Legge 30, per dire solo l’ultima, garantisce questa possibilità di
equiparare, come dicono i tecnici di diritto, equiparare quelli che una volta
si chiamavano lavori atipici con quello che una volta si chiamava lavoro non
atipico, ordinario. Oggi siamo su un piano di perfetta equivalenza, le figure
di lavoro sono identiche, tutti quanti, datori di lavoro e lavoratori devono
venire, devono determinarsi a muoversi dentro questo tipo di quadro. Che tipo
di implicazione ha questo modo di funzionare del mondo del lavoro? Che tipo di
inclinazioni ha questa tendenza? Qui stiamo parlando solo degli ipermercati
perché sono un territorio più dinamico, dovendo muovere grandi masse di
lavoratori (tenete presente che a Milano oggi la Esselunga raggiunge
all’incirca i 12.000 lavoratori, che è l’equivalente di quello che nel ’69 era
l’occupazione alla Pirelli, cioè la più grossa azienda a Milano, cioè siamo
dentro a livelli occupazionali molto alti). Che implicazioni ha? La prima
implicazione, la prima grave implicazione è che l’intero mondo del lavoro viene
“sottoposto” ad una cappa di ansia, di angosce e di paure, proprio da un punto
di vista tecnico. Ansia. Qualunque posizione lavorativa è precaria, non è più
pensabile, da oggi in poi e fatta eccezione per quelle strutturate nel passato,
“pensarsi” stabilmente nel mondo del lavoro e non ha più senso. Prendete la
Microsoft, per esempio, nell’ultimo anno ha fatto una rivoluzione
dell’organizzazione del lavoro mettendo tutti i lavoratori, dal primo dirigente
all’ultimo usciere, dentro una struttura-progetto: - “Tu lavori per me ma
dentro questo progetto a tempo determinato, un anno, 6 mesi, 8 mesi, finito
quel progetto non so se io ti riprendo, vedremo. Tu, quindi, mi darai il
massimo se vuoi rimanere qua. Poi io ti chiederò il massimo finché tu sei qua,
perché se tu vuoi che io ti riconfermi il lavoro, la tua disponibilità deve
essere assolutamente massima. Io voglio che tu sia l’azienda ma l’azienda ha
una concorrenza internazionale spietata, non si può mica far battere dalle
altre aziende. Dal momento che tu sei l’azienda sei anche quello che il sabato
sera si sente dire l’orario del lunedì e il lunedì sera l’orario del martedì”.
Angosce e paure. Vediamo, perché sono implicazioni forti e le persone esistono
non come lavoratori astratti, donne o uomini che siano, ma sono persone
concrete, se sono giovani saranno dei fidanzati e delle fidanzate, dei
giocatori di pallone, dei giocatori di scacchi, se sono un po’ più maturi
avranno una moglie e dei figli, delle situazioni di vita di relazione un po’
più complesse, se sono ancora più avanti nell’età avranno dei problemi
terribili legati all’età che avanza, alla sostituibilità possibile del loro
lavoro (visto che i progetti sono a tempo, a scadenza), lavoro che non è più
garantito dalle carriere precedenti ma che si deve misurare con l’efficienza e
coi costi. Ecco che entriamo in un sistema di angosce e di paure molto
determinate, paura di perdere il lavoro, paura di non trovarne un altro, paura
della propria età, paura di non essere all’altezza, paura di essere solidali
con qualcuno, perché se cade di fronte a me un ebreo che muore di fame in un
campo di concentramento non è così vero che io posso chinarmi e dirgli: – “Ti
do la mia mano per tenerti su, ti do il mio pezzo di pane”, perché questo può
portare ad una punizione terribile, è il motivo per cui noi abbiamo, nei vari
centri che lavorano sui traumi da internamento, persone che hanno vissuto
traumi e a tutt’oggi non ne sono ancora uscite perché hanno svolto attività
solidali. Questo nei campi di concentramento, ma se vado solo in un ipermercato
qui, ho lo stesso identico problema. Nel libro L’azienda totale noi raccontiamo
storie avvenute a Milano nel 2002, storie che abbiamo anche già selezionato per
non dare l’impressione di raccontare storie esagerate, che uno dice: – “Ma dove
le prendono questi qui?”. Storie selezionate, ultra ribadite, quindi, storie
che si sono prodotte più volte: al magazzino dove si preparano i banconi per il
giorno dopo per i supermercati, durante la notte, un carrellista cade rimane
sotto il muletto, si spacca la gamba e per più di un’ora nessuno dei 250
lavoratori si ferma perché i capi dicono: - “No, guarda, non è affare tuo
fermarti, affare tuo è mettere 3 di questi bancali sul camion ogni tot, quello
suo non è un problema che ti riguarda.” E quello resta lì, in attesa di
qualcuno che lo salvi. Storie di questo genere succedono oggi nel mondo del
lavoro e succedono spesso e succedono sempre più spesso, perché ogni
lavoratore, chiuso nel suo guscio, tenta di sopravvivere al contesto dentro il
quale è inserito. Angosce, ansie, paure: tutto ciò porta, dal punto di vista
delle modalità del pensiero umano, a quello che alcuni hanno definito come
“pensiero della sopravvivenza”. Un lavoro che è partito dal guardare, dai gulag
ad oggi, a un pensiero semplice ed essenziale che è: la sopravvivenza di un
singolo quanto costa a quei signori? Sopravvivere a ogni costo cosa vuol dire
in concreto nella vita? È chiaro che nei gulag sopravvivere a ogni costo
significa sopravvivere al posto di un altro e nei campi di concentramento idem:
- “ Io faccio il kapò o la pulizia etnica e casomai sopravvivo, ma tu intanto
muori e casomai sopravvive un vicino; io e te, nella struttura, non siamo
diversi, siamo due internati. Uno, io, devo sopravvivere a qualunque costo.
Perché? Ma per motivi futili, banali, perché ho un figlio, gli voglio bene,
devo uscire dal campo di concentramento, non so perché sono qua, chi mi ci ha
messo? Non ho fatto niente… ho tutte le ragioni del mondo per voler
sopravvivere e nel momento in cui io voglio sopravvivere ad ogni costo sarà a costo
tuo”. Qua sorge il primo grosso problema, un problema etico: sopravvivere ad
ogni costo significa sopravvivere al costo di un altro e quindi chiede la
definizione di un limite etico della propria vita, chiede alle persone di
definire un orizzonte etico che non sono disposti a superare nonostante sia in
gioco la loro stessa vita. Questo, in un discorso più ampio, nel mondo del
lavoro, significa chiedersi quale sia il limite etico che sono disposto a
mettere sul cammino del mio lavoro per rimanere a lavorare in azienda e che non
sono disposto a superare se questo dovesse costarmi il mio posto di lavoro.
Questa è una grossa domanda perché è una domanda nuova. E’ una domanda che ci
pone di fronte a un problema nuovo rispetto al modo con cui noi abbiamo affrontato,
nel dopoguerra per esempio, il problema del lavoro: eravamo dentro una
struttura dove lo scambio simbolico non era disponibilità e inclusione nei
programmi dell'azienda, ma era una struttura fordista-taylorista in cui c’era
si una gerarchia ma c’era la line (catena) e quindi un certo numero di persone
che condividevano una stessa collocazione nella line e condividevano una stessa
provocazione dal punto di vista contrattuale, c’erano infatti identità che
ragionevolmente dicevano: - “È tuo interesse, come mio, fare questo tipo di
passo, insieme, anzi, più siamo, più faremo valere il nostro lavoro”. Qui ha
preso fiato, forza il movimento sindacale, i movimenti politici che si sono
battuti sempre con l’idea che ci fossero gruppi. Gruppi, ma ora siamo ai singoli.
Il pensiero della sopravvivenza è singolare, singolarizza l’azienda il
lavoratore, come singolarizza il consumatore, lo individualizza, ma crea anche
un pensiero singolare della sopravvivenza. Rispetto a questo, infatti, noi oggi
ci interroghiamo, portiamo avanti la ricerca. Ricerca che quest’anno
proietteremo proprio su questo territorio: sul territorio della cittadinanza.
Non c’è altro modo di immaginare una propria difesa se non all’interno di in un
mondo di diritti che sia mondo di diritti universale, dentro il quale io godo
di diritti solo perché sono un cittadino e non perché ti ho dato disponibilità
a fare il kapò. Devo avere dei diritti in quanto cittadino, uguale a te, dei
diritti che mettono, quindi, al sicuro; questa parola che noi sentiamo
costantemente ribadire: sicurezza, ci vuole più sicurezza, questa è una grande
truffa. La sicurezza c’è quando uno non ha paura, la sicurezza c’è nel momento
in cui uno dice: - “ Vado a casa, questa sera, e non dirò, a mia moglie, a mio
figlio, a mia nonna, a qualcuno, alla mia fidanzata o viceversa, non gli dirò,
guarda, gli e ne ho dette quattro e mi hanno messo fuori, adesso vediamo come
ci procuriamo il latte per domani mattina”. No, non gli dirò questo, perché non
ho bisogno di questo territorio. Ho, in quanto cittadino, un sistema di
garanzie che mi consentono di essere sicuro nel mondo, e, in quanto sicuro nel
mondo, anche attivo e responsabile. Allora assumerò, a questo punto, insieme a
un sistema di diritti di cittadinanza, insieme al diritto fondamentale fra
tutti i diritti di cittadinanza, che è il diritto ad un reddito, che è il
diritto a vivere realmente, assumerò anche la carta dei doveri e delle
responsabilità, una carta pesante perché chiede ancora di assumere
responsabilità a partire dalla cittadinanza, da sé ma anche dalla cittadinanza,
non c’è più il vicino, il “prossimo”. Il “prossimo” a cui eravamo abituati 20
anni fa, nei paesi, nella vita, erano la famiglia, gli amici, il mondo del
lavoro. Quel “prossimo” lì oggi non c’è più, il mio “prossimo” oggi si è
globalizzato come il mondo dentro il quale sto. Ciò che produce le mie
insicurezze a livello globale può essere il consiglio di amministrazione che
sta a Taiwan che decide di chiudere la fabbrichetta di Legnano perché non
produce a sufficienza, e la chiude, punto, ci sono le leggi per farlo: si
chiama “down sizing”, ridimensionamento d’azienda, è una cosa tecnica che si fa
ogni anno in qualunque consiglio di amministrazione: – “Quello lo chiudo,
quello lo apro, apro a Pechino”. I lavoratori non sono più sicuri qualunque
scambio simbolico facciano. Dare tutta la propria disponibilità non basta.
Questo è il regime dell’insicurezza che chiede una necessaria risposta di
produzione di sicurezza, di sicurezza intesa come diritti, diritti del cittadino,
di tutti i cittadini, diritti identici: diritto di reddito, diritto di
cittadinanza, e impegno, etico, ad affrontare per la prima volta la
responsabilità che noi abbiamo, si, nel mondo del lavoro, ma anche nel mondo
dei dispositivi che il mondo del lavoro eredita dalle istituzioni totali,
perché c’è anche qui una responsabilità di cittadinanza, anche nelle nostre
città ci sono nuovi campi di concentramento e ci sono centri di detenzione
temporanea, e le persone stesse che ci lavorano, come la Croce Rossa, non sanno
più dove mettere le mani, e dove mettere le parole, perché siamo al di fuori di
ogni diritto. Siamo in un territorio che, all’Università di Verona, Giorgio
Agagni, docente da moltissimi anni, insegna, e che è il capo fermo di un’aporia
del diritto romano, il territorio dell’assenza dei diritti, un territorio non
nuovo, un territorio che è stato, per tracciarne la genesi, inventato dagli
spagnoli, sull’isola di Cuba, ai tempi della guerra ispanoamericana, quando gli
spagnoli stavano perdendo ormai quei territori e gli americani stavano
occupando una serie di isole, tra queste Cuba. In quel periodo un generale
prussiano che collaborava con gli spagnoli inventò l’idea della carcerazione
preventiva e della deportazione, la inventò con un motivo molto semplice, un
motivo che veniva proposto così ai cittadini: - “Se tu vuoi evitare che io ti
consideri un nemico entra in questi campi di concentramento, se sei qui di tua
spontanea volontà non ti considererò un nemico, ti risparmierò la vita finché è
possibile”. Questo impianto l’avevano ripreso gli inglesi in sud Africa, nel
1890, nella guerra contro i Boeri e lo hanno applicato ai Boeri, i Boeri erano
dei coloni, come gli inglesi, che però erano arrivati prima, erano contadini,
la parola stessa boero significa “contadino”, contadini mandati a lavorare lì,
contadini calvinisti che venivano dall’Europa. Se non che alla fine dell’800 in
sud Africa si scoprono giacimenti diamantiferi e gli inglesi hanno avuto
interesse a prenderseli e allora hanno detto ai Boeri: - “Fuori dai piedi, via
da lì andate nella parte superiore del sud Africa. Non ci volete andare?”. Li
richiudevano nei campi di concentramento. Questa idea è stata poi copiata dagli
americani nelle Filippine ed è transitata alla fine degli anni ’30 in Germania,
è stata fatta propria da Hitler e dai suoi gerarchi del III Reich ed è
transitata in Italia dopo il ’38, tra il ’40 e il ’45. Questo è il percorso
rispetto al quale noi dobbiamo misurarci anche eticamente, perché non è vero
che questo tipo di istituzioni non appartiene alla storia di questa cultura, di
questa civiltà». « (…) in quella che si chiama Palestina, oggi, 1 milione e
mezzo è dentro un campo profughi. Dei 6-7 milioni di palestinesi, tutti gli
altri, quindi 3 o 4 milioni sono in campi profughi in Siria, in Libano o in
Giordania, e che un campo profughi è un campo circondato da un controllo
militare, che sarà siriano, sarà israeliano, non ha importanza qui definire
questo ma un campo profughi è un campo di internamento e le persone che
finiscono in un campo profughi non hanno fatto nulla salvo veder radere al
suolo la propria casa, salvo veder radere al suolo tutta la loro vita, di
lavoro e di affetti e di rapporto col loro territorio. Sono persone che si sono
trovate semplicemente in un luogo infelice della terra, in un luogo in cui
qualche potere ha deciso di fare “operazioni”, o strategiche o legate al
petrolio o legate all’importanza del territorio, non è qui importante trarre
delle analisi specifiche perché questo territorio è celebre a tutti e siccome è
celebre a tutti credo che sia bene trarre una lezione per ognuno di noi: tutti
non sono gli altri, tutti siamo noi, ognuno di noi è questo tutti. Ognuno di
noi deve in qualche modo prendere a suo carico la responsabilità di questo e nel
mondo del lavoro ma anche nella vita di cittadinanza…» «(…) il lavoro
interinale è nato in Italia recentemente ma ha una storia più lunga.
Interinale, tanto per essere chiari, (…) ci sono agenzie che prendono l’appalto
di mediazione del lavoro, un tipo di lavoro che in altri tempi si chiamava
caporalato. (…) il caporalato però non è il giusto termine di paragone, anche
se è un esempio che oggi viene fatto spesso, perché il caporalato era illegale
mentre qui siamo di fronte a una forma che è legalizzata, quindi molto più
pericolosa e in più una forma che si è andata via via sofisticando. In Francia
per esempio c’è stato un periodo di ricerca sul lavoro interinale perché è
stata suscitata dall’estensione degli spazi geografici di richiesta: - voi
sapete che possono affidarvi un lavoro anche molto lontano da dove si abita e
se ti affidano una “missione di lavoro” a 80Km, dove devi andarci con i tuoi
mezzi, dove magari lavori per 3 ore, rischi di spendere di più di quanto
guadagni. Tuttavia se tu non accetti di fare quel lavoro tu non lavorerai mai
più (…) se io ho un altro, a parità di disponibilità di lavoro io sceglierò
l’altro e comincerò a discriminarti». «Nella grande distribuzione di Milano, ne
parliamo anche ne L’azienda totale, ci sono della cassiere, interinali,
“nataline” le chiamano, quelle che lavorano solo nel periodo di Natale, che
spendono di più di quanto guadagnano in quel periodo, perché vengono
dall’hinterland. Fanno questo sperando di poter avere dopo, casomai, di nuovo
un lavoro più vicino a casa loro. Ciò ha determinato una serie di complicazioni
anche tragicomiche perché, per esempio, molte di queste “nataline” non
potendosi permettere il lusso, direi proprio a questo punto, di tornare a casa,
all’apertura e alla chiusura negli spezzati, rimaneva nel piazzale
dell’ipermercato, ma rimanendo dentro la macchina i clienti dell’ipermercato
confondevano, equivocavano e, quindi, c’era chi faceva proposte e allora
l’azienda ha mandato le guardie dicendo: - “No, non potete stazionare, in
attesa del turno serale qui sul piazzale perché i clienti si lamentano, date
una brutta impressione di questo ipermercato”. Ma l’uscire da quel piazzale
significava, a Milano, lo sapete tutti, siete di queste parti, significava
dover andare in un bar, da qualche parte, in un parco? Con tutte le
implicazioni che una ragazza, una signora possono avere in queste cose?» Il
pubblico domanda: Come è avvenuto questo processo, che ha strutturato e
organizzato un sistema del lavoro così come è oggi nel mondo occidentale, in così
relativamente poco tempo? Ci sono studi e analisi in merito? È una macchina
molto complessa, a mio avviso da tenere in piedi e mi chiedevo se in qualche
modo ci sono state regie o se è proceduto (…). Curcio risponde: «Questo è un
grosso problema, perché la genesi di questi dispositivi è stata guardata, viene
guardata in due modi diversi: un modo molto interessante lo ha segnalato Brian
Vittoria che è uno storico e allo stesso tempo è un praticante buddista-zen, un
maestro zen (lavora a Stanford, ha una cattedra lì, noi abbiamo tradotto un suo
libro La guerra e lo zen proprio per un interesse nel quadro della domanda che
lei ha fatto). Lui si pone un problema legato alla società giapponese: come è
stato possibile creare un adattamento, dopo Hiroshima e Nagasaki, dei
giapponesi all’industria giapponese e come è avvenuto questo miracolo? Lui
dimostra con documenti come il processo sia stato interessatissimo dalla guerra
e dalla figura del kamikaze. Una figura, quella del kamikaze, che si è formata
nei monasteri a partire da una dissociazione identitaria semplice che è a
fondamento di questa pratica: -“La tua identità, tu conti poco, conta nel
momento in cui sei espressione di una identità più ampia, più forte, più
profonda che è quella del monastero, dello zen”, che, con gli accordi che
fecero i monaci del monastero, divenne quella dell’esercito. I primi kamikaze
vengono tutti dai monasteri. Con Hiroshima e Nagasaki lo scontro tra l’esercito
americano e i kamikaze si interruppe e alcuni di questi non morirono e
tornarono nei monasteri dove furono richiamati alcuni anni dopo a fare gli
istruttori dei dirigenti industriali giapponesi. Si trattava di costruire una
figura d’identificazione. Identificare il lavoratore all’azienda, identificarlo
in una maniera molto solida, farlo diventare un tutt’uno: l’azienda deve
sopravvivere per sopravvivere bisogna che tutti diano il massimo. Questa
costruzione di un processo di identificazione, che tecnicamente si costruisce
con la psicologia di gruppo, ha avuto in Giappone un effetto da un lato solido,
ma ha avuto un effetto anche disastroso. Si è formata una sindrome che i medici
del lavoro di mezzo mondo hanno studiato, una sindrome di totale dedizione al
lavoro che spinge le persone fino a morire di superlavoro, si chiama “karoshi”,
nella lingua giapponese, questo fenomeno. Il “karoshi” diventò un problema
serio, molti dirigenti erano a tal punto identificati con l’azienda che
superavano tutte le soglie anche di auto-conservazione, un po’ come i kamikaze,
e morivano e, parallelamente, si formava nella società giapponese una figura di
quadro che si suicidava perché non riusciva a reggere i ritmi di lavoro di
questi dirigenti superidentificati. Questa è una delle radici che è passata in
America, io citavo la Wal-Mart, ma il suo presidente, il Gianni Agnelli della
Wal-Mart, è un uomo che agli inizi della sua carriera ha costruito un ponte con
la cultura giapponese, è andato in Giappone a studiare le tecniche aziendali e
le ha riportate nei negozi americani della Wal-Mart. Tenete presente che ancora
negli anni ’70 nella Wal-Mart era in uso la pratica di fare un training prima
di entrare in negozio e tutte le cassiere venivano messe in una stanza e si
faceva lo spelling collettivo del nome dell’azienda: - “Datemi una W” - e
tutti: – “W” – “Datemi una A” – e tutti: – “A” – “Datemi una L” – e tutti: –
“L” – e poi, siccome Wal-Mart ha un trattino, lì i capi dicevano: -“Datemi uno
scodinzolo”. E allora tutte le cassiere scodinzolavano, facevano training per 5
minuti e poi potevano andare a lavorare. Questa era una tecnica che era stata
presa dagli ambienti militari per la formazione di un gruppo solido e
indistruttibile. Questo oggi non ha più senso. Prima l’identificazione
dell’industria non post-bellica e quindi taylorista, fordista, durava nel tempo
e voleva, con i lavoratori, un rapporto casomai molto lungo, forse
conflittuale, violento anche, dispotico ma, stabile. Mio zio, per dire, faceva
l’operaio alla FIAT da quando aveva 18 anni a quando è andato in pensione, era
dei sindacati si batteva come poteva, come tutti, ma era sempre lì, era un
matrimonio monogamico quello tra l’azienda e il lavoratore, durava per anni,
per la vita, oggi invece, l’identità di cui ha bisogno l’Auchan è
un’identità-vestito, un’identità impermeabile, che tu usi e getti, deve essere
totale nelle ore di lavoro ma dura solo quel tempo lì, perché 5 minuti dopo tu
potresti non esserci più in quell’azienda. Il capo dell’Auchan che si è fatto
tatuare il simbolo dell’Auchan sul braccio, come facevano i dirigenti giapponesi
facendosi tatuare il simbolo dell’azienda, viene irriso dagli altri dipendenti,
perché, come dire, è un fenomeno nuovo, fuori tempo, lì si che tu devi essere
Auchan, e tutti i manuali d’istruzione ti dicono: - “Tu quando parli
dell’azienda devi poter dire io, noi, cioè non sei un’altra cosa, tu devi
essere totalmente lì, negli abiti, nel vestito, nel sorriso, ma devi esserci
come attore quello che voglio da te è un’identità che non è più identità forte.
Questo ha implicazioni terribili, come potete immaginare, perché è quella che
psichiatri e psicologi conoscono come “dissociazione”, cioè, ciò che si chiede
è un fenomeno dissociativo, un fenomeno che noi, lavorando sulle istituzioni
totali, conosciamo perfettamente, perché è il fenomeno dell’adattamento dei
reclusi alle richieste di conformazione che le istituzioni totali fanno per
poter concedere benefici, cioè: - “Se tu vuoi avere la semi-libertà, l’articolo
21, le telefonate premio o uno qualunque dei privilegi discrezionali, tu dovrai
corrispondere alla richiesta d’identità che ti viene fatta”. E non è una
richiesta d’identità, guardate bene, legata ai valori politici o religiosi, non
dipende dal fatto che tu sia musulmano piuttosto che cristiano, non ti si
chiede di diventare di destra se sei di sinistra, ma è la conformazione alla
norma: - “Io ti chiedo di venire all’appuntamento con lo psicologo, non è
importante poi ciò che vi direte, è importante che tu assuma questo stile di
vita nelle istituzioni”. Lo psicologo, una figura delle istituzioni, se ti
chiama tu devi corrispondere a questa richiesta, che poi è una conformizzazione
agli stili di vita delle istituzioni. Ciò in un carcere normale non presenta
grandi implicazioni, ma se prendiamo un manicomio giudiziario presenterà
implicazioni forti. Nel manicomio giudiziario, voi sapete, la pena è sospesa:
una persona che finisce in un manicomio giudiziario, per qualunque motivo, che
venga dal carcere o che venga messo dall’esterno, e viene condannato a 10 anni
di pena, mentre è nel manicomio giudiziario non sconta quei 10 anni, la pena è
sospesa, lui se sta 10 anni nel manicomio giudiziario inizierà la pena dopo.
Allora cosa succede? Chi è in un manicomio giudiziario e ci va, per esempio,
perché spera di avere la semi-infermità mentale partendo dal carcere e avere
una pena ridotta, scopre, quando è lì, che può rimanerci da un anno a tutta la
vita, non sa quanto ci rimarrà, perché sarà la commissione dei medici, degli
psichiatri, degli psicologi, degli educatori, del personale militare e del
personale civile a stabilire se lui può uscire dal manicomio giudiziario, se no
gli verrà riconfermato di tre anni in tre anni il periodo di cura, in gergo, i
reclusi dentro queste istituzioni la chiamano “la stecca”, perché quelli che
non la capiscono bene ci mettono tre, sei, nove anni e poi al nono anno
capiscono il problema. A quel punto cosa fa uno che ha capito il problema?
Tasta il polso dell’operatore: - “Io diventerò così come tu mi vuoi, però per
diventare così come tu mi vuoi devo sapere come tu mi vuoi, devo recitare bene
la parte perché tu sei anche un tecnico, sei uno abituato a lavorare in questo
tipo di istituzioni, è chiaro che non ti frego facilmente”. E allora nasce
questa partita di cui noi vediamo gli esiti disastrosi quando leggiamo sui
giornali: dopo 5 anni nel manicomio giudiziario viene rimesso fuori
perfettamente guarito e il giorno dopo uccide la moglie e i tre figli e che era
il suo progetto. Dall’identità del trattamento richiesta si dissocia, lui sta
da un’altra parte, lui è una persona che ha due identità. Questo processo sta
oggi crescendo nel mondo del lavoro: - “Io voglio che tu stia nel mondo del
lavoro così come ti voglio”. Tenete presente che se una ragazza fa una domanda
per entrare in un supermercato a fare la promozione della Nutella si scontrerà
proprio con questo dispositivo tecnico, le diranno: - “Quanto pesi? E no, pesi
troppo, noi abbiamo bisogno di una donna che abbia questo peso, questa taglia,
questa altezza, capirà, non possiamo mica fare la reclame della Nutella con una
ragazza sovrappeso. Qualunque cliente farebbe un’associazione del tipo se
mangio la Nutella divento così anch’io, ho bisogno di una taglia, quindi ti
compro il lavoro non perché tu sei un cittadino che ha bisogno di un lavoro,
per la tua professionalità e roba del genere, ma perché tu corrispondi al
modello di pubblicità aziendale che io ho costruito, così come io ti costruisco
la figura dell’anziano sulla porta dell’ipermercato, la Wal-Mart ha inventato
questa tecnica in modo da commuovere il cliente già dal primo passo, perciò
prendevano persone anziane, possibilmente molto scarnificate e le mettevano
sulla porta con una divisa a salutare i clienti, avevano stabilito che questa
tecnica produceva, siamo in un’epoca pre-tecnologica, siamo tra gli anni ’60 e
’70 e l’epoca tecnologica ha solo spostato il problema a una possibilità
tecnologica, se vi servite ai supermercati sapete che vi danno la carta di
fedeltà, una carta elettronica che quando pagate registra cosa voi avete
comprato, quanto latte, quanto prosciutto, burro, alla tessera “xyz”. Dopo 500
o 50 passaggi, in un semplice computer, io vi elaboro la stabilità dei vostri
gusti: - “50 passaggi e ti dirò se tutti i giorni compri le acciughe. A quel
punto ti mando, perché so dove abiti, una promozione mirata a casa, di acciughe
creata solo per te. Tecnologicamente faccio, per l’azienda, la cattura e la
produzione del cliente”. Questo per dire che le identità oggi devono essere
guardate come identità addomesticate, identità dissociate, identità catturate,
in forma non più chiara e che quindi questo modello giapponese, che è stato
quello su cui si è lavorato di più, tende a diventare valido solo in parte per
lasciare il posto a quest’altro terreno, quello che oggi è studiato e proposto
come livello elaborato di ricerca soprattutto da Bauman in alcuni lavori sulla
solitudine del cittadino moderno. Modernità Liquida è un libro pubblicato da
Laterza l’anno scorso (2002), è un bel lavoro sulle identità che lui chiama
“identità guardaroba” sia del lavoratore ma anche del cittadino, che vive un
problema molto serio perché noi, in realtà, quando incontriamo qualcuno sempre
meno sappiamo chi incontriamo, incontriamo “l’identità guardaroba” di
quell’incontro e quell’incontro può dare origine a degli equivoci, possiamo
avere sempre più identità articolate da giocare nei vari contesti, alcuni
ritengono che questa sia la condizione di sopravvivenza nella metropoli
strategicamente più efficace». Il pubblico domanda: «Volevo sapere questo: -
non è che ogni epoca storica è fatta di un equilibrio tra istituzione chiuse e
istituzione aperte, perché prima abbiamo parlato della nascita del carcere
all’inizio dell’epoca moderna, però, è anche vero, che prima della modernità
esistevano una serie di istituzioni che erano molto chiuse, tra cui la famiglia
e la chiesa, che non so se si possono chiamare totalizzanti, nel senso che lei
ha spiegato. Quindi mi chiedevo: - La modernità nasce da questo strappo? Da
questa rottura nei confronti di questo tipo di istituzioni? E quindi, questa
corsa in avanti ha probabilmente determinato tutti questi meccanismi e la
nascita di queste istituzioni totali, perché probabilmente siamo andati anche
troppo avanti nella rottura di queste istituzioni che poi si sono determinate
queste corse di chiusura, no? Quindi, mi chiedo, se è possibile una rilettura
della modernità e quindi un cambiamento e un equilibrio tra istituzioni chiuse
e istituzioni aperte, perché non penso che esistono società in cui tutte le
istituzioni siano istituzioni aperte». Renato Curcio risponde: «E’ una domanda
alla quale io non so dare risposta perché non c’è una risposta, è una domanda,
come dire, di carattere molto ampio ed esce un pò dal territorio su cui io
lavoro, ma quello che posso dire da un passaggio del suo discorso è che è molto
difficile vedere il passaggio anche dalla modernità alla modernità leggera come
un passaggio in cui certe istituzioni ordinarie sono diventate più libere.
Prendiamo proprio l’istituzione famiglia. Oggi non abbiamo più, in occidente
oppure in America, una forma dominante di famiglia, monogamica, la famiglia con
più figli, oppure la famiglia nucleare, abbiamo 400, 350 forme di famiglia
diverse e diverse istituzioni, ma se noi guardiamo i dispositivi tradizionali
tra le persone allora, certamente, ci troviamo davanti a nuovi dispositivi di
chiusura, ma di chiusura estremamente forte, rispetto al quale quella del
burqa, da altre parti, risulta essere una chiusura molto moderata. Prendete per
esempio il modo in cui vengono trattati i bambini nella società americana o
anche nella società occidentale, noi abbiamo pubblicato un bel libro di una
neuro-psichiatra infantile che si chiama Antonella Sapio, che è una donna che
ha fatto molto lavoro sul campo e che è anche una brava ricercatrice che alla
fine della sua carriera, si permette, potendoselo permettere, di pubblicare un
libro per dire: - “Io di bambini con problemi psichiatrici in tutta la mia
carriera non è ho incontrato mai neppure uno, ho incontrato un’infinità di
famiglie che mi hanno detto – Dottoressa mio figlio è troppo agitato che cosa
si può fare per calmarlo, mia figlia è troppo calma che cosa si può fare per
muoverla un pò”. Tutte le variabili dell’umano. Ora, che cosa ha verificato
Antonella Sapio? Che le istituzioni, epoca per epoca definiscono dei modelli di
normalità, degli stili di vita che si considerano stili rispetto a cui
conformizzarsi. Ciò che non viene però mai spostato, nelle varie epoche, è il
diritto alla non-conformità, che è un diritto essenziale, il diritto al non
essere conformi ad uno stile di vita che alcuni ritengono dominante, ed è qui
che nascono il razzismo, l’intolleranza, la persecuzione, la violenza: - “Io
non ti accetto così come tu sei, io non parto dall’idea che tu sei altro da me
e basta”. Stabilito questo punto di partenza, che è una caratteristica del
vivente, non dell’umano (il vivente si manifesta in tutte le sue forme
attraverso una proliferazione di varietà), allora solo a partire
dell’accettazione dell’impossibilità e della necessità anche di non farlo,
necessità etica di non conformarsi a dei modelli unici ma proporre modelli che
entrano in relazione tra di loro. Parto da così come sei, parto da così come
sono e immagino un percorso di comunicazione complesso. Se voi lavorate con
persone che hanno delle serie difficoltà di ordine psicologico, di ordine
psichiatrico, dovete per forza farlo. Se incontri una “statua di sale”, una
persona che è immobile da 15 anni e parti dall’idea che sia un residuo
manicomiale, con lui non entri in un rapporto, in realtà se tu metti una videocamera
che lo fissi per 6 mesi, vedrai che quest’uomo ha spostato la mano di tanto
così. Il suo tempo è completamente diverso dal tuo, dovrai entrare in una
relazione di tempi, partire da come è lui e da come sei tu e non decidere che
il tuo tempo è quello che va bene e se uno non si adatta lo scarti e lo
escludi. Il problema è il non porre a fondamento delle relazioni umane un
dispositivo di inclusione ed esclusione, ma porre, invece, un dispositivo
aperto di accettazione della alterità e di instaurazione di una dimensione di
dialogo tra le alterità, non hai altra via, perché se no chiudi i migranti,
appunto, nei centri di detenzione temporanea e cominci a pensare che sia giusto
bombardare l’Iraq o l’Afganistan perché là le donne hanno il turbante e non ti
poni il problema che qua le donne sono diventate il pretesto per vendere, le
cosce delle donne, sono diventate il pretesto per vendere saponette. Rispetto a
questo ci sarebbe da discutere rispetto ai valori etici, rispetto al tipo di
considerazione della donna che questa società presenta. Io ho una bambina di 7
anni, ad esempio, e ad aprire qualunque giornale, rotocalco, settimanale, non
ha più differenza dall’aprire un qualunque giornale pornografico, se non che il
giornale pornografico è pornografico, è, come dire, “un genere letterario”, se
uno vuole se lo prende e se lo guarda, sono problemi suoi, ma qua ormai
pornografico è diventato l’acquisto del profumo, l’acquisto della merce. Ci
giochi, con i bambini come con le donne e come con gli uomini, perché non c’è
più l’umano, è polverizzato. Questo come sistema di valori è meno totalizzante
rispetto a un altro? Io non lo so. Noi potremmo cominciare a immaginare di
riconoscere il diritto alla non conformità a chi ritiene che questo sistema di
valori non sia quello che fa per lui invece di pensare di bombardarlo, invece
di pensare che sia meglio sbarazzarsi dell’arretratezza che quella cultura
presenta. Io personalmente non credo che le culture siano più avanzate o più
arretrate, credo che questa sia una costruzione tecnica della scienza, la
scienza è un genere letterario e costruisce dei romanzi e dentro questo tipo di
romanzi costruisce anche delimitazioni, tempi, l’avanzato e l’arretrato ma
essendo il presente che lo costruisce ed è sempre una società che lo fa, siamo
sempre noi che diciamo: - “lì andava bene, li va male, questo è giusto e questo
è sbagliato”. Credo che ognuno abbia il diritto di fare queste operazioni, ci
mancherebbe altro, ognuno può fare la costruzione, la costruzione che vuole lui
del mondo, questo fa parte dei suoi percorsi di crescita e dei suoi percorsi di
esplorazione della vita, ciò che ha meno diritto di fare è però stabilire che
il presente sia, come dire, più libero o più liberato del passato, perché solo
guardo il presente con alcuni indicatori mi sgomento. Il presente è significato
Hiroshima, è significato Nagasaki, è significato che questa logica di Hiroshima
e Nagasaki è stata riproposta tranquillamente nel 1973 nella guerra tra
israeliani e egiziani. Voi sapete no? Sono ormai documenti pubblici che dopo
l’attacco egiziano e siriano a Israele, che aveva introdotto una supremazia
militare schiacciante, questi furono sopraffatti misteriosamente e il mistero è
stato svelato da Israele stesso, Israele minacciò di mandare la bomba atomica e
informò gli americani di questo, gli americani fecero un ponte aereo per
fornire l’aiuto che Israele voleva al fine di non utilizzare la bomba atomica
perché in quel momento avrebbe potuto significare la catastrofe. Oggi il
problema si ripropone, noi siamo anche questa civiltà, la civiltà di Auschwitz,
è la civiltà di Hiroshima, è la civiltà delle pulizie etniche che sono avvenute
e avvengono non solo fra etnie, è la civiltà della pulizia etnica nel Kossovo,
nella Serbia che è tutt’oggi in corso avviene sotto l’egida dell’esercito della
K-Force, della Nato. Quindi siamo dentro a situazioni rispetto alle quali viene
molto difficile secondo me dire che gli eserciti dei barbari erano più
arretrati di quelli. Possiamo solo stabilire dei dispositivi e cercare di
guardarli e che ogni epoca faccia il suo lavoro sui suoi sbagli».
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