Ma guarda un po’. L’ambasciatore israeliano allontanato a pedate da un convegno dell’Unione Africana sul genocidio del Ruanda. Motivo? La sua sola presenza offendeva la memoria delle vittime. Roba che nemmeno i peggiori bar di Caracas. Non perché l’uomo avesse detto qualcosa di inopportuno, non perché avesse sventolato la bandiera del Likud durante il minuto di silenzio. No. Era lì, con la sua faccia e la sua cravatta, ed era abbastanza. Fuori.
Ora, proviamo un piccolo esercizio di memoria, quella vera. Israele, nel
2021, ottiene lo status di osservatore all’Unione Africana dopo pressioni degne
di un’asta del Fantacalcio. Ma dura poco. Troppi Paesi africani non ci stanno.
Dicono: non possiamo celebrare la lotta contro l’apartheid e poi fare entrare
chi di apartheid è accusato. Non si può parlare di autodeterminazione con chi
bombarda i civili a Gaza come se fosse il tiro al piattello olimpico. Già,
Gaza. La parola che nessuno vuole pronunciare nei salotti buoni, ma che ad
Addis Abeba risuona forte come una condanna.
L’ambasciatore israeliano si chiama Avraham Neguise, discendente di ebrei
etiopi, e ironia della storia è stato scaricato proprio nella terra d’origine.
Una metafora? Una sceneggiatura scritta da qualche regista con il dente
avvelenato? Chissà. Ma se perfino l’Ua, quella stessa Ua che a volte si accorge
dei problemi con dieci anni di ritardo, decide che Israele non è gradito, un
motivo ci sarà. E no, non è l’antisemitismo: quello è il rifugio degli
ipocriti. Qui c’entra il genocidio. O meglio: due genocidi.
Quello del 1994, con 800.000 morti in Ruanda, e quello che molti – anche in
Africa – accusano oggi di essere in corso a Gaza. Due eventi che non si possono
mettere sullo stesso piano? Vero. Ma si possono mettere nella stessa stanza, se
la memoria ha senso. E la memoria, in teoria, serve proprio a questo: a
impedire che certi orrori si ripetano. Non a decidere chi può parlarne e chi
no, in base al passaporto.
E invece eccoci qui, con le delegazioni africane che insorgono, i lavori
sospesi, e i tweet indignati di Hamas che plaudono alla “decisione coraggiosa”.
E qualcuno dirà: ma allora siamo d’accordo con Hamas? No, siamo d’accordo con
la coerenza. Che è merce rara. Mentre qui, da noi, la coerenza sta come un
pasticcino in un’assemblea Weight Watchers.
L’episodio ha del tragico ma anche del farsesco. Perché mostra due cose:
primo, che l’isolamento internazionale di Israele cresce, nonostante la
propaganda da salotto; secondo, che la diplomazia africana, quella tanto
snobbata in Europa, non si piega al politicamente corretto quando in gioco c’è
la dignità. E magari, dico magari, se l’Europa avesse la metà della spina
dorsale dell’Ua su questi temi, oggi non ci troveremmo a giustificare
l’ingiustificabile con la solita retorica dei “diritti di Israele”.
Ma tranquilli, domani un giornalone titolerà: “Antisemitismo in Africa”. E
tutto tornerà a posto. Tranne la memoria. Quella resta selettiva, come sempre.
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