martedì 15 aprile 2025

Beni confiscati alle mafie

 

Beni confiscati alle mafie, lo Stato vuole i privati - Giulio Cavalli

Non è un accordo tecnico. È una svolta politica. E chi da trent’anni lavora per strappare beni alle mafie e restituirli alla collettività lo ha capito subito. Il 4 aprile, Cnel, Ministero delle Imprese e del Made in Italy e Anbsc hanno firmato un’intesa che introduce la possibilità di cedere a titolo oneroso terreni e immobili confiscati alla criminalità organizzata. Una rivoluzione rispetto al principio cardine della legge: restituire alla società ciò che è stato sottratto con la violenza e la corruzione.

A denunciare il rischio sono le associazioni che hanno fatto della giustizia sociale un impegno quotidiano: Libera, Cgil, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico, Forum del Terzo Settore Legacoop. In una lettera indirizzata agli enti firmatari, si chiede di fermare una deriva che potrebbe riportare i beni confiscati dentro logiche privatistiche. Dopo trent’anni di sperimentazioni virtuose, cooperative, progetti di inclusione e impresa sociale, viene proposto un modello che guarda al mercato, non alla collettività.

La privatizzazione come scorciatoia

Il testo dell’accordo, come osservano le associazioni, accorpa due categorie profondamente diverse: i beni aziendali e gli immobili confiscati. In questo modo, la possibilità dell’affitto o della vendita non viene più relegata a extrema ratio ma assume contorni di prassi. Una semplificazione pericolosa, che rischia di aprire alla privatizzazione anche dei beni immobili, con il risultato di svuotare di senso il riutilizzo sociale come strumento di contrasto alle mafie.

Non solo. Il documento stabilisce che, per le aziende confiscate, la strada principale debba essere l’affitto oneroso, mentre l’assegnazione in comodato ai lavoratori diventa una soluzione secondaria. Una gerarchia che rovescia il principio di partecipazione attiva e penalizza chi avrebbe gli strumenti e le motivazioni per dare continuità a un’attività produttiva nel rispetto della legalità. Nessuna chiarezza, inoltre, sulla destinazione dei ricavi o sulla gestione futura. Si parla genericamente di “società miste”, ma senza definizioni, senza garanzie, senza trasparenza.

Cosa prevede la legge

L’impianto della legge 109/96, nata da una proposta di Libera e dalla volontà collettiva di una società che rifiutava il potere mafioso, viene disatteso. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati non è un dettaglio procedurale, ma un segnale politico, un risarcimento simbolico, uno strumento concreto di giustizia redistributiva. È ciò che ha permesso, negli anni, la nascita di aziende agricole su terreni un tempo controllati dai clan, cooperative in immobili appartenuti a corrotti, centri di accoglienza in ex ville di boss. È lì che la cultura della legalità ha preso forma e sostanza.

Le associazioni chiedono di riaprire il confronto. Di convocare gli organi già previsti – il Comitato consultivo dell’Anbsc e il Forum “Imprese e legalità” del Cnel – e di costruire un tavolo con il Terzo settore, i sindacati, i rappresentanti degli enti locali. Perché sono i territori a conoscere il valore reale di quei beni. Sono le comunità, e non il mercato, a poterne fare un uso giusto. Servono procedure di co-programmazione e co-progettazione che rimettano al centro la funzione pubblica dei beni sottratti alla criminalità.

Smantellare tutto questo in nome dell’efficienza o della redditività significa cedere sul piano politico prima ancora che amministrativo. Significa restituire ai privati ciò che era stato tolto alle mafie per essere ridato ai cittadini. Una resa, mascherata da modernizzazione. E questa volta, chi resiste, ha dovuto scriverlo nero su bianco.

da qui

 

 

Confisca ai mafiosi: in Europa è gradita, in Italia è osteggiata - Luca Tescaroli


Sono passati circa 43 anni da quando venne approvata il 13 settembre 1982 la proposta di legge (Rognoni-La Torre), che introdusse, fra l’altro, la confisca di prevenzione (preceduta dal sequestro) per la criminalità organizzata di tipo mafioso. Una confisca che – mirando a rimuovere i beni di origine illecita dalla circolazione economica, con o senza una precedente condanna penale – rappresentò una rivoluzione copernicana. Quell’idea si nutrì del contributo del Consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici, assassinato con un’autobomba il 29 luglio 1983, che l’aveva suggerita e condivisa con Pio La Torre, il quale con tenacia l’aveva portata avanti, tant’è che i mafiosi decisero di ucciderlo il 30 aprile 1982. Questa misura ha fattivamente contribuito all’erosione delle enormi ricchezze accumulate dalla criminalità organizzata e ha rappresentato una spina dolorosa nel fianco dei corleonesi, che hanno mirato a farla eliminare con le stragi del biennio 1993-1993, pretendendo, fra l’altro, la sua abolizione in cambio della cessazione dello stragismo.

Quel modello normativo nel corso degli anni è stato esteso anche a forme diverse di criminalità rispetto a quella mafiosa. Sebbene l’originaria normativa abbia subito modifiche significative, la misura ha trovato un crescente consenso internazionale. Di recente, il sistema italiano della confisca di prevenzione è stato assunto come ‘modello’ dal legislatore europeo nell’ambito dell’Unione e il 13 febbraio 2025 è intervenuta un’importante sentenza della Corte dei Diritti dell’Uomo che ha riconosciuto la piena legittimità della confisca con la normativa europea, rigettando i molteplici ricorsi avanzati, stabilendo che può essere applicata nei confronti di beni di presunta origine illecita con la finalità di impedire l’arricchimento ingiusto. I giudici di Strasburgo hanno sottolineato l’importanza di due requisiti che ne condizionano l’applicabilità elaborati dalla giurisprudenza italiana: uno è quello della c.d. correlazione temporale, secondo cui la misura può essere applicata solo nei confronti di beni acquisiti dall’individuo durante il periodo in cui avrebbe presumibilmente commesso reati comportanti profitti illeciti; l’altro è quello elaborato dalla Corte costituzionale, in forza del quale la misura è giustificata solo nella misura in cui i reati presumibilmente commessi dall’individuo in questione siano fonte di profitti illeciti, per un importo ragionevolmente congruo con il valore dei beni da confiscare. Una decisione che rappresenta dunque un arresto rassicurante circa la conformità di tale modello di non-conviction based confiscation rispetto ai canoni garantistici e che produce un effetto deterrente legato al messaggio che la confisca è in grado di lanciare, e cioè che il crimine non paga.

Si è così venuta a creare una situazione paradossale: all’estero la confisca di prevenzione viene mutuata, mentre nel nostro paese si assiste a una continua campagna di demonizzazione dell’istituto, che vede in prima linea media politicamente orientati, l’Unione delle Camere penali ed esponenti delle università, tutti portatori di una diversa sensibilità rispetto alla pericolosità del patrimonio illecitamente accumulato. Eppure, la criminalità mafiosa conserva la sua pericolosità, si sono affermati gruppi criminali stranieri di straordinaria pericolosità (cinesi, albanesi e nigeriani), la corruzione e la criminalità economica si diffondono in modo continuo.
Se l’attacco all’istituto in sede europea è stato per ora respinto, si rimane in attesa della decisione di un altro delicato caso portato all’attenzione di Strasburgo: quello oggetto del ricorso “Cavallotti c. Italia”, in cui dovrà essere affrontato – tra gli altri – il delicato tema dell’ammissibilità di esiti divergenti tra processo penale e di prevenzione, potendo il secondo concludersi con l’applicazione della misura anche a fronte di un’assoluzione nel merito in sede penale.

da qui

 

 

Preoccupazioni sul tema della destinazione dei beni confiscati

 

Le associazioni scrivono all'ANBSC, CNEL e MIMIT per esprimere perplessità sulla gestione dei beni sottratti alla criminalità.

 

Libera insieme a Cgil, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico, Forum Terzo Settore, Legacoop ha inviato una lettera all’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati, al CNEL e al Ministero delle Imprese e del Made in Italy per esprimere perplessità e preoccupazione rispetto all’ Accordo sul tema della destinazione dei beni confiscati alle mafie e alla corruzione.

Molte le ragioni di preoccupazioni:

  •  La prima, e quella più evidente, riguarda una confusione di fondo tra beni immobili in generale e beni riconducibili ad aziende sottoposte a confisca. Riteniamo che accorpare queste due diverse categorie di confisca rischi di allargare l’approccio privatistico anche ai beni immobili, per i quali l’affitto oneroso e la vendita devono rimanere l’extrema ratio.
  • In secondo luogo “Prevedere che per le aziende la via prioritaria debba ritenersi l’affitto a titolo oneroso e solo secondariamente l’assegnazione in comodato a lavoratori dipendenti della stessa rappresenta una inspiegabile inversione di priorità. 

La legge sul riuso a fini sociali dei beni confiscati è chiara e per questo chiediamo “che si riattivino gli organi consultivi già esistenti, come il Comitato Consultivo dell’ANBSC e ilForum “Imprese e legalità del CNEL”, in un tavolo di lavoro allargato al terzo settore e volto a garantire il riuso sociale come strumento cardine della lotta alle mafie e alla corruzione.

Allo stesso tempo, chiediamo che gli enti locali possano mantenere centralità nella filiera di destinazione, come la normativa antimafia richiede, e che le procedure di co-progettazione e co-programmazione richiamate siano al centro dell’operato, per attivare energie produttive dal basso, che possano riportare sviluppo ed economia sul territorio interessato”

Scarica la lettera completa128 KB - [PDF]

da qui

 

 

Raccontiamo il Bene 2025

La nuova edizione del Report sul Riutilizzo Sociale dei Beni Confiscati alle Mafie

 

In occasione dell'anniversario della Legge n. 109/96 (il 07 marzo) che regola il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie, presentiamo la nuova edizione del report “Raccontiamo il Bene”. Un'occasione per fare il punto su come l’Italia ha saputo reagire alla presenza mafiosa e si è riappropriata dei propri spazi, creando un modello di cambiamento e speranza.

Scarica il report

 

Oggi, sono 1.132 i soggetti della società civile impegnati nella gestione dei beni confiscati, con oltre 600 associazioni,30 scuole di ogni ordine e grado e numerosi gruppi locali che utilizzano questi beni per creare nuove opportunità e un'economia positiva. Queste realtà stanno trasformando gli spazi confiscati in luoghi di aggregazione, cultura e welfare, contribuendo a tessere un tessuto sociale più forte e resiliente.

Rispetto all'anno scorso, il numero di soggetti coinvolti è aumentato del 6,2%, con una presenza attiva in 398 comuni (contro i 383 del 2024). La Sicilia resta la regione con il maggior numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati (297 soggetti), seguita da Campania (186), Lombardia (159) e Calabria (147).

Libera ha mappato anche le tipologie di beni gestiti:

  • Il 56,5% degli immobili ospita attività legate a welfare e politiche sociali.
  • Il 26% è dedicato a cultura, turismo sostenibile e promozione del sapere.
  • Il 10% è utilizzato per progetti legati all’agricoltura e all’ambiente…

continua qui

Nessun commento:

Posta un commento