Beni confiscati alle mafie, lo Stato vuole i privati - Giulio Cavalli
Non è un accordo tecnico. È una svolta politica. E chi da trent’anni lavora per strappare beni alle mafie e restituirli alla collettività lo ha capito subito. Il 4 aprile, Cnel, Ministero delle Imprese e del Made in Italy e Anbsc hanno firmato un’intesa che introduce la possibilità di cedere a titolo oneroso terreni e immobili confiscati alla criminalità organizzata. Una rivoluzione rispetto al principio cardine della legge: restituire alla società ciò che è stato sottratto con la violenza e la corruzione.
A denunciare
il rischio sono le associazioni che hanno fatto della giustizia sociale un
impegno quotidiano: Libera, Cgil, Legambiente, Arci, Avviso
Pubblico, Forum del Terzo Settore e Legacoop.
In una lettera indirizzata agli enti firmatari, si chiede di fermare una deriva
che potrebbe riportare i beni confiscati dentro logiche privatistiche.
Dopo trent’anni di sperimentazioni virtuose, cooperative, progetti di
inclusione e impresa sociale, viene proposto un modello che guarda al mercato,
non alla collettività.
La
privatizzazione come scorciatoia
Il testo
dell’accordo, come osservano le associazioni, accorpa due categorie
profondamente diverse: i beni aziendali e gli immobili confiscati. In questo
modo, la possibilità dell’affitto o della vendita non viene più relegata
a extrema ratio ma assume contorni di prassi. Una semplificazione
pericolosa, che rischia di aprire alla privatizzazione anche dei beni
immobili, con il risultato di svuotare di senso il riutilizzo sociale come
strumento di contrasto alle mafie.
Non solo. Il
documento stabilisce che, per le aziende confiscate, la strada principale debba
essere l’affitto oneroso, mentre l’assegnazione in comodato ai
lavoratori diventa una soluzione secondaria. Una gerarchia che rovescia il
principio di partecipazione attiva e penalizza chi avrebbe gli strumenti e le
motivazioni per dare continuità a un’attività produttiva nel rispetto della
legalità. Nessuna chiarezza, inoltre, sulla destinazione dei ricavi o sulla
gestione futura. Si parla genericamente di “società miste”, ma senza
definizioni, senza garanzie, senza trasparenza.
Cosa prevede
la legge
L’impianto
della legge 109/96, nata da
una proposta di Libera e dalla volontà collettiva di una società che rifiutava
il potere mafioso, viene disatteso. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati
non è un dettaglio procedurale, ma un segnale politico, un risarcimento
simbolico, uno strumento concreto di giustizia redistributiva. È ciò che ha
permesso, negli anni, la nascita di aziende agricole su terreni un tempo
controllati dai clan, cooperative in immobili appartenuti a corrotti, centri di
accoglienza in ex ville di boss. È lì che la cultura della legalità
ha preso forma e sostanza.
Le
associazioni chiedono di riaprire il confronto. Di convocare gli organi già
previsti – il Comitato consultivo dell’Anbsc e il Forum “Imprese e legalità”
del Cnel – e di costruire un tavolo con il Terzo settore, i sindacati, i
rappresentanti degli enti locali. Perché sono i territori a conoscere il valore
reale di quei beni. Sono le comunità, e non il mercato, a poterne fare un uso
giusto. Servono procedure di co-programmazione e co-progettazione che rimettano
al centro la funzione pubblica dei beni sottratti alla criminalità.
Smantellare
tutto questo in nome dell’efficienza o della redditività significa cedere sul
piano politico prima ancora che amministrativo. Significa restituire ai privati
ciò che era stato tolto alle mafie per essere ridato ai cittadini. Una resa,
mascherata da modernizzazione. E questa volta, chi resiste, ha dovuto scriverlo
nero su bianco.
Confisca ai mafiosi: in Europa è gradita, in Italia è osteggiata - Luca Tescaroli
Sono passati circa
43 anni da quando venne approvata il 13 settembre 1982 la proposta di legge
(Rognoni-La Torre), che introdusse, fra l’altro, la confisca di prevenzione
(preceduta dal sequestro) per la criminalità organizzata di tipo mafioso. Una
confisca che – mirando a rimuovere i beni di origine illecita dalla
circolazione economica, con o senza una precedente condanna penale –
rappresentò una rivoluzione copernicana. Quell’idea si nutrì del contributo del
Consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici, assassinato con un’autobomba
il 29 luglio 1983, che l’aveva suggerita e condivisa con Pio La Torre, il quale
con tenacia l’aveva portata avanti, tant’è che i mafiosi decisero di ucciderlo
il 30 aprile 1982. Questa misura ha fattivamente contribuito all’erosione delle
enormi ricchezze accumulate dalla criminalità organizzata e ha rappresentato
una spina dolorosa nel fianco dei corleonesi, che hanno mirato a farla
eliminare con le stragi del biennio 1993-1993, pretendendo, fra l’altro, la sua
abolizione in cambio della cessazione dello stragismo.
Quel modello
normativo nel corso degli anni è stato esteso anche a forme diverse di
criminalità rispetto a quella mafiosa. Sebbene l’originaria normativa abbia
subito modifiche significative, la misura ha trovato un crescente consenso
internazionale. Di recente, il sistema italiano della confisca di prevenzione è
stato assunto come ‘modello’ dal legislatore europeo nell’ambito dell’Unione e
il 13 febbraio 2025 è intervenuta un’importante sentenza della Corte dei
Diritti dell’Uomo che ha riconosciuto la piena legittimità della confisca con
la normativa europea, rigettando i molteplici ricorsi avanzati, stabilendo che
può essere applicata nei confronti di beni di presunta origine illecita con la
finalità di impedire l’arricchimento ingiusto. I giudici di Strasburgo hanno
sottolineato l’importanza di due requisiti che ne condizionano l’applicabilità
elaborati dalla giurisprudenza italiana: uno è quello della c.d. correlazione
temporale, secondo cui la misura può essere applicata solo nei confronti di
beni acquisiti dall’individuo durante il periodo in cui avrebbe presumibilmente
commesso reati comportanti profitti illeciti; l’altro è quello elaborato dalla
Corte costituzionale, in forza del quale la misura è giustificata solo nella
misura in cui i reati presumibilmente commessi dall’individuo in questione
siano fonte di profitti illeciti, per un importo ragionevolmente congruo con il
valore dei beni da confiscare. Una decisione che rappresenta dunque un arresto
rassicurante circa la conformità di tale modello di non-conviction
based confiscation rispetto ai canoni garantistici e che produce un
effetto deterrente legato al messaggio che la confisca è in grado di lanciare,
e cioè che il crimine non paga.
Si è così venuta a
creare una situazione paradossale: all’estero la confisca di prevenzione viene
mutuata, mentre nel nostro paese si assiste a una continua campagna di
demonizzazione dell’istituto, che vede in prima linea media politicamente orientati,
l’Unione delle Camere penali ed esponenti delle università, tutti portatori di
una diversa sensibilità rispetto alla pericolosità del patrimonio illecitamente
accumulato. Eppure, la criminalità mafiosa conserva la sua pericolosità, si
sono affermati gruppi criminali stranieri di straordinaria pericolosità
(cinesi, albanesi e nigeriani), la corruzione e la criminalità economica si
diffondono in modo continuo.
Se l’attacco all’istituto in sede europea è stato per ora respinto, si rimane
in attesa della decisione di un altro delicato caso portato all’attenzione di
Strasburgo: quello oggetto del ricorso “Cavallotti c. Italia”, in cui dovrà
essere affrontato – tra gli altri – il delicato tema dell’ammissibilità di
esiti divergenti tra processo penale e di prevenzione, potendo il secondo
concludersi con l’applicazione della misura anche a fronte di un’assoluzione
nel merito in sede penale.
Preoccupazioni
sul tema della destinazione dei beni confiscati
Le associazioni scrivono all'ANBSC, CNEL e MIMIT per esprimere perplessità
sulla gestione dei beni sottratti alla criminalità.
Libera insieme a Cgil, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico, Forum
Terzo Settore, Legacoop ha inviato una lettera all’Agenzia dei
beni sequestrati e confiscati, al CNEL e al Ministero
delle Imprese e del Made in Italy per esprimere perplessità e
preoccupazione rispetto all’ Accordo sul tema della destinazione dei beni
confiscati alle mafie e alla corruzione.
Molte le ragioni di preoccupazioni:
- La prima, e quella più
evidente, riguarda una confusione di fondo tra beni immobili in
generale e beni riconducibili ad aziende sottoposte a confisca. Riteniamo
che accorpare queste due diverse categorie di confisca rischi di allargare
l’approccio privatistico anche ai beni immobili, per i quali
l’affitto oneroso e la vendita devono rimanere l’extrema ratio.
- In secondo luogo “Prevedere che
per le aziende la via prioritaria debba ritenersi l’affitto a titolo
oneroso e solo secondariamente l’assegnazione in comodato a lavoratori
dipendenti della stessa rappresenta una inspiegabile inversione di
priorità.
La legge sul riuso a fini sociali dei beni confiscati è chiara e per questo
chiediamo “che si riattivino gli organi consultivi già esistenti, come
il Comitato Consultivo dell’ANBSC e ilForum “Imprese e legalità del CNEL”,
in un tavolo di lavoro allargato al terzo settore e volto a garantire il
riuso sociale come strumento cardine della lotta alle mafie e alla corruzione.
Allo stesso tempo, chiediamo che gli enti locali possano mantenere centralità
nella filiera di destinazione, come la normativa antimafia richiede, e che
le procedure di co-progettazione e co-programmazione richiamate siano al centro
dell’operato, per attivare energie produttive dal basso, che possano riportare
sviluppo ed economia sul territorio interessato”
Scarica la lettera completa128 KB - [PDF]
Raccontiamo il Bene 2025
La nuova edizione del Report sul Riutilizzo Sociale dei Beni Confiscati
alle Mafie
In occasione dell'anniversario della Legge n. 109/96 (il
07 marzo) che regola il riutilizzo pubblico e sociale dei beni
confiscati alle mafie, presentiamo la nuova edizione del report “Raccontiamo
il Bene”. Un'occasione per fare il punto su come l’Italia ha saputo
reagire alla presenza mafiosa e si è riappropriata dei propri spazi, creando un
modello di cambiamento e speranza.
Oggi, sono 1.132 i soggetti della società civile impegnati
nella gestione dei beni confiscati, con oltre 600 associazioni,30
scuole di ogni ordine e grado e numerosi gruppi locali che utilizzano
questi beni per creare nuove opportunità e un'economia positiva. Queste realtà
stanno trasformando gli spazi confiscati in luoghi di aggregazione, cultura e
welfare, contribuendo a tessere un tessuto sociale più forte e resiliente.
Rispetto all'anno scorso, il numero di soggetti coinvolti è aumentato
del 6,2%, con una presenza attiva in 398 comuni (contro
i 383 del 2024). La Sicilia resta la regione con il maggior
numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati (297 soggetti), seguita
da Campania (186), Lombardia (159) e Calabria (147).
Libera ha mappato anche le tipologie di beni gestiti:
- Il 56,5% degli
immobili ospita attività legate a welfare e politiche sociali.
- Il 26% è
dedicato a cultura, turismo sostenibile e promozione del sapere.
- Il 10% è
utilizzato per progetti legati all’agricoltura e all’ambiente…
Nessun commento:
Posta un commento