mercoledì 28 febbraio 2018

L’Ambasciata, l’elemosina ed il BDS – Gianni Lixi




“…il mondo mi ha fatto l’elemosina. Mi ha dato farina, vestiti, tende a me ed ai miei figli mai nati. Io in cambio gli ho dato la patria e la sicurezza.” Mahmud Darwish

In queste parole di uno dei più grandi autori del nostro secolo (Josè Saramago lo definisce il più grande poeta del mondo), prese da un racconto del 1973 “Diario di ordinaria tristezza”,  vedo condensata l’unica vera attività “politica” che le istituzioni internazionali  possono fare  per la Palestina ed il suo popolo: l’elemosina. L’UNHCR forse è messa un po’  in difficoltà dalle minacce di Trump, ma non c’è pericolo. La buona Europa è già pronta per coprire la cifra che Trump ha tolto all’agenzia. L’Europa continuerà a fare l’unica cosa che sa fare per i palestinesi: l’elemosina.
Era il 1973 quando Mahmud Darwish scriveva quelle parole e continua ad essere così oggi. L’unica cosa che è cambiata dal ’73 è la superficie della terra sotto i piedi dei palestinesi.  In un costante e continuo furto gli israeliani hanno occupato più dei 2/3 del territorio palestinese.  Non ci sono mai stati dei veri processi di pace, l’unico vero processo è il processo di occupazione di terre e di pulizia etnica. In ogni finto processo di pace a cui israele si è presentata non ha mai messo in discussione un solo centimetro di terra occupata. I finti processi di pace si devono sempre iniziare con lo status quo. Cioè con tutto quello che sono riusciti a rubare. Ora arriva Gerusalemme. Venerdì 23/02/18 l’accelerata Americana. Il trasferimento dell’ambasciata, e quindi il riconoscimento ufficiale di Gerusalemme come unica capitale israeliana, si farà non più in due anni ma in due mesi. A maggio , anche se il nuovo edificio non è ancora costruito. Nel consolato si stringeranno un po’. Questa accelerata è naturalmente a tutto vantaggio della traballante poltrona di Netanihau a causa di diverse accuse per frode. Non c’è comunque da stare allegri, chi vorrebbe prendere il suo posto è come lui e, se possibile,  peggio di lui.
A questo gravissimo atto, senza precedenti per le implicazioni del concetto di patria stessa che Gerusalemme ha  per tutti i palestinesi, come dovrebbero reagire questi ultimi? Con “rassegnazione”, con “tolleranza ”, cercando il “dialogo”. Abbas ha detto che non si siederà a nessun tavolo se israele dichiarerà Gerusalemme sua unica capitale. Ma continuerà a condannare ogni forma di resistenza del suo popolo.  E poi? Si dovrà continuare ad accettare “l’elemosina in cambio della patria”? Anche  le stesse UN riconoscono il diritto all’autodifesa del popolo occupato. Ma  quando uno sgangherato missile partito da Gaza cade sul territorio israeliano, i bombardamenti a tappeto israeliani cha fanno 2000 morti di cui 500 bambini,  sono politicamente accettati. Dico politicamente perché, al di là di innocue dichiarazioni di condanna sulle esagerazioni della risposta militare, non si è mai preso nessun tipo di provvedimento contro israele. Se un giovane si “suicida” buttandosi con un temperino contro altri giovani scafandrati che presidiano un check point in assetto di guerra e  che calpestano la sua terra, tutti i media lo chiamano terrorista. Non è un giovane resistente, un martire che sta difendendo la sua patria ma un “terrorista”.  “Gli stati hanno il diritto di uccidere i propri e gli altrui popoli, ma un individuo o un popolo non ha il diritto di combattere per la propria libertà” (Mahmud Darwish) . Con che cosa dovrebbe difendere la sua patria se altro non ha se non temperini, forbici e qualche volta una macchina da usare come arma? Con che cosa “il mondo” pensa che i palestinesi possano resistere all'occupante. Se avessero aerei, mitragliatrici, bulldozer, li chiamerebbero soldati, siccome hanno pietre, coltelli e forbici, li chiamano terroristi.
Con il cuore, con tutto il cuore mi auguro che non ci sia più bisogno di giovani che muoiono ne da una parte ne dall'altra. Con il cuore. Con la ragione no. Israele non andrà mai a trattare per fare concessioni di nessun tipo. L’unica possibilità e che lo si costringa. E per essere costretto bisogna obbligarlo. Sono solo due le possibili condizioni che possono obbligare Israele a sedersi in un tavolo e trattare davvero. La prima , la più pacifica, è l’isolamento internazionale soprattutto economico. Questa strada purtroppo si è dimostrata impercorribile. “Nel mondo” e prevalentemente nelle nazioni occidentali non c’è alcuna intenzione di punire israele. Anzi. Molti stati federali americani hanno promulgato leggi anti BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni); la Francia ha votato una legge anti BDS che ha già fatto le sue vittime tra i simpatizzanti del movimento BDS. La stessa Italia ha una legge già pronta ferma in un cassetto di qualche commissione parlamentare.
L’altra condizione è la paura. Se il popolo israeliano vivesse  nella paura di atti di resistenza sempre più numerosi che possono mettere in pericolo la vita spensierata e felice che conducono (secondo le statistiche è uno dei paesi più felici al mondo!) sarebbero loro stessi a rovesciare il sistema politico ed a cercarne un altro che garantisca un vero dialogo magari unendosi ai palestinesi per cercare di vivere meglio assieme. Non sto inneggiando alla violenza. Semmai alla resistenza contro la violenza dell’occupante sempre più sanguinaria e spavalda e non curante del diritto internazionale. Sto dicendo una cosa che molti pensano ma non vogliono ammettere.
Ma forse c’è qualcosa che può scardinare queste mie tristi certezze. La società civile. La società civile che spesso è stata capace di scardinare corsi storici ritenuti ormai ineluttabili. Se la società civile,  in ogni paese in ogni nazione, boicotta dal basso ogni prodotto, anche culturale, proveniente da Israele non si avrà bisogno di imbracciare i fucili. Questa rivoluzione pacifica che giorno dopo giorno sta crescendo si chiama BDS. Speriamo che funzioni perché l’alternativa è o altro sangue o la  svendita della patria  per un po’ di elemosina.


Perché svegli il mondo?”
“Questa non è la mia voce. E’ il tonfo del mio cadavere che cade a terra.”
“Perché non muori in silenzio?”
“Perché una morte in silenzio è una vita insignificante.”
“E una morte urlata?”
“E’ una causa.”
“Sei venuto a dichiarare la tua presenza?”
“Al contrario, sono venuto a dichiarare la mia assenza.”
“Perché uccidi?”
“Non uccido che l’omicidio. Non uccido che il crimine.”
“Vai all’inferno.”
“Vengo dall’inferno.”
Mahmud Darwish, autore e poeta Palestinese nato nel 1941 ad   al -Birwa  un villaggio Palestinese che non esiste più perchè raso al suolo dagli israeliani, morto a Houston – Texas nel 2008. Il brano è preso da “Diario di ordinaria tristezza” racconto poetico contenuto in “Una trilogia palestinese” edizioni economiche  Feltrinelli

POEMS – Gian Luigi Deiana

quando cominciai ad insegnare mi si diede una classe di seconda elementare in una scuola di un paese agricolo della sardegna meridionale; era un paesone in decadenza con molti bambini e quindi anche molti bocciati, e la mia era una classe di seconda elementare di tutti bocciati; poiché le classi differenziali erano oramai illegali la mia (che, oltre che differenziale di fatto, era ghettizzata fuori dall'edificio dei bambini normati e collocata in solitudine in piazza di chiesa) portava come giustificazione formale della sua strana differenzialità la possibile presenza del tracoma, una patologia oculare in realtà tramontata da tempo; non dico qui il nome del paese ma dico il nome di uno dei bambini, luca, perché devo riportare qua una delle composizioni più scombinate e meravigliose che mi sia mai capitato di leggere e di tenere nella memoria come un faro; purtroppo non ricordo qualche riga, in quanto sono passati quarantadue anni; ma a fianco del tema del mio piccolo luca riporto qui di seguito una strofa del grande bob dylan, che dedico all'ex capo dell'unione europea barroso testé passato al servizio della gang crim-nanziaria goldman sachs, balia girevole di tanta gente bella e brutta (per es. per l'italia mario draghi, gianni letta, romano prodi, mario monti ecc.); perché metto qui di fila il tema del mio piccolo bambino differenziato e la strofa del mio sgarbatissimo premio nobel? per una semplicissima ragione, perché sono io il padrone dei miei poemi ((suggerimento, m.heidegger, perché i poeti))

LUCA: "fuori paese ci vanno tutti, solo io non ci sono andato mai; però un giorno io anderò fuori paese e girerò, e poi un giorno muorirò e anderò alla bara e non tornerò mai più mai più; ma un giorno io mi sono svegliato fuori paese e c'era molta gente e pioveva; ho visto il pupazzo con il zucchero filato e il fuoco in bocca; io sono scemo."

BOB: "spero che moriate, e che la vostra morte venga presto, seguirò la vostra bara in un pallido pomeriggio, resterò a vedervi calare nel vostro letto di morte, e starò fermo sulla vostra tomba finché non sarò sicuro che siete morti":

e poi in un commento, più sotto, ancora Gian Luigi, baciato dalla poesia, scrive:
oh dio, maestro-poeta è una cosa che dà le vertigini, ma in realtà la vertigine è una cosa che possono provare tutti e allora si deve fare: ovvero, tutti sono poeti e tutti perdiamo l'unico vero tesoro che possediamo se imbavagliamo la poesia e tanto più se la costringiamo di forza nei canoni di scrittura: i canoni sono il vestito e più che spesso sotto il vestito vi è niente; allora cosa è una poesia? a bruciapelo risponderei come rispose una volta bob dylan, "una poesia è un uomo nudo"; poi risponderei con un testo del grande poeta pete sinfield che era l'autore dei testi del gruppo rock king crimson: un testo in cui l'uomo che era in orario chiese all'uomo che era in ritardo "dove sei stato", e questi risponde come il mio piccolo luca: "io sono stato qui, e sono stato là, e sono stato in mezzo"; dunque io g.l.d., come tutti, trovo la mia nuda salvezza nell'essere qui, là e in mezzo fra qui e là, fuori posto e fuori orario, laddove io e me siamo già in due; poiché la poiesis è una parola greca è bene sapere cosa significa: significa "fare", certamente non "fare" nel senso di fare la legna o aggiustare la bicicletta, ma "fare" il proprio stato d'animo, e poi eventualmente trovare le parole che lo possono vestire e che lo possono trasfigurare e farne una visione; ma scrivo queste righe, adesso, perché ho un debito altrettanto inestinguibile di quello che ho col mio piccolo luca: è il debito con la fotografia di un lupo artico; la fotografia è riportata nel libro di un naturalista dell'artico, di nome barry lopez e quel libro era intitolato "lupi"; nella foto, assolutamente imperfetta e scattata nella foschia sul bordo di un ruscello innevato, sono presenti un caribù esausto per la sua vana fuga e il lupo immobile di fronte a lui; il lupo spegne per un lungo istante l'aggressività connaturata alla sua necessità di caccia e ha lo sguardo rivolto a terra; la foto è stata scattata in quel tempo sospeso di immobilità dei due animali; nel testo barry lopez spiega che gli indiani chiamano questa condizione di reciproco rispetto e pudore "la preghiera della morte"; questa è secondo me la poesia più sublime cui un essere umano possa aspirare, quantunque l'autore di questa poesia non sia un uomo; ecco perché i saggi e i bambini vedono dio in quelle sembianze sfumate nella neve, e dovunque, qui, là, o in mezzo; ed ecco perché l'uomo che è prioritariamente "puntuale" non è in grado di vedere dio da nessuna parte, né di vedere l'uomo, né di fare (fare) se stesso.

John Oliver racconta la campagna elettorale


qui con sottotitoli in italiano

martedì 27 febbraio 2018

I clan calabresi dietro l’omicidio del giornalista Jan Kuciak. Papaleo: “So chi è stato”


Nell’omicidio del giornalista slovacco Jan Kuciak e della fidanzata spunta la pista della ‘Ndrangheta. Secondo Antonio Papaleo, un reporter italiano minacciato di morte per le sue inchieste, il movente del duplice omicidio sarebbe da ricercare nel lavoro che Kuciak stava realizzando sulle truffe compiute da società fantasma legate ad un imprenditore calabrese.

Spunta la pista della ‘Ndrangheta nell'omicidio di Jan Kuciak, il giovane giornalista slovacco assassinato insieme alla compagna all'interno del loro appartamento nella cittadina di Velka Maca, a 60 chilometri da Bratislava. A due giorni dalla scoperta dei corpi senza vita del reporter del giornale online Aktuality.sk e della fidanzata, si fa largo l’ipotesi che dietro al duplice omicidio ci sia la mano dell’organizzazione criminale calabrese.
Per saperne di più, Fanpage.it ha intervistato Antonio Papaleo, un giornalista italiano che ha vissuto per molti anni in Slovacchia. Papaleo è un reporter investigativo e sa cosa significhi ricevere minacce di morte. Nel 2014 è sopravvissuto ad un agguato in Thailandia, dove si era rifugiato per sfuggire alla vendetta dei criminali slovacchi finiti in galera dopo una sua inchiesta. Il giornalista, con una telecamera nascosta, aveva documentato il riciclaggio di denaro che da Bratislava portava i proventi di attività illecite fino alle banche di Hong Kong. Da allora è costretto a cambiare località ogni tre mesi per evitare di essere ucciso. Secondo Papaleo, nell'omicidio di Kuciak sarebbe coinvolto un imprenditore calabrese con decine di società nel Paese dell’Europa centrale.
Che idea si sei fatto dell’omicidio del reporter Jan Kuciak e della sua fidanzata?
Jan è il terzo giornalista slovacco la cui sorte è stata tragicamente segnata dall'impegno giornalistico. Anche Palo Richtar e Miroslav Pejko potrebbero aver pagato con la vita il loro coraggio. Le loro famiglie e l'intera società civile hanno diritto a sapere, al più presto, tutta la verità.
Quali piste stava seguendo Kuciak?
Si occupava di frodi erariali ed evasioni fiscali di grosso respiro ma lavorava in team, spesso anche con giornalisti di redazioni diverse. Era anche stato minacciato più volte e la polizia sarà ora sicuramente all'opera per rispolverare tutte le sue vecchie denunce. Sono certo che sarà molto facile elencare ed investigare tutti quelli che hanno avuto un vantaggio dalla morte di Kuciak. E'  probabile comunque che la pista investigativa prediletta dagli inquirenti sia proprio quella legata alle sue recentissime investigazioni su un discusso imprenditore calabrese.
Quali sono gli elementi che le fanno pensare che sia la ‘Ndrangheta il mandante dell’omicidio?
E' il capo della polizia slovacca a dire che investigherà come possibili mandanti tutti coloro sui quali Jan aveva lavorato in passato. Io ho solo rivelato per primo l’identità dell'imprenditore calabrese che Jan e Ivan (Ivan Brada, un giornalista della Tv di Stato slovacca, ndr) stavano investigando e di cui anche Tom Nicholson, il direttore del quotidiano slovacco Dennik N, era a conoscenza pur non rivelandone il nome: A. V. di Bova Marina.
In alcune società di A.V. figurano come soci anche esponenti politici e persino l’ex segretaria del primo ministro Fico. Quali sono le attività in Slovacchia di questo imprenditore calabrese?
Le attività di questo signore, che ho persino conosciuto personalmente nel corso delle mie inchieste sotto copertura in Slovacchia, sono state tantissime ma non hanno certo prodotto sviluppo od occupazione. Tuttavia le sue aziende hanno ricevuto importanti contributi finanziari dall'Unione Europea, hanno comprato e venduto ingenti beni ed hanno transato forti somme di danaro. Non posso io stabilire la legittimità dei suoi affari ma posso tranquillamente affermare che il sistema fiscale slovacco consente a disinvolti "imprenditori" di operare in un regime di relativa impunità.
Quali sono i settori economici slovacchi in cui la ‘Ndrangheta ha messo le mani?
L'Italia è il quarto partner commerciale della Slovacchia e migliaia di nostri connazionali operano stabilmente nel Paese. Il crimine organizzato contribuisce certamente ad alimentare il flusso degli investimenti complessivi operati dalla comunità italiana in Slovacchia e si concentra negli investimenti immobiliari e nell'acquisizione di proprietà terriere e demaniali.
Come fa la ‘Ndrangheta a realizzare le truffe sui finanziamenti europei?
Le truffe carosello sull’Iva e l'evasione fiscale sono le più produttive ma anche presentare un progetto ammesso a contributo e distrarne i fondi ricevuti per mezzo di fatture false o gonfiate è un modo per conseguire forti guadagni illeciti. Le organizzazioni criminali italiane, specialmente la ‘Ndrangheta, hanno i capitali e le risorse umane per costruire facilmente il castello necessario a realizzare questo tipo di artifici.
Nell'inchiesta sulla morte di Kuciak stanno emergendo anche i nomi di politici slovacchi di primo piano. Pensa che l’omicidio del reporter avrà delle ripercussioni politiche?
Sì. Tutti i governi slovacchi, sin dalla separazione dei due stati, non hanno mai preso in considerazione il contributo che la libertà di stampa offre alla democrazia. Questa è una colpa imperdonabile di tutti i politici slovacchi. La morte di Jan e Martina avrà il suo peso nel progresso etico e sociale del Paese.
Il primo omicidio di un giornalista nella storia della Slovacchia ha suscita molta commozione. “E’ incredibile che una cosa del genere sia successa nel nostro Paese – ha affermato il presidente della repubblica – dobbiamo velocemente trovare i colpevoli e garantire la sicurezza dei giornalisti”. E il primo ministro Fico ha promesso una ricompensa di un milione di euro a chiunque fornisca informazioni che contribuiscano all'arresto dell'assassino di Jan Kuciak e della fidanzata Martina Kusnírova.


Telesur intervista Noam Chomsky

Pochi giorni fa Telesur, la televisione latinoamericana voluta da Hugo Chavez, ha intervistato Noam Chomsky, probabilmente il più importante studioso di linguistica al mondo e lucido analista politico controcorrente, le cui riflessioni hanno sempre una certa risonanza soprattutto al di fuori dei mass media dominanti. Infatti, non mi risulta che i mass media internazionali abbiano dato molto risalto a questo suo ultimo intervento, pur avendo dedicato spazio ad interviste precedenti [1].
Chomsky ha esordito affermando che il potere degli Stati Uniti è dannoso all’umanità, ma che assicura tutti i vantaggi possibili all’oligarchia governante. Nella sua interessante analisi ha osservato che la politica statunitense si sviluppa attualmente su due livelli; da un lato, l’attenzione del mondo è focalizzata sulla figura di Donald Trump, che è un uomo di spettacolo, presentato come un pazzo e non sappiamo se cosciente del proprio ruolo. Se non si agisse in questo modo, se non si desse spazio a tutte le bugie che racconta attirando moltitudini, nessuno si preoccuperebbe di lui né gli presterebbe attenzione. Dall’altro, nello sfondo dietro le quinte, l’oligarchia, in particolare nella persona di Paul Ryan, presidente ultraconservatore della Camera dei rappresentanti, opera con sistematicità per smantellare quel che rimane dei diritti del lavoro, della protezione dei consumatori, della difesa dell’ambiente.
L'oligarchia repubblicana si preoccupa solo della borsa e non di due problemi fondamentali quali il riscaldamento della terra e la guerra nucleare, che provocherebbero lo sterminio dell'umanità e la fine della civiltà. Quest’ultima si realizzerà se non si rallenta il riscaldamento del globo terrestre o si scatena una guerra nucleare. Le azioni di Trump non fanno altro che acuire questi problemi, prefigurando da un lato una possibile guerra nucleare; dall’altro con la decisione unilaterale di ritirarsi dagli accordi di Parigi sul clima e con il non rispetto dei parametri stabiliti. Nel suo discorso annuale Trump ha parlato del carbone pulito, che è invece assai contaminante. Tutto ciò è accompagnato dai tagli agli investimenti alla ricerca sull’individuazione di fonti di energia rinnovabile.
Non bisogna cadere nell’errore di credere che queste scelte politiche – continua Chomsky – siano responsabilità del solo Trump; esse sono condivise da tutti gli esponenti più importanti del partito repubblicano, come per esempio Rex Tillerson, segretario di Stato e presidente della Exxon Mobile. Essi sono stati informati dagli scienziati che l’uso del petrolio ha effetti nocivi, e la cosa è di dominio pubblico da anni. D’altra parte, Trump conosce le conseguenze negative dell’impiego delle energie non rinnovabili e ciò è dimostrato dal fatto che ha costruito un muro per difendere i suoi numerosi campi da golf dal possibile innalzamento del livello del mare. Ciò nonostante i politici repubblicani non fanno niente, mostrando sostanzialmente di essere dei criminali, dal momento che continuano con le loro politiche dannose, perché da esse ricavano vantaggi economici.
Da queste considerazioni il linguista statunitense evince che il partito repubblicano costituisce l’organizzazione più pericolosa che è mai apparsa nella storia dell’umanità. Se arriviamo a compararli con la figura di Hitler, vedremo che questi non si proponeva di distruggere il futuro dell’esistenza umana (magari solo di una parte); invece, questi politici criminali perseguono apertamente questo fine, pur essendo persone istruite e non certo dei fondamentalisti religiosi, e al solo scopo di guadagnare sempre più [2].
Chomsky sottolinea che le sue considerazioni sono ispirate anche dagli scienziati, analisti politici e studiosi che fanno parte del Doomsday Club [3] che in un rapporto annuale stimato attraverso un’orologio metaforico il tempo che ci separa dalla completa distruzione della nostra civiltà (l’‘apocalisse’). Secondo questo orologio, che scorre avanti o indietro a seconda delle minacce in campo, mancherebbero nel 2018 solo 2 minuti all’evento irreparabile.
Quanto al potere oggi declinante degli Stati Uniti, il linguista statunitense afferma che esso raggiunse il suo culmine nel 1945, quando essi controllavano praticamente tutto il mondo. Molto rapidamente, però, il loro dominio cominciò a deteriorarsi. Nel 1949 la Cina si rese indipendente e si costituì come Repubblica Popolare, fatto che fu interpretato dagli Stati Uniti come la perdita del loro dominio mondiale, perché questo immenso paese non poteva più essere controllato. Nel dopoguerra l’Europa ricostruì la sua economia e la sua industria, il processo di decolonizzazione cambiò il volto del mondo. Negli anni ’70 gli Stati Uniti controllavano il 25% dell’economia mondiale. All’epoca il mondo era tripolare: le potenze economiche erano rappresentate dagli Stati Uniti in America, dalla Germania in Europa e dal Giappone in Asia, prima dell’emergere dell’economia cinese.
Dal punto di vista militare e tecnologico gli Stati Uniti sono oggi più avanzati degli altri paesi, mentre economicamente si stanno indebolendo, anche se a partire dagli anni ’90 con la cosiddetta globalizzazione neoliberale non è più opportuno parlare di potenza nazionale, ma bisogna tenere conto del potere effettivo delle corporazioni. Secondo uno studio condotto da scienziati, analisti politici e diplomatici quelle statunitensi sono padrone della metà del mondo e sono interamente intrecciate con lo Stato, che di fatto è da loro governato. Esse controllano tutti i settori: industria, finanza, commercio etc. Secondo il linguista statunitense queste trasformazioni dovrebbero suggerirci di ripensare la nostra nozione di potere e portarci alla conclusione che, nonostante il declino economico, gli Stati Uniti continuano a primeggiare mediante l’espansione delle loro corporazioni.
Quanto all’attività della CIA Chomsky ritiene che essa non agisca di sua iniziativa, ma che al contrario faccia esattamente ciò che gli viene ordinato e costituisca il braccio esecutivo del governo; in questo modo quest’ultimo ha la possibilità di scaricare su questa istituzione tutte le atrocità che accadono o gli errori commessi. Per questa ragione l’America Latina ha espulso i suoi agenti da venti anni. “Ricordo, per esempio, – continua Chomsky – che Rafael Correa affermò che gli Stati Uniti potevano mantenere la loro base militare in Ecuador, se avessero permesso al suo paese di costruirne una a Miami”.
Interessanti sono anche le riflessioni dello studioso statunitense sul concetto di ‘intervento umanitario’, che è il modo per giustificare ogni ingerenza aggressiva compiuta da una delle potenze mondiali, ovviamente non considerata tale dalle sue vittime. Menziona il bombardamento della Serbia del 1999 da parte della Nato, ossia degli Stati Uniti, giustificato con il fatto che si doveva poner termine alle atrocità compiute dai serbi contro gli albanesi, i quali d’altra parte organizzavano attentati terroristici in quel paese, proprio per sollecitarlo; bombardamento che di fatto scatenò tali atrocità, che perlopiù si verificarono dopo l’intervento.
Da questo momento il problema dell’intervento umanitario entrò nell’agenda internazionale e a questo proposito Chomsky riporta due importanti decisioni prese nell’ambito delle Nazioni Unite. Queste ultime formularono una risoluzione sulla necessità formale di proteggere i popoli dalle azioni aggressive e repressive dei loro governi, ma non militarmente. In secondo luogo, sempre su questo tema la Commissione presieduta dall’ex primo ministro australiano Gareth Evans (International Commission on Intervention and State Sovereignty, 2001) aggiunse un altro elemento: nel caso in cui il Consiglio di sicurezza non autorizzi l’ingerenza militare, organizzazioni regionali possono intervenire con la forza a difesa degli ‘oppressi’, richiedendo solo in seguito l’approvazione ONU. Qual è – si chiede Chomsky – l’unica organizzazione regionale in grado di intervenire in situazioni che richiedano l’uso della forza? La Nato ovviamente, ossia gli Stati Uniti. Pertanto, ciò significa che la Commissione Evans ha deciso che tali interventi solo legali, benché essi siano in contraddizione con quanto stabilito in termini generali dalle stesse Nazioni Unite.
Da questo punto di vista anche il bombardamento della Libia, che ha provocato il disgregamento di questo paese un tempo stabile e con un tenore di vita accettabile, può essere interpretato come un intervento umanitario volto contrastare la ferocia de Gheddafi. Richiamandosi a queste decisioni degli Stati Uniti, Chomsky osserva che la “responsabilità di proteggere” è diventata legale anche se implica azioni militari, e ciò è reso possibile dalle conclusioni cui è giunta la Commissione Evans, non dalla risoluzione dell’Assemblea generale riferita in precedenza. Ma il sistema di propaganda mette in risalto soltanto quanto deciso dalla Commissione per rendere accettabili e persino auspicabili le guerre, che in questo stesso momento si stanno combattendo in tanti paesi del mondo.
Aggiungo per concludere che questo dibattito sull’ingerenza umanitaria ricorda molto le secolari riflessioni sulla guerra giusta sviluppatesi nel seno della Chiesa cattolica, la quale alla fine l’ha considerata legittima come ultima ratio, come del resto confermano le parole di Papa Wojtyla: “Non sono un pacifista”.


Note:
[1] In una di queste dichiarava che, pur non apprezzando Putin, comprende la sua politica, perché la Russia è accerchiata e Clinton e Obama hanno chiesto all’Ucraina di entrare nella NATO. Si comporta come si comporterebbero gli Stati Uniti se il Messico avesse aderito al Patto di Varsavia.
[2] Sono fondamentalisti del profitto.
[3] Il club del giorno del giudizio universale o dell’apocalissi.

lunedì 26 febbraio 2018

Wim Wenders ricorda Fabrizio de André

Colpi di martello sui chiodi della bara: la lunga (non-)morte del TAV #Torino – Lione - Wu Ming 1


Chi segue le vicende della lotta No Tav in Val di Susa non si è affatto sorpreso nell’apprendere gli ultimi sviluppi. Sviluppi che i grandi giornali, i media mainstream, si sono ben guardati dal riportare. Per fortuna ne ha scritto su il manifesto il “nostro” Maurizio Pagliassotti, e da lì la notizia ha preso a circolare sui social, ripresa poi da molte testate indipendenti.
La presidenza del Consiglio dei ministri, in un documento ufficiale [PDF qui], riconosce il dato di realtà che economisti dei trasporti, esperti di logistica, ingegneri delle infrastrutture, fisici e altri tecnici e scienziati vanno spiegando da anni: il progetto della nuova linea Torino – Lione è basato su stime sbagliate e previsioni infondate.
In parole povere: la linea è completamente inutile.
Ripeto: chi segue la vicenda non si è affatto sorpreso. Benché farlo notare sia ritenuto poco fine, tutte le parti in causa sanno da tempo che quella linea non esisterà mai. A ventisette anni dai primi annunci, non se ne è ancora realizzato un solo centimetro (il buco in Val Clarea non è quello dove passerà il treno, ma un cunicolo geognostico); i francesi, dal canto loro, hanno fatto capire più volte che non gliene importa nulla, per la tratta di loro competenza non c’è nemmeno un progetto preliminare, dicono che inizieranno a pensarci«dopo il 2030».
Il progetto del 2004 fu ritirato dopo la riconquista della Libera Repubblica di Venaus, e quello attuale — surrealmente definito «low cost» — ha perso un pezzo dopo l’altro, ed è plausibile che tra poco si ridurrà al solo «tunnel di base» da Susa a Saint-Jean-de-Maurienne (un inutile traforo di 57 chilometri) e all’insensata e fuori scala «stazione internazionale» (?) a San Giuliano di Susa. Ci sarebbe anche da scavare un tunnel sotto la collina morenica tra Rivoli e Avigliana, ma hanno già detto che forse, chissà, non lo fanno più.
Merito della costante pressione della lotta No Tav, anche se il governo non può ammetterlo in nessun caso.
Due anni fa, quando il ministro Graziano Delrio annunciò la cancellazione di una delle tratte più controverse e contestate dal movimento, la cosiddetta «Gronda Nord» di Torino, la presentò come un’intuizione sua e dei suoi tecnici. Una «intelligente rivisitazione del progetto», disse.
Ogni movimento dal basso dev’essere raccontato come movimento dall’alto.
E quando diventa proprio impossibile non ammettere che il «basso» ha ragione, e ha avuto ragione per tutto il tempo, bisogna farlo annacquando il più possibile, aggiungendo fuffa e scaricando le responsabilità, dando la colpa alla «crisi» come se si stesse parlando del maltempo, invitando a scurdasse ‘o passato… Come nel caso in oggetto:
«Non c’è dubbio infatti che molte previsioni fatte quasi dieci anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica di questi anni che ha portato anche a nuovi obiettivi per la società, nei trasporti declinabili nel perseguimento di sicurezza, qualità, efficienza […] Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni, e nessuna persona di buon senso e in buona fede può stupirsi di ciò. Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni, a suo tempo assunte potevano essere diverse […]»
Il governo non sta dicendo: abbiamo sbagliato, avevate ragione, parliamone. Al contrario, sta dicendo: abbiamo sbagliato ma è ininfluente, perché abbiamo ragione lo stesso e non c’è altro da dire.
Infatti, subito dopo, si aggiunge che per poter continuare i lavori è necessario liberarsi «dall’obbligo di difendere i contenuti analitici delle valutazioni fatte anni fa».
In soldoni, la grande opera va sganciata da tutte le motivazioni sinora date per giustificarla. Motivazioni ormai insostenibili, perché troppe volte smontate, ormai pura zavorra discorsiva.

La conclusione è dunque: si va avanti. A dispetto di ogni realtà, si va avanti. E nemmeno questa è una novità.
Si va avanti perché «ormai».
Si va avanti perché, come scrivevamo già nel 2013, «ci sono soldi già stanziati e spesi, impegni da “rispettare”, appalti, subappalti, nomi e cognomi messi in gioco, mani che stringono scroti».
(Ciò vale anche per altri progetti insensati, come il Terzo Valico e il Tav Brescia-Verona, e in generale per quasi tutte le grandi opere in Italia: utili esclusivamente a chi ottiene gli appalti per costruirle, inutili per tutti gli altri; monumenti allo sperpero e alla deturpazione del territorio).

Si va avanti perché bisogna tenere in piedi la facciata.
Si va avanti perché, come ha detto a un processo, uno dei tantissimi processi celebrati contro i No Tav, un PM oggi in pensione:
«il danno grave per il paese [è] il rischio della libera determinazione della pubblica autorità che [sarebbe] in crisi. Perché lì è il rischio per l’istituto democratico, ed è lì che ovviamente anche se [il governo] la ritiene inutile c’è una questione più forte, perché significherebbe rinunciare al principio di democrazia e quindi l’opera deve andare avanti a costo di impiegare l’esercito per farla andare avanti.»
Infatti l’hanno impiegato.
Maddalena ha detto chiaro e tondo quello che altre figure di potere tengono sottaciuto: non è nemmeno più una questione economica, ma principalmente una questione di dominio sui territori.
Bisogna far vedere chi comanda, occultare il più possibile la vittoria dei No Tav, evitare il “contagio” e una devastante crisi di legittimità.
Per questo hanno militarizzato un’intera valle.
Per questo hanno diffamato e criminalizzato l’intera popolazione di quella valle.
Per questo hanno inquisito, incarcerato, processato, condannato centinaia di persone.

Su questa linea — benché l’appoggio più entusiastico e incondizionato alla repressione sia arrivato sempre dal Pd, che annovera tra le sue file «anti-notav» a tempo pieno come il senatore Stefano Esposito — tra «centrodestra» e «centrosinistra» non vi è mai stata alcuna discrepanza. A quel livello, l’unico livello che conti, cioè il livello del comando capitalistico, le «larghe intese» hanno la priorità su tutto ed esiste un solo “partito”.
Questa è esattamente la storia che ho raccontato nel mio libro Un viaggio che non promettiamo breve. 25 anni di lotte No Tav (Einaudi, 2016).
Nel frattempo gli anni sono diventati ventisette. Ventisette anni che hanno profondamente trasformato la Val di Susa e chi ci vive. Ventisette anni di storia che è imperativo conoscere.
Perché, a dispetto di tutto e contro ogni apparenza, il movimento No Tav sta vincendo. Sta vincendo, e nasconderlo è sempre più difficile. Sta vincendo per tutte e tutti noi, e questa vittoria può insegnarci molto. Non ultimo, può insegnarci a riconoscere, accreditare, valorizzare altre vittorie delle quali non ci accorgiamo. Perché in Italia si lotta, e a volte si vince. È anche per nascondere questo che vi parlano ossessivamente di «clandestini», «degrado» e altri diversivi.
Spazziamo via i diversivi. Parliamo delle lotte.
da qui

domenica 25 febbraio 2018

Alla guerra nucleare dalla base Usa di Sigonella - Antonio Mazzeo


Follie criminali. Segretamente a Sigonella sta per entrare in funzione la Joint Tactical Ground Station (JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di pronto allarme USA per l’identificazione dei lanci di missili balistici con testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali. Nell’area 465 della base sorgerà il nuovo sito di guerra missilistico e nucleare. Della nuova “ricollocazione” a Sigonella grande felicitazione del Presidente del Consiglio Renzi e della Ministra Pinotti. Il governo italiano pare non abbia ritenuto doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica. Mister Trump ha annunciato un piano di “modernizzazione” degli arsenali che costerà più di 1.300 miliardi di dollari nei prossimi 30 anni. Vorrebbe testate nucleari per “effettuare attacchi chirurgici con un numero ridotto di vittime”. Per le opere urbanistiche la US Navy ha affidato i lavori di costruzione degli impianti JTAGS alla D’Auria Costruzioni S.r.l. di Lamezia Terme che sembrerebbe una società quantomeno discutibile.

C’è un sistema che dalla fine della Seconda guerra mondiale consente di misurare il tempo mancante all’olocausto nucleare planetario. Si tratta di un orologio virtuale, il Doomsday Clock, le cui lancette si avvicinano o si allontano dalla fatidica mezzanotte dell’umanità a secondo la gravità dei conflitti in atto o dell’evoluzione della corsa al riarmo atomico. Questo sistema è stato adottato da centinaia di scienziati di fama internazionale che periodicamente pubblicano un report sulBulletin of the Atomic Scientists dove “fotografano” la distanza delle lancette dalla maledetta ora X. Qualche giorno fa, nel corso di una conferenza stampa a Washington, il Presidente della prestigiosa rivista scientifica, Rachel Bronson, ha lanciato l’allarme: “Mancano solo due minuti alla mezzanotte”. Lancette così vicine all’ecatombe nucleare non si vedevano dai tempi della guerra fredda USA-URSS e dell’installazione in Europa dei missili a medio raggio (i Cruise, i Pershing e gli SS-20) e di 112 testate atomiche nell’allora base statunitense di Comiso, Ragusa. “L’odierna minaccia nucleare è insostenibile”, ha aggiunto Rachel Bronson. Nel pianeta la guerra è globale e permanente, anzi perpetua, e il presente e il futuro prossimo sono pesantemente minacciati dall’escalation nucleare di decine di grandi e medie potenze, dalle crescenti tensioni tra USA e Russia, USA e Cina, USA e Corea del Nord e – come avvertono gli scienziati No War - dal “miglioramento tecnologico delle armi nucleari che producono la concreta possibilità che esse vengano usate”.
A rendere ancora più inquietanti gli scenari internazionali e mettere profondamente in pericolo la stessa sopravvivenza di ogni forma di vita nel pianeta ci ha pensato la nuova amministrazione statunitense: mister Trump ha annunciato una radicale riforma della postura nucleare a stelle e strisce grazie a un piano di “modernizzazione” degli arsenali che nei prossimi 30 anni dilapiderà più di 1.300 miliardi di dollari. Obiettivo chiave della nuova dottrina nucleare statunitense, lo sviluppo di testate nucleari a potenza ridotta, anche di un solo kiloton (17 volte meno potente della bomba sganciata su Hiroshima) per “effettuare attacchi chirurgici con numero ridotto di vittime”. E poi ancora altre atomiche più precise e più potenti da utilizzare con i nuovi caccia, i sottomarini e i missili a medio e lungo raggio, forse anche con una nuova generazione di aerei senza pilota e senza controllo umano a distanza. I moderni dottor Stranamore del Pentagono puntano alla supremazia assoluta in campo tecnologico e nucleare e all’annientamento ovunque e comunque di ogni minaccia, anche di quella rappresentata magari da piccoli gruppi insorgenti contro cui potrebbero essere sganciate le nuove mini-atomiche per la “guerra nucleare limitata”. Un mixer di ultra sofisticati sistemi radar e satellitari, centri di comando, controllo, comunicazione e intelligence consentirebbe – sempre secondo Trump & C. – di poter “controllare” preventivamente ogni eventuale operazione missilistica nemica e scatenare dunque il “primo colpo” nucleare, evitando qualsiasi ritorsione e dunque i limiti-pericoli della cosiddetta “Mutua distruzione assicurata”.
Follie criminali con immediate ricadute innanzitutto sui paesi partner alleati di Washington, Italia in testa. I nuovi sistemi di distruzione di massa, infatti, sono destinati ad essere installati (e utilizzati) principalmente in Europa, a partire dalle ammodernate bombe aviotrasportate a guida laser B-61 da custodire nei bunker delle basi di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone) o delle potentissime testate che armeranno i sommergibili a propulsione atomica che incrociano le acquee nazionali e sempre più spesso approdano ad Augusta, Napoli, La Spezia, Taranto.
Anche la base di Sigonella, capitale mondiale dei droni da guerra e base avanzata per le forze speciali e di pronto intervento USA e NATO, assumerà un ruolo strategico nei programmi di supremazia nucleare planetaria delle forze armate degli Stati Uniti d’America. Segretamente, senza che mai il governo italiano abbia ritenuto doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica, sta per entrare in funzione nella grande infrastruttura militare siciliana la Joint Tactical Ground Station (JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di “pronto allarme” USA per l’identificazione dei lanci di missili balistici con testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali.
continua qui 
Articolo pubblicato in Casablanca, n. 52, gennaio-febbraio 2018


discorso di Leonard Cohen alla consegna del Premio Príncipe de Asturias, nel 2011



Majestad,
Altezas,
Excelentísimas e Ilustrísimas autoridades,
Miembros del Jurado,
Distinguidos premiados,
Señoras y señores,
Es un gran honor estar aquí ante ustedes esta noche. Quizás, como el gran maestro Riccardo Muti, no estoy acostumbrado a estar ante un público sin orquesta tras de mí, pero lo haré lo mejor que pueda como artista en solitario hoy.
Anoche me quedé en vela, pensando qué podía decir aquí, en esta asamblea de distinguidas personas. Y después de comerme todas las chocolatinas, todos los cacahuetes del minibar, garabateé unas pocas palabras. No creo que tenga que hacer referencia a ellas. Obviamente, estoy muy emocionado por ser reconocido por la Fundación. Pero he venido aquí esta noche para expresar otra dimensión de mi gratitud;creo que puedo hacerlo en tres o cuatro minutos y voy a intentarlo.
Cuando estaba haciendo el equipaje en Los Ángeles, tenía cierta sensación de inquietud porque siempre he sentido cierta ambigüedad sobre un premio a la poesía. La poesía viene de un lugar que nadie controla, que nadie conquista. Así que me siento como un charlatán al aceptar un premio por una actividad que yo no controlo. Es decir, si supiera de dónde vienen las buenas canciones, me iría allí más a menudo.
Mientras hacía el equipaje, cogí mi guitarra. Tengo una guitarra Conde que está hecha en el gran taller de la calle Gravina, 7, en España. Es un instrumento que adquirí hace más de 40 años. La saqué de la caja, la alcé, y era como si estuviera llena de helio, era muy ligera. Y me la acerqué a la cara, miré de cerca el rosetón, tan bellamente diseñado, y aspiré la fragancia de la madera viva. Ya saben que la madera nunca llega a morir. Y olí la fragancia del cedro, tan fresco como si fuera el primer día, cuando la compré. Y una voz parecía decirme: «Eres un hombre viejo y no has dado las gracias, no has devuelto tu gratitud a la tierra de donde surgió esta fragancia». Así que vengo hoy, aquí, esta noche, a agradecer a la tierra y al alma de este pueblo que me ha dado tanto. Porque sé que un hombre no es un carnet de identidad y un país no es solo la calificación de su deuda.
Ustedes saben de mi profunda conexión y confraternización con el poeta Federico García Lorca. Puedo decir que cuando era joven, un adolescente, y buscaba una voz en mí, estudié a los poetas ingleses y conocí bien su obra y copié sus estilos, pero no encontraba mi voz. Solamente cuando leí, aunque traducidas, las obras de Federico García Lorca, comprendí que tenía una voz. No es que haya copiado su voz, yo no me atrevería a hacer eso. Pero me dio permiso para encontrar una voz, para ubicar una voz, es decir, para ubicar el yo, un yo que no está del todo terminado, que lucha por su propia existencia. Y conforme me iba haciendo mayor comprendí que con esa voz venían enseñanzas. ¿Qué enseñanzas eran esas? Nunca lamentarnos gratuitamente. Y si uno quiere expresar la grande e inevitable derrota que nos espera a todos, tiene que hacerlo dentro de los límites estrictos de la dignidad y de la belleza.
Y entonces ya tenía una voz, pero no tenía el instrumento para expresarla, no tenía una canción.
Y ahora voy a contarles muy brevemente la historia de cómo conseguí mi canción.
Porque era un guitarrista mediocre, aporreaba la guitarra, solo sabía unos cuantos acordes. Me sentaba con mis amigos, mis colegas, bebiendo y cantando canciones, pero en mil años nunca me vi a mí mismo como músico o como cantante.
Pero un día, a principios de los 60, estaba de visita en casa de mi madre en Montreal. Su casa está junto a un parque y en el parque hay una pista de tenis y allí va mucha gente a ver a los jóvenes tenistas disfrutar de su deporte. Fui a ese parque, que conocía de mi infancia, y había un joven tocando la guitarra. Tocaba una guitarra flamenca y estaba rodeado de dos o tres chicas y chicos que le escuchaban. Y me encantó cómo tocaba. Había algo en su manera de tocar que me cautivó. Yo quería tocar así y sabía que nunca sería capaz.
Así que me senté allí un rato con los que le escuchaban y cuando se hizo un silencio, un silencio apropiado, le pregunté si me daría clases de guitarra. Era un joven de España, y solo podíamos entendernos en un poquito de francés, él no hablaba inglés. Y accedió a darme clases de guitarra. Le señalé la casa de mi madre, que se veía desde las pistas de tenis, quedamos y establecimos el precio de las clases.
Vino a casa de mi madre al día siguiente y dijo: «Déjame oírte tocar algo». Yo intenté tocar algo, y él dijo: «No tienes ni idea de cómo tocar, ¿verdad?». Yo le dije: «No, la verdad es que no sé tocar». «En primer lugar déjame que afine la guitarra, porque está desafinada», dijo él. Cogió la guitarra y la afinó. Y dijo: «No es una mala guitarra». No era la Conde, pero no era una guitarra mala. Me la devolvió y dijo: «Toca ahora». No pude tocar mejor, la verdad.
Me dijo: «Deja que te enseñe algunos acordes». Y cogió la guitarra y produjo un sonido con aquella guitarra que yo jamás había oído. Y tocó una secuencia de acordes en trémolo, y dijo: «Ahora hazlo tú». Yo respondí: «No hay duda alguna de que no sé hacerlo». Y él dijo: «Déjame que ponga tus dedos en los trastes», y lo hizo «y ahora toca», volvió a decir. Fue un desastre. «Volveré mañana», me dijo.
Volvió al día siguiente, me puso las manos en la guitarra, la colocó en mi regazo, de manera adecuada, y empecé otra vez con esos seis acordes –una progresión de seis acordes en la que se basan muchas canciones flamencas–. Lo hice un poco mejor ese día. Al tercer día la cosa, de alguna, manera mejoró. Yo ya sabía los acordes. Y sabía que aunque no podía coordinar los dedos para producir el trémolo correcto, conocía los acordes, los sabía muy, muy bien.
Al día siguiente no vino, él no vino. Yo tenía el número de la pensión en la que se hospedaba en Montreal. Llamé por teléfono para ver por qué no había venido a la cita y me dijeron que se había quitado la vida, que se había suicidado.
Yo no sabía nada de aquel hombre. No sabía de qué parte de España procedía. Desconocía porqué había venido a Montreal, porqué se quedó allí. No sabía porqué estaba en aquella pista de tenis. No tenía ni idea de porqué se había quitado la vida. Estaba muy triste, evidentemente.
Pero ahora desvelo algo que nunca había contado en público. Esos seis acordes, esa pauta de sonido de la guitarra han sido la base de todas mis canciones y de toda mi música. Y ahora podrán comenzar a entender las dimensiones de mi gratitud a este país.
Todo lo que han encontrado de bueno en mi trabajo, en mi obra, viene de este lugar. Todo lo que ustedes han encontrado de bueno en mis canciones y en mi poesía está inspirado por esta tierra.
Y, por tanto, les agradezco enormemente esta cálida hospitalidad que han mostrado a mi obra, porque es realmente suya, y ustedes me han permitido añadir mi firma al final de la página.

Muchas gracias, señoras y señores.

The Annotated Transcript
The transcript by Coco Éclair & Allan Showalter1 begins at the point just after Cohen’s opening salutations. The annotations and commentary are by Allan Showalter with assistance from Adrian du Plessis, Ruth Stimson, Afric Prendergast, and Coco Éclair.
It is a great honor to stand here before you tonight. Perhaps, like the great maestro, Riccardo Muti, I’m not used to standing in front of an audience without an orchestra behind me, but I will do my best as a solo artist tonight.2
I stayed up all night last night wondering what I might say to this assembly.3 After I had eaten all the chocolate bars and peanuts from the minibar,4 I scribbled a few words.5 I don’t think I have to refer to them. Obviously, I’m deeply touched to be recognized by the Foundation. But I have come here tonight to express another dimension of gratitude; I think I can do it in three or four minutes.
When I was packing in Los Angeles,6 I had a sense of unease because I’ve always felt some ambiguity about an award for poetry. Poetry comes from a place that no one commands, that no one conquers. So I feel somewhat like a charlatan to accept an award for an activity which I do not command.7
In other words, if I knew where the good songs came from I would go there more often.8
I was compelled in the midst of that ordeal of packing to go and open my guitar.9
I have a Conde guitar,10  which was made in Spain in the great workshop at Number 7 Gravina Street.11
I pick up an instrument I acquired over 40 years ago. I took it out of the case, I lifted it, and it seemed to be filled with helium it was so light. And I brought it to my face and I put my face close to the beautifully designed rosette,12  and I inhaled the fragrance of the living wood. We know that wood never dies. I inhaled the fragrance of the cedar13  as fresh as the first day that I acquired the guitar. And a voice seemed to say to me, “You are an old man14 and you have not said thank you, you have not brought your gratitude back to the soil from which this fragrance arose. And so I come here tonight to thank the soil and the soul of this land that has given me so much.”15
Because I know that just as an identity card is not a man, a credit rating is not a country.16
Now, you know of my deep association and confraternity with the poet Frederico Garcia Lorca.17 I could say that when I was a young man, an adolescent, and I hungered for a voice, I studied the English poets and I knew their work well,18 and I copied their styles, but I could not find a voice. It was only when I read, even in translation, the works of Lorca that I understood that there was a voice. It is not that I copied his voice; I would not dare. But he gave me permission to find a voice, to locate a voice, that is to locate a self, a self that that is not fixed, a self that struggles for its own existence.
As I grew older, I understood that instructions came with this voice. What were these instructions? The instructions were never to lament casually. And if one is to express the great inevitable defeat that awaits us all, it must be done within the strict confines of dignity and beauty.
And so I had a voice, but I did not have an instrument. I did not have a song.
And now I’m going to tell you very briefly a story of how I got my song.
Because – I was an indifferent guitar player.19 I banged the chords. I only knew a few of them.20 I sat around with my college friends, drinking and singing the folk songs and the popular songs of the day,21 but I never in a thousand years thought of myself as a musician or as a singer.22
One day in the early sixties,23 I was visiting my mother’s house in Montreal. Her house was beside a park24 and in the park was a tennis court where many people come to watch the beautiful young tennis players enjoy their sport.25 I wandered back to this park which I’d known since my childhood, and there was a young man playing a guitar. He was playing a flamenco guitar, and he was surrounded by two or three girls and boys who were listening to him. I loved the way he played. There was something about the way he played that captured me. It was the way that I wanted to play and knew that I would never be able to play.
And, I sat there with the other listeners for a few moments and when there was a silence, an appropriate silence, I asked him if he would give me guitar lessons. He was a young man from Spain, and we could only communicate in my broken French and his broken French. He didn’t speak English. And he agreed to give me guitar lessons. I pointed to my mother’s house which you could see from the tennis court, and we made an appointment and settled a price.
He came to my mother’s house the next day and he said, “Let me hear you play something.” I tried to play something, and he said, “You don’t know how to play, do you?”
I said, “No, I don’t know how to play.” He said “First of all, let me tune your guitar. It’s all out of tune.” So he took the guitar, and he tuned it. He said, “It’s not a bad guitar.” It wasn’t the Conde, but it wasn’t a bad guitar. So, he handed it back to me. He said, “Now play.”
I couldn’t play any better.
He said “Let me show you some chords.” And he took the guitar, and he produced a sound from that guitar I had never heard. And he played a sequence of chords with a tremolo, and he said, “Now you do it.” I said, “It’s out of the question. I can’t possibly do it.” He said, “Let me put your fingers on the frets,” and he put my fingers on the frets. And he said, “Now, now play.”
It was a mess. He said, ” I’ll come back tomorrow.”
He came back tomorrow, he put my hands on the guitar, he placed it on my lap in the way that was appropriate,26 and I began again with those six chords – a six chord progression. Many, many flamenco songs are based on them.27
I was a little better that day. The third day – improved, somewhat improved. But I knew the chords now. And, I knew that although I couldn’t coordinate my fingers with my thumb to produce the correct tremolo pattern, I knew the chords; I knew them very, very well.
The next day, he didn’t come. He didn’t come. I had the number of his, of his boarding house in Montreal. I phoned to find out why he had missed the appointment, and they told me that he had taken his life. That he committed suicide.
I knew nothing about the man. I did not know what part of Spain he came from. I did not know why he came to Montreal. I did not know why he played there. I did not know why he he appeared there at that tennis court. I did not know why he took his life.28
I was deeply saddened, of course. But now I disclose something that I’ve never spoken in public. It was those six chords, it was that guitar pattern that has been the basis of all my songs and all my music.29 So, now you will begin to understand the dimensions of the gratitude I have for this country.
Everything that you have found favourable in my work comes from this place. Everything , everything that you have found favourable in my songs and my poetry are inspired by this soil.
So, I thank you so much for the warm hospitality that you have shown my work because it is really yours, and you have allowed me to affix my signature to the bottom of the page.
_____________________________
1.      Coco Éclair prepared a complete, direct transcription of Leonard Cohen’s words. I provided a modicum of editing based on my own knowledge of Cohen’s phrases used in telling the anecdotes in the past and, of course, on the English-only tape of the speech not available to Ms Éclair. [Descrizione: ↩]
2.      Ira Nadel, Cohen’s biographer, in an interview recorded in “Leonard Cohen Under Review 1934-1977,” pointed out
Leonard as a performer is happiest, I think, when he’s got company on stage. He’s always got his backup singers and he usually has a substantial group accompanying him. It’s not just Leonard and a piano man or Leonard and … someone on the drum kit. … He goes on tour and he establishes this community that’s crucial for him. They provide a support for him … as the performer. The fundamental thing is that he is part of a group. [Descrizione: ↩]
3.      It is worth noting that Leonard Cohen was the only musician ever honored with the Prince Of Asturias Award For Letters. Consequently, one might have anticipated that if Cohen’s speech were to focus on the arts, it would have spotlighted poetry or prose. In such a case, one would have anticipated incorrectly. Cohen has always taken the poet’s prerogative to use any platform as an opportunity to address the issue of his interest. [Descrizione: ↩]
4.      Leonard Cohen has a penchant for such foodstuffs. Anjani tells of fueling the Cohen lyric-writing engine with candy during their work together on the Blue Alert album:
The song was No One After You, and we just needed one line to finish it so I could record it the next day:
I lived in many cities
from Paris to LA
I’ve known rags and riches
It was a bit tense as he paced back and forth.  I sat at the piano and didn’t move, didn’t say a word. Then he finally said, “I need some chocolate if I’m gonna do this.”
That would have been milk chocolate, because he doesn’t like dark — and of course I always keep some around — so he ate a bar and about a minute later he came up with the line:
I’m a regular cliche
[Personal communication.] [Descrizione: ↩]
5.      In addition to writing Chelsea Hotel #2, based on his liaison with Janis Joplin at the Chelsea Hotel where Cohen lived for some time and providing the music for and helping write “I Am a Hotel,” a 24 minute video filmed at Toronto’s King Edward Hotel in 1983 which won the Golden Rose at an international television festival in Montreux, Leonard Cohen has frequently spoken about working in hotels. For example, he often introduced “Hey That’s No Way To Say Goodbye” by referring to the site of its origin (Diamonds In The Lines and back cover of 1976 “Greatest Hits”):
This song arises from an over-used bed in the Penn Terminal Hotel in 1966. The room is too hot. I can’t open the windows. I am in the midst of a bitter quarrel with a blonde woman. The song is half-written in pencil but it protects us as we manoeuvre, each of us, for unconditional victory. I am in the wrong room. I am with the wrong woman.
Bruce Grenville, writing at Sanctuary of a Temporary Kind: Leonard Cohen (see photos at link) about Ladies and Gentlemen… Mr. Leonard Cohen, a film which
catches him [Cohen] on a return trip from Greece to his hometown of Montréal [where] he is staying in a $3-a-night hotel in Montréal’s Tenderloin district–an area of the city centered on the corner of St. Laurent and Ste. Catherine streets,
observes:
The hotel room, Cohen says, is a sanctuary, a refuge, an oasis. It is a place to lay low and pursue the five hours of writing that he likes to commit to each day. As he rises from bed, looks out the window and washes up, Cohen’s voiceover offers his appreciation for the room: “You always have a feeling in a hotel room that you are on the lam; and it’s one of the safe moments in the escape, it’s that breathing spot. The hotel room is the oasis of the downtown; it’s a kind of temple of refuge. It’s sanctuary, sanctuary of a temporary kind, therefore all the more delicious. But whenever I come into a hotel room, and there is the moment after the door is shut and the lights you haven’t turned on illumine a very comfortable, anonymous, subtly hostile environment, and you know that you’ve found the little place in the grass and the hounds are going to go by; for three more hours, you’re going to have a drink, light a cigarette, and take a long time shaving.”
Cohen also famously stated
But we’re not going to live forever; maybe I think, basically, that nothing really changes. I’m not attached to that opinion, though. I don’t even care if it’s true. When you’re banging your head against the dirty carpet of the Royalton Hotel trying to find the rhyme for “orange,” you don’t care about these things. (Leonard Cohen’s Nervous Breakthrough” by Mark Rowland, Musician, July 1988.)
Leonard Cohen is known for his modest requirements in hotel rooms:
Someone said “If riches assist thee acquire riches, if poverty assist thee seek poverty.” There are many styles of life, I don’t think one is better than another, it’s just that what suits me is a more modest style than generally could be discovered in a first class hotel where so much is based on the good graces of the people around you being purchased. (From “Complexities And Mr. Cohen” by Billy Walker. Sounds, March 4, 1972. Found at LeonardCohenFiles.) [Descrizione: ↩]
6.      While Cohen maintains a residence in Montreal, he has spent most of his at-home time in the past two decades at what Larry “Ratso” Sloman described as his “modest house in a decidedly unfashionable section of Los Angeles,” a site that afforded him an up close and personal view the Los Angeles Riots. (7 Reasons Leonard Cohen Is the Next-Best Thing to God by David Browne. Entertainment Weekly. Jan 08, 1993. Leonard Cohen noted in “Hello, I Must Be Cohen” by Gavin Martin (New Musical Express, January 9, 1993) that
Los Angeles is a great city — it’s falling apart on every level. Geologically it’s falling apart, politically it’s falling apart, the physical realm is also in deep fragmentation…a very suitable landscape for my dismal expression.
Finally, this excerpt from Pico Iyer on the strange connection between the Dalai Lama and Graham Greene by Jeff Baker in The Oregonian (April 06, 2010) effectively limns the setting.
It’s an extraordinary thing. He lives in this tiny house in central Los Angeles that’s so dangerous I’m scared ever to visit it, an area where everyone has barred their windows, you can almost hear sirens and breaking glass. Out of all my friends in California — normal people, struggling writers — he lives in the single most modest place. I and my friends seem rich next to Leonard Cohen. He shares a house with his daughter and he might as well be in the monastery and he’s been there for almost 30 years.
[Descrizione: ↩]
7.      Cohen has been reliably humble in his public assessments of his his skills as a poet. His own poem “Thousands,” which he recited in Leonard Cohen Discusses Life, a PBS interview (This site includes the Real Player audio of the interview by Jeffery Brown as well as the full transcript.) first broadcast 28 June 2006, is characteristic:
Out of the thousands who are known or who want to be known as poets, maybe one or two are genuine and the rest are fakes, hanging around the sacred precincts, trying to look like the real thing. Needless to say, I am one of the fakes, and this is my story.
As is this quote from Yakety Yak by Scott Cohen (1994)
I always considered myself a minor writer. My province is small and I try to explore it very, very thoroughly. It isn’t like I chose this. This is what I am. You know whether you’re a high jumper or not. I know in a sense I’m a long-distance runner. I’m not going to win any sprints. I’m not going to win any high jumps or anything spectacular. I may hang in there if my health remains good and I will explore this tiny vision.
In his interview with LA Times music blog: Leonard Cohen reborn in the U.S.A. by Geoff Boucher (Los Angeles Times, February 27, 2009 ) Cohen lists some of his competitors and his own assessment of his ranking:
You’re up against some heavy competition. King David, Homer, you’re up against Shakespeare, Dante, Donne, you’re up against Whitman. It’s like going up against Muhammad Ali if you’re a pretty good neighborhood boxer, and that’s what I think of myself as. I’m just a pretty good neighborhood boxer. Legacy? I never thought that it would mean anything to me when I’m dead. I’m going to be busy.
And from “Porridge? Lozenge? Syringe?” by Adrian Deevoy in The Q Magazine, 1991.
Being called a poet is not very attractive. It’s like being called a hippy. There’s something a bit fruity about being called a poet. So whatever that activity is — when you write lines that don’t come to the edge of the page — you just keep quiet about it.
And Cohen’s views on the title of “poet” have shifted:
View #1: From June 16, 1961 CBC interview with Leonard Cohen
I think the term “poet” is a very exalted term and should be applied to a man at the end of his work. When he looks back over the body of his work and he’s written poetry then let the verdict be that he’s a poet. But I would never assume that title until it’s been awarded me by a very good and long performance.
View #2: From Harry Rasky’s The Song Of Leonard Cohen, filmed in 1979
It’s due to the process of cultural advertising which has the same effect as commercial advertising. Certain words [in this case, “poet”] become devalued and, not only that, but many people rush to embrace the description and I just don’t like the company.
On the other hand, he does admit to certain ambitions:
Marco: Once you said that you wished you could have been like a poet whose songs are sung from Chinese women washing clothes on a river. Is it still this your goal? …
Leonard Cohen: Dear Marco, They don’t have to be Chinese. … (From an online chat in 2001) [Descrizione: ↩]
8.      Note the segue from poetry to songs accomplished by this line, which has been oft-repeated by Leonard Cohen. In a June 28, 2006 NPR interview, for example, Cohen’s response to the interviewer’s observation that he had been inducted into the Canadian Songwriters Hall of Fame was
I don’t know where the good songs come from or else I’d go there more often
Cohen has frequently debated the relationship between songs and poems – taking both sides of the debate:
… I regard everything I write as being set to music, almost as if I hear a giant guitar accompanying me! (Leonard Cohen Seventeen. March 1968)
I never did set poetry to music. … I got stuck with that. It was a bum rap. I never set a poem to music. I’m not that hopeless. I know the difference between a poem and a song! (“Porridge? Lozenge? Syringe?” by Adrian Deevoy, Q Magazine, 1991)
It depends on what part of the being is operative. Of course it’s wonderful to write a song, I mean there is nothing like a song, and you sing it to your woman, or to your friend, people come to your house, and then you sing it in front of an audience and you record it. I mean it has an amazing thrust. And a poem, it waits on the page, and it moves in a much more secret way through the world. And that also is… Well, they each have their own way of travel. (Leonard Cohen: The Romantic in a Ragpicker’s Trade by Paul Williams. Crawdaddy, March 1975.)
Perhaps what happened is as simple as Leonard Cohen’s response to an interviewer who asked why, after writing “two wildly successful novels that sold over 800,000 copies each, … it’s been twenty-six years now since Beautiful Losers was published, … you never returned to the fiction form:”
I got lost in the song. I got very involved in the life of music and the lyric and I went to some quite remote places … [Descrizione: ↩]
9.      Cohen has owned, of course, many guitars. In a Dec 10, 2009 LeonardCohenForum post, Patyou, a confessed “guitar maniac,” listed these instruments used by Cohen from the 1960s through the World Tour:
From 1967 (See the pictures from Newport) to 1970 tours (included IOW) : a Ramirez flamenca guitar (this one was the most difficult to identify because nothing looks more like a flamenca guitar as another flamenca guitar)
In the 1972 and 1974 tours (see the pictures in the Concert Pictures section) : a Conde Hermanos flamenca guitar
In the 1976 and 1979 tours : an Ovation Classic model (the recent models are easier to find out because each brand is now very recognizable and there are more pictures on stage)
In 1985 and 1988 : the Chet Atkins Gibson model
In 1993 until the last tours : the Multiac ACS Godin
Leonard Cohen also used guitars as subjects for his drawings. Note the self-mocking legends written on each of  these sketches:


[Descrizione: ↩]
11.  A photo of Cohen with his Conde guitar at his March 23, 1972 performance at the Albert Hall in London can be found at LeonardCohenFiles [Descrizione: ↩]
12.  A guitar’s rosette is the ornamental circular band surrounding the sound hole of an acoustic guitar.  Shown below is the rosette of flamenco guitar made by Cónde hermanos. (The photo is by Villanueva and was found at Wikipedia Commons.)
For an informative and delightful discussion of the complex design and construction processes of this piece, see Rosette Making, A Real Labor of Love by Kenny Hill (Acoustic Guitar, July 2001) [Descrizione: ↩]
13.  An enlightening discussion of the choices in woods used to construct acoustic guitars can be found at  Tapping Tonewoods, by Dana Bourgeois (Acoustic Guitar, March/April 1994) [Descrizione: ↩]
14.  Leonard Cohen has recently turned 77 when this speech was given.  One should note, however, that when Leonard Cohen wrote these words from “Tower Of Song”
Well my friends are gone and my hair is grey
I ache in the places where I used to play
he was 54. (Of course, Bruce Springsteen was 24 when he wrote, “We ain’t that young anymore” in the song Thunder Road.) [Descrizione: ↩]
15.  Cohen’s use of his guitar’s heritage to link himself with Spain was presaged in his official acknowledgement of the award, issued from New York on June 2, 2011:
I am most grateful to be recognized by the countrymen of Machado and Lorca, and my friend Morente, and the incomparable companions of the Spanish guitar.
Re Morente, in a Chris Douridas Interview With Leonard Cohen (KCRW, Los Angeles, February 18, 1997) Cohen’s enthuses about a flamenco-based cover of We Take Manhattan by Morente:
The fact that he saw something in my songs that could be translated into flamenco music is what touches me. Cause a lot of the changes in for example First We Take Manhattan are flamenco changes. So that he saw that these songs had a reference to something that he understood and that we meet there and that he made those songs into flamenco songs. [Descrizione: ↩]
16.  Spain saw its credit rating cut by two notches on Tuesday [Oct 18, 2011] as Moody’s warned that the country risked being sucked deep into the European debt crisis. Spanish Credit Rating Downgraded by Graeme Wearden. The Guardian, 18 October 2011. [Descrizione: ↩]
17.  Leonard Cohen has often spoken about the influence of Lorca on his life. A good starting point is the collection of his concert introductions to Take This Waltz collected at Diamonds In The Lines. The introduction from the October 31, 1988 Austin concert, one of many examples, follows:
Long time ago I was about 15 in my hometown of Montreal, I was rumbling through….or rambling as you say down here. We say “rumbling.” Actually we don’t say that at all. I was rumbling through this bookstore in Montreal. And I came upon this old book, a second-hand book of poems by a Spanish poet. I opened it up and I read these lines: “I want to pass through the arches of Elvira, to see your thighs and begin weeping.” Well that certainly was a refreshing sentiment. I began my own search for those arches those thighs and those tears…. Another line – “The morning through fistfuls of ants at my face.” It’s a terrible idea. But this was a universe I understood thoroughly and I began to pursue it, I began to follow it and I began to live in it. And now these many years later, it is my great privilege to be able to offer my tiny homage to this great Spanish poet, the adversary of whose assassination was celebrated two years ago. He was killed by the Civil Guards in Spain in 1936. But my real homage to this poet was naming my own daughter Lorca. It was Federico Garcia Lorca. I set one of his poems to music and translated it. He called it “Little Viennese Waltz.” My song is called “Take this Waltz.”
These words from a CBC Radio Interview (August 26, 1995) presage his thoughts on Lorca expressed in his Prince Of Asturias Awards speech:
Well, I don’t know how he [Lorca] helped me find my own voice. Since he seemed exotic and far away, he allowed me to steal or borrow a lot of his voice. It’s like anything that you fall in love with is going to give you a certain kind of blindness. I think you are blinded to your own imperfections and limitations. It allows you to kind of lurch forward on the path that you want to choose for yourself. I don’t think that’s the real benefit of falling in love with a writer when you’re young. With Lorca, when I stumbled on him, it was something that was terribly familiar, it seemed to be the way that things really were. The evocation of a landscape that you’re really felt at home in, maybe more at home than anything you’ve been able to come up with yourself.
A discussion of Lorca, especially as his work influenced Cohen, can be found at Leonard Cohen’s Lonesome Heroes(the video is cued to start at the 7:50 mark; the portion pertinent to Lorca ends at 20:30) [Descrizione: ↩]
18.  In addition to his formal literature studies at McGill, Cohen was also knowledgeable, of course, about the work of his own mentors, such as Irving Layton. Additional evidence of Cohen’s easy familiarity with the classic canon of English poetry is his habit of quoting lines from several such poets at selected concerts during the World Tour. Examples follow:
1.      “In Memory Of Eva Gore-Booth And Con Markiewicz” by William Butler Yeats: Anthem Performance From July 31, 2010 Leonard Cohen Lissadell House, Sligo Concert
2.      “Invictus” by William Ernest Henley: October 7, 2010 Leonard Cohen Moscow Concert
3.      “Dover Beach” by Matthew Arnold: Stuttgart, Germany, Oct. 1, 2010 and October 7, 2010 Moscow Concert
I wanted to be a writer. From very very early time I just knew that I was going to be a writer. So there was never any ambiguity or difficult decision about what I wanted to be. And it was a writer not in the popular culture,; on the contrary, it was a writer to writers that were already dead. The writers I was writing for and the audience I was writing for, was not a popular audience. I was writing for William Butler Yates, I wouldn’t say Shakespeare, because I never really enjoyed Shakespeare, but there were other poets that I was writing for that were dead. And that was where I was aimed. I wanted to be one of those, I wanted to be in that tradition, I didn’t care, in fact with the little group of poets that I grew up with in Montreal, we criticized each others work very very savagely, we had a very very high sense of our calling. And a very exaggerated sense of our own importance.
At one point Cohen reported he
was only writing Spenserian stanzas to be set to music. I don’t think there’s anyone else in the western world writing Spenserian stanzas with that very intricate verse form. So I got very interested in the whole lyrical form.
And, in a 1988 interview with Mr. Bonzai, Cohen listed multiple influences:
There’s so much excellent work. Every time I turn on the radio, I hear something good. Everytime I pick up a magazine, I read some writing that is distinguished. My pace and viewpoint is being influenced continually by things I come across.
You recapitulate the whole movement of your own culture. Occasionally we are touched by certain elaborate language, like the language we associate with the Elizabethan period, with the King James translation of The Bible, or Shakespeare. In certain moments you are influenced by very simple things. The instructions on a cereal package have a magnificent clarity. You’re touched by the writing in National Geographic — it represents a certain kind of accomplishment.
Occasionally you move into another phase where you are touched by the writing of demented people or mental patients. I get a lot of letters from those kinds of writers. You begin to see it as the most accurate kind of reflection of your own reality, the landscape you’re operating on. There are many kinds of expression that I’m sensitive to.
Personally, I take some pleasure in noting that Leonard Cohen and I share two major sources of influences:
The first poetry that ever affected me was in the synagogue, in the liturgy, and the Bible stories. And that would send shivers down my spine. The stories I was reading, in those days, mostly came from Marvel Comics. Captain Marvel, Superman, Aquaman, Spider Man, the various heroes. I thought I could write. I was never very sure. I knew I could write something. I started writing poetry to girls. Tried to get girls interested in my mind. (Leonard Cohen’s Bunch Of Lonesome Heroes – Blue Beetle, Captain Marvel, Spider-Man, …)
Later, Cohen would report feeling estranged by his own generation of poets. Speaking to Michael Silverblatt on KCRW Bookworm program about Book Of Longing June 22, 2006, Cohen declared
I’m reluctant to call [my work] poetry. I like your idea of footnotes, or notes or some other kind of activity, because I think there is an enterprise called poetry today and I don’t really feel part of it […] I don’t have that mind that seems to be valued today. I can’t understand a lot of the stuff that’s written. [Descrizione: ↩]
19.  Despite the jokes, many of which are made by Cohen himself, about his supposed lack of instrumental talent and musicological knowledge that have persisted throughout his career, Cohen’s guitar playing is more accurately characterized as unusual for a pop musician rather than rudimentary.  This excerpt from the Pitchfork review of Songs of Leonard Cohen is instructional (and the entire article is enlightening on Cohen’s musical style):
There’s his unique guitar style– most of his songs are built from delicate webs of musky, finger-picked flamenco or broad, awkward chord progressions … .
Cohen’s explanation  of his shift to writing songs on guitar to writing songs on synthesizers in Songwriters On Songwriting by Paul Zollo (Da Capo Press 1997)  is also helpful in understanding the instrument’s importance to his songwriting:
[Interviewer] Do you work on guitar?
[Leonard Cohen] It usually was guitar but now I have been working with keyboards.
[Interviewer] Does the instrument affect the song you are writing?
[Leonard Cohen] They have certainly affected my songs. I only have one chop. All guitar players have chops. Especially professional ones. But I have only one chop. It’s a chop that very few guitarists can emulate, hence I have a certain kind of backhanded respect from guitar players because they know that I have a chop that they can’t master. And that chop was the basis of a lot of my good songs.
John Simon, the producer of Songs Of Leonard Cohen, in an interview for “Leonard Cohen Under Review 1934-1977,” describes Cohen’s guitar style:
Leonard apparently learned how to play classical guitar because he did things like [Simon plays triplets on piano] real fast – real fast.
Cohen has, indeed, garnered some notoriety (note the comments on  this LeonardCohenForum page devoted to folks attempting, typically without success, to emulate Cohen’s technique.) for his capacity to play those rapid triplets, enhanced with flourishes, that can be heard in, for example, Avalanche or The Stranger Song,
Most recently, David D. Robbins Jr., reviewing the early release of “Darkness” from the Old Ideas album, pointed out that
A low-moan acoustic guitar, gracefully finger-picked [by Cohen], purrs through the opening … [Descrizione: ↩]
20.  In 1993, Cohen told a BBC interviewer,
Now, I don’t want to give you the impression that I’m a great musicologist, but I’m a lot better than what I was described as for a long, long time; you know, people said I only knew three chords when I knew five.” [Descrizione: ↩]
21.  For an example of this behavior, watch this excerpt from Ladies and Gentlemen, Mr Leonard Cohen. [Descrizione: ↩]
22.  Cohen, quoted in Leonard Cohen: The Poet as Hero,” by Jack Batten (Saturday Night, June 1969) declared
I used it [his guitar] as a courting procedure. Probably I got down on my knees to serenade a girl. I was shameless in those years.
The article goes on to observe that
To this day, his guitar playing suggests a skill acquired around campfires and honed at solemn gatherings of folk-song devotees, and for all its aptness and, at times, funky spirituality, it remains rather rudimentary and functional.[Descrizione: ↩]
23.  This is almost certainly a chronological error. Cohen was born 21 September 1934 so in the “early sixties,” he would probably have been 26 to 30 years old. In his own telling of  the same story, however, in a 1988 BBC interview with John Archer, Cohen estimates the age of the Spaniard who taught him guitar as “16 or 17” and his own age as “13 or 14.”  That segment can be viewed at YouTube – Leonard Cohen BBC Interview (video cued to begin at 9:45). [Descrizione: ↩]
24.  The Cohen family home was in Westmount; the park he mentions is Murray Hill Park. The home, scenes from the neighborhood, and the park can be viewed at Growing Up Cohen. [Descrizione: ↩]
25.  Cohen was not himself a tennis player at the time although he did make an attempt, under instructions from his Zen mentor, to learn tennis at a much later date. See Leonard Cohen On Zen, Depression, Women, Children, Headhunters, Loneliness, & Tennis. [Descrizione: ↩]
26.  One can only assume that Cohen’s appending “in the way that was appropriate”  to “he placed it [the guitar] on my lap” was to preclude any suspicions that there this event was tainted by sexual impropriety. Sadly, the prevalent cultural hypervigilance and press sensationalism regarding this subject justifies such cautionary efforts. [Descrizione: ↩]
27.  Neither I or those I’ve consulted have been unable to discover a direct reference to a flamenco six chord progression that serves as a basis for a large number of flamenco songs, but the brief essays at Flamenco Guitar Music and Understanding Flamenco, as well as the Wikipedia Flamenco entry may be helpful. Also see discussion of the flamenco influence on Cohen’s own songs below. [Descrizione: ↩]
28.  Leonard Cohen has recounted this story of his guitar teacher committing suicide in more concise form on several occasions.  For example, in addition to the 1988 BBC interview with John Archer already mentioned, Cohen gave this account in his interview with Chris Douridas (KCRW, Los Angeles, February 18, 1997) follows:
Leonard: There was a young man in the park behind my mother’s house. A dark young man, very handsome, played flamenco guitar. I asked him if he would give me a few lessons. He did. He gave me three or four lessons. On the basis of those lessons I wrote most of my songs. He showed me some changes with the guitar that was very very important to me. He didn’t turn up for the final lesson, and I phoned his boarding house, they told he’d committed suicide. I don’t know whether that was because of the progress with his student; or I think perhaps he had other issues. [Descrizione: ↩]
29.  Because Cohen appears to be referring not to a specific set of six chords but to the tonal ‘mode’ in which he writes his songs, some basic musicology is helpful on this point. The following simplified explanation is contributed by Ruth Stimson with assistance from Afric Prendergast:
The bog-standard, major scale mode for most Western music is the Ionian. There are six other modes that are routinely utilised by non-Western (e.g., far Eastern or Arabic) music.  The third mode, the Phrygian, is most often used by Spanish/flamenco music (influenced by Arabic music, hence the different modal sound). It has a minor or flattened seventh, which makes it distinctive.
While there is no evidence of a specific six chord progression associated with this musical mode, or flamenco in general, there is certainly a classic four chord progression – known as the Andalusian cadence (the Wikipedia entry includes sample sound clips and also notes  that this progression was popular with musicians in the 1960s and 1970s; also see Flamenco Chord Progressions, which includes chords that feature heavily in Leonard’s earlier guitar music, and and Chord Progressions For Songwriters by Richard Scott).

While Leonard Cohen is disingenuous to claim all his music is based on this mode, his repertoire does include several excellent examples that fit into this classification:
First We Take Manhattan: The progression is especially obvious in the chorus, the chords played behind ‘First [dum] we take Manhattan’ [dum, dum, dum – progressing downward] Video cued to begin at 0:58.
The Story of Isaac: The phrase ‘I was / nine / years / old’  follows the chord progression downwards [slashes represent chord changes]  Video cued to begin at 0:17.
Sisters of Mercy:  The phrases ‘I’ve been where you’re / hanging, I / think I can / see how you’re / pinned’ and ‘they / brought me their / comfort and / later they / brought me this / song’ again follow the chord progression downward. Video cued to begin at 0:23.

The Guests
: The phrase ‘One by one / the guests arrive / the guests are coming’ is a partial progression. The note rises again on the ‘through,’ which is thus not part of the progression.  Video cued to begin at 0:07.
Waiting for the Miracle: This sample is more difficult to describe (and one should keep in mind that the music was written by Sharon Robinson) but listen for the parts sung by the backup singers. Video cued to begin at 0:56.
Leaving Green SleevesIn this case, the progression is obvious as the chord is played a beat before these lyrics start: ‘I sang my song / I told my lies / to  lie between your / matchless thighs.’ You can also hear the characteristic progression at the beginning of the song in the phrase, ‘alas my love you did me wrong.’ The music for Leaving Green Sleeves is, of course, a folk tune co-opted rather than written by Cohen – though perhaps the association of the Phrygian mode with troubadours may be have played a part in the attraction the song held for him, the Phrygian mode.
More generally, flamenco/Spanish music is associated with the minor keys, and Leonard Cohen certainly uses these a lot, probably chucking in flattened sevenths for good measure.
Further, “Darkness,” an early release from the Old Ideas album is described by Tom Hawking at FlavorWire as
… start[ing] with a moody flamenco-influenced intro that’s decidedly reminiscent of Songs of Love and Hate track “Avalanche,” …
The actual chords of most Leonard Cohen songs, including the above examples, can be found at Chords of Leonard