“…il mondo mi ha fatto l’elemosina. Mi ha dato farina, vestiti, tende a
me ed ai miei figli mai nati. Io in cambio gli ho dato la patria e la sicurezza.” Mahmud
Darwish
In queste parole di uno dei più grandi autori del nostro secolo (Josè
Saramago lo definisce il più grande poeta del mondo), prese da un racconto del
1973 “Diario di ordinaria tristezza”, vedo condensata l’unica vera
attività “politica” che le istituzioni internazionali possono fare
per la Palestina ed il suo popolo: l’elemosina. L’UNHCR forse è messa un
po’ in difficoltà dalle minacce di Trump, ma non c’è pericolo. La buona
Europa è già pronta per coprire la cifra che Trump ha tolto all’agenzia.
L’Europa continuerà a fare l’unica cosa che sa fare per i palestinesi:
l’elemosina.
Era il 1973 quando Mahmud Darwish scriveva quelle parole e continua ad
essere così oggi. L’unica cosa che è cambiata dal ’73 è la superficie della
terra sotto i piedi dei palestinesi. In un costante e continuo furto gli
israeliani hanno occupato più dei 2/3 del territorio palestinese. Non ci
sono mai stati dei veri processi di pace, l’unico vero processo è il processo
di occupazione di terre e di pulizia etnica. In ogni finto processo di pace a
cui israele si è presentata non ha mai messo in discussione un solo centimetro
di terra occupata. I finti processi di pace si devono sempre iniziare con lo
status quo. Cioè con tutto quello che sono riusciti a rubare. Ora arriva
Gerusalemme. Venerdì 23/02/18 l’accelerata Americana. Il trasferimento
dell’ambasciata, e quindi il riconoscimento ufficiale di Gerusalemme come unica
capitale israeliana, si farà non più in due anni ma in due mesi. A maggio ,
anche se il nuovo edificio non è ancora costruito. Nel consolato si
stringeranno un po’. Questa accelerata è naturalmente a tutto vantaggio della
traballante poltrona di Netanihau a causa di diverse accuse per frode. Non c’è
comunque da stare allegri, chi vorrebbe prendere il suo posto è come lui e, se
possibile, peggio di lui.
A questo gravissimo atto, senza precedenti per le implicazioni del concetto
di patria stessa che Gerusalemme ha per tutti i palestinesi, come
dovrebbero reagire questi ultimi? Con “rassegnazione”, con “tolleranza ”,
cercando il “dialogo”. Abbas ha detto che non si siederà a nessun tavolo se
israele dichiarerà Gerusalemme sua unica capitale. Ma continuerà a condannare
ogni forma di resistenza del suo popolo. E poi? Si dovrà continuare ad
accettare “l’elemosina in cambio della patria”? Anche le stesse UN
riconoscono il diritto all’autodifesa del popolo occupato. Ma quando uno
sgangherato missile partito da Gaza cade sul territorio israeliano, i
bombardamenti a tappeto israeliani cha fanno 2000 morti di cui 500
bambini, sono politicamente accettati. Dico politicamente perché, al di
là di innocue dichiarazioni di condanna sulle esagerazioni della risposta
militare, non si è mai preso nessun tipo di provvedimento contro israele. Se un
giovane si “suicida” buttandosi con un temperino contro altri giovani
scafandrati che presidiano un check point in assetto di guerra e che
calpestano la sua terra, tutti i media lo chiamano terrorista. Non è un giovane
resistente, un martire che sta difendendo la sua patria ma un “terrorista”.
“Gli stati hanno il diritto di uccidere i propri e gli altrui popoli,
ma un individuo o un popolo non ha il diritto di combattere per la propria
libertà” (Mahmud Darwish) . Con che cosa dovrebbe difendere la sua
patria se altro non ha se non temperini, forbici e qualche volta una macchina
da usare come arma? Con che cosa “il mondo” pensa che i palestinesi possano
resistere all'occupante. Se avessero aerei, mitragliatrici, bulldozer, li
chiamerebbero soldati, siccome hanno pietre, coltelli e forbici, li chiamano
terroristi.
Con il cuore, con tutto il cuore mi auguro che non ci sia più bisogno di
giovani che muoiono ne da una parte ne dall'altra. Con il cuore. Con la ragione
no. Israele non andrà mai a trattare per fare concessioni di nessun tipo.
L’unica possibilità e che lo si costringa. E per essere costretto bisogna
obbligarlo. Sono solo due le possibili condizioni che possono obbligare Israele
a sedersi in un tavolo e trattare davvero. La prima , la più pacifica, è
l’isolamento internazionale soprattutto economico. Questa strada purtroppo si è
dimostrata impercorribile. “Nel mondo” e prevalentemente nelle nazioni
occidentali non c’è alcuna intenzione di punire israele. Anzi. Molti stati
federali americani hanno promulgato leggi anti BDS (Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni); la Francia ha votato una legge anti BDS che ha già
fatto le sue vittime tra i simpatizzanti del movimento BDS. La stessa Italia ha
una legge già pronta ferma in un cassetto di qualche commissione parlamentare.
L’altra condizione è la paura. Se il popolo israeliano vivesse nella
paura di atti di resistenza sempre più numerosi che possono mettere in pericolo
la vita spensierata e felice che conducono (secondo le statistiche è uno dei
paesi più felici al mondo!) sarebbero loro stessi a rovesciare il sistema
politico ed a cercarne un altro che garantisca un vero dialogo magari unendosi
ai palestinesi per cercare di vivere meglio assieme. Non sto inneggiando alla
violenza. Semmai alla resistenza contro la violenza dell’occupante sempre più
sanguinaria e spavalda e non curante del diritto internazionale. Sto dicendo
una cosa che molti pensano ma non vogliono ammettere.
Ma forse c’è qualcosa che può scardinare queste mie tristi certezze. La
società civile. La società civile che spesso è stata capace di scardinare corsi
storici ritenuti ormai ineluttabili. Se la società civile, in ogni paese
in ogni nazione, boicotta dal basso ogni prodotto, anche culturale, proveniente
da Israele non si avrà bisogno di imbracciare i fucili. Questa rivoluzione
pacifica che giorno dopo giorno sta crescendo si chiama BDS. Speriamo che
funzioni perché l’alternativa è o altro sangue o la svendita della
patria per un po’ di elemosina.
“Perché svegli il mondo?”
“Questa non è la mia voce. E’ il tonfo del mio cadavere che cade a terra.”
“Perché non muori in silenzio?”
“Perché una morte in silenzio è una vita insignificante.”
“E una morte urlata?”
“E’ una causa.”
“Sei venuto a dichiarare la tua presenza?”
“Al contrario, sono venuto a dichiarare la mia assenza.”
“Perché uccidi?”
“Non uccido che l’omicidio. Non uccido che il crimine.”
“Vai all’inferno.”
“Vengo dall’inferno.”
Mahmud Darwish, autore e poeta
Palestinese nato nel 1941 ad al -Birwa un villaggio Palestinese
che non esiste più perchè raso al suolo dagli israeliani, morto a Houston –
Texas nel 2008. Il brano è preso da “Diario di ordinaria tristezza” racconto
poetico contenuto in “Una trilogia palestinese” edizioni economiche
Feltrinelli
quando cominciai ad insegnare mi si diede una classe di seconda elementare in una scuola di un paese agricolo della sardegna meridionale; era un paesone in decadenza con molti bambini e quindi anche molti bocciati, e la mia era una classe di seconda elementare di tutti bocciati; poiché le classi differenziali erano oramai illegali la mia (che, oltre che differenziale di fatto, era ghettizzata fuori dall'edificio dei bambini normati e collocata in solitudine in piazza di chiesa) portava come giustificazione formale della sua strana differenzialità la possibile presenza del tracoma, una patologia oculare in realtà tramontata da tempo; non dico qui il nome del paese ma dico il nome di uno dei bambini, luca, perché devo riportare qua una delle composizioni più scombinate e meravigliose che mi sia mai capitato di leggere e di tenere nella memoria come un faro; purtroppo non ricordo qualche riga, in quanto sono passati quarantadue anni; ma a fianco del tema del mio piccolo luca riporto qui di seguito una strofa del grande bob dylan, che dedico all'ex capo dell'unione europea barroso testé passato al servizio della gang crim-nanziaria goldman sachs, balia girevole di tanta gente bella e brutta (per es. per l'italia mario draghi, gianni letta, romano prodi, mario monti ecc.); perché metto qui di fila il tema del mio piccolo bambino differenziato e la strofa del mio sgarbatissimo premio nobel? per una semplicissima ragione, perché sono io il padrone dei miei poemi ((suggerimento, m.heidegger, perché i poeti))
LUCA: "fuori paese ci vanno tutti, solo io non ci sono andato mai; però un giorno io anderò fuori paese e girerò, e poi un giorno muorirò e anderò alla bara e non tornerò mai più mai più; ma un giorno io mi sono svegliato fuori paese e c'era molta gente e pioveva; ho visto il pupazzo con il zucchero filato e il fuoco in bocca; io sono scemo."
BOB: "spero che moriate, e che la vostra morte venga presto, seguirò la vostra bara in un pallido pomeriggio, resterò a vedervi calare nel vostro letto di morte, e starò fermo sulla vostra tomba finché non sarò sicuro che siete morti":
e poi in un commento, più sotto, ancora Gian Luigi, baciato dalla poesia, scrive:
oh dio, maestro-poeta è una cosa che dà le vertigini, ma in realtà la vertigine è una cosa che possono provare tutti e allora si deve fare: ovvero, tutti sono poeti e tutti perdiamo l'unico vero tesoro che possediamo se imbavagliamo la poesia e tanto più se la costringiamo di forza nei canoni di scrittura: i canoni sono il vestito e più che spesso sotto il vestito vi è niente; allora cosa è una poesia? a bruciapelo risponderei come rispose una volta bob dylan, "una poesia è un uomo nudo"; poi risponderei con un testo del grande poeta pete sinfield che era l'autore dei testi del gruppo rock king crimson: un testo in cui l'uomo che era in orario chiese all'uomo che era in ritardo "dove sei stato", e questi risponde come il mio piccolo luca: "io sono stato qui, e sono stato là, e sono stato in mezzo"; dunque io g.l.d., come tutti, trovo la mia nuda salvezza nell'essere qui, là e in mezzo fra qui e là, fuori posto e fuori orario, laddove io e me siamo già in due; poiché la poiesis è una parola greca è bene sapere cosa significa: significa "fare", certamente non "fare" nel senso di fare la legna o aggiustare la bicicletta, ma "fare" il proprio stato d'animo, e poi eventualmente trovare le parole che lo possono vestire e che lo possono trasfigurare e farne una visione; ma scrivo queste righe, adesso, perché ho un debito altrettanto inestinguibile di quello che ho col mio piccolo luca: è il debito con la fotografia di un lupo artico; la fotografia è riportata nel libro di un naturalista dell'artico, di nome barry lopez e quel libro era intitolato "lupi"; nella foto, assolutamente imperfetta e scattata nella foschia sul bordo di un ruscello innevato, sono presenti un caribù esausto per la sua vana fuga e il lupo immobile di fronte a lui; il lupo spegne per un lungo istante l'aggressività connaturata alla sua necessità di caccia e ha lo sguardo rivolto a terra; la foto è stata scattata in quel tempo sospeso di immobilità dei due animali; nel testo barry lopez spiega che gli indiani chiamano questa condizione di reciproco rispetto e pudore "la preghiera della morte"; questa è secondo me la poesia più sublime cui un essere umano possa aspirare, quantunque l'autore di questa poesia non sia un uomo; ecco perché i saggi e i bambini vedono dio in quelle sembianze sfumate nella neve, e dovunque, qui, là, o in mezzo; ed ecco perché l'uomo che è prioritariamente "puntuale" non è in grado di vedere dio da nessuna parte, né di vedere l'uomo, né di fare (fare) se stesso.
Nell’omicidio del giornalista slovacco Jan Kuciak
e della fidanzata spunta la pista della ‘Ndrangheta. Secondo Antonio Papaleo,
un reporter italiano minacciato di morte per le sue inchieste, il movente del
duplice omicidio sarebbe da ricercare nel lavoro che Kuciak stava realizzando
sulle truffe compiute da società fantasma legate ad un imprenditore calabrese.
Spunta la pista della ‘Ndrangheta nell'omicidio
di Jan Kuciak, il giovane giornalista slovacco assassinato insieme alla
compagna all'interno del loro appartamento nella cittadina di Velka Maca,
a 60 chilometri da Bratislava. A due giorni dalla scoperta dei corpi senza vita
del reporter del giornale online Aktuality.sk e della fidanzata, si fa largo
l’ipotesi che dietro al duplice omicidio ci sia la mano dell’organizzazione
criminale calabrese.
Per saperne di più, Fanpage.it ha intervistato
Antonio Papaleo, un giornalista italiano che ha vissuto per molti anni in
Slovacchia. Papaleo è un reporter investigativo e sa cosa significhi ricevere
minacce di morte. Nel 2014 è sopravvissuto ad un agguato in Thailandia, dove si
era rifugiato per sfuggire alla vendetta dei criminali slovacchi finiti in
galera dopo una sua inchiesta. Il giornalista, con una telecamera nascosta,
aveva documentato il riciclaggio di denaro che da Bratislava portava i proventi
di attività illecite fino alle banche di Hong Kong. Da allora è costretto a
cambiare località ogni tre mesi per evitare di essere ucciso. Secondo Papaleo,
nell'omicidio di Kuciak sarebbe coinvolto un imprenditore calabrese con decine
di società nel Paese dell’Europa centrale.
Che idea si sei fatto dell’omicidio del reporter Jan Kuciak e della sua
fidanzata?
Jan è il terzo giornalista slovacco la cui sorte
è stata tragicamente segnata dall'impegno giornalistico. Anche Palo Richtar e
Miroslav Pejko potrebbero aver pagato con la vita il loro coraggio. Le loro
famiglie e l'intera società civile hanno diritto a sapere, al più presto, tutta
la verità.
Quali piste stava seguendo Kuciak?
Si occupava di frodi erariali ed evasioni fiscali
di grosso respiro ma lavorava in team, spesso anche con giornalisti di
redazioni diverse. Era anche stato minacciato più volte e la polizia sarà ora
sicuramente all'opera per rispolverare tutte le sue vecchie denunce. Sono certo
che sarà molto facile elencare ed investigare tutti quelli che hanno avuto un
vantaggio dalla morte di Kuciak. E' probabile comunque che la pista
investigativa prediletta dagli inquirenti sia proprio quella legata alle sue
recentissime investigazioni su un discusso imprenditore calabrese.
Quali sono gli elementi che le fanno pensare che sia la ‘Ndrangheta il
mandante dell’omicidio?
E' il capo della polizia slovacca a dire che
investigherà come possibili mandanti tutti coloro sui quali Jan aveva lavorato
in passato. Io ho solo rivelato per primo l’identità dell'imprenditore
calabrese che Jan e Ivan (Ivan Brada, un giornalista della Tv di Stato
slovacca, ndr) stavano investigando e di cui anche Tom Nicholson, il direttore
del quotidiano slovacco Dennik N, era a conoscenza pur non rivelandone il nome:
A. V. di Bova Marina.
In alcune società di A.V. figurano come soci anche esponenti politici e
persino l’ex segretaria del primo ministro Fico. Quali sono le attività in
Slovacchia di questo imprenditore calabrese?
Le attività di questo signore, che ho persino conosciuto
personalmente nel corso delle mie inchieste sotto copertura in Slovacchia, sono
state tantissime ma non hanno certo prodotto sviluppo od occupazione. Tuttavia
le sue aziende hanno ricevuto importanti contributi finanziari dall'Unione
Europea, hanno comprato e venduto ingenti beni ed hanno transato forti somme di
danaro. Non posso io stabilire la legittimità dei suoi affari ma posso
tranquillamente affermare che il sistema fiscale slovacco consente a disinvolti
"imprenditori" di operare in un regime di relativa impunità.
Quali sono i settori economici slovacchi in cui la ‘Ndrangheta ha messo le
mani?
L'Italia è il quarto partner commerciale della
Slovacchia e migliaia di nostri connazionali operano stabilmente nel Paese. Il
crimine organizzato contribuisce certamente ad alimentare il flusso degli
investimenti complessivi operati dalla comunità italiana in Slovacchia e si
concentra negli investimenti immobiliari e nell'acquisizione di proprietà
terriere e demaniali.
Come fa la ‘Ndrangheta a realizzare le truffe sui finanziamenti europei?
Le truffe carosello sull’Iva e l'evasione fiscale
sono le più produttive ma anche presentare un progetto ammesso a contributo e
distrarne i fondi ricevuti per mezzo di fatture false o gonfiate è un modo per
conseguire forti guadagni illeciti. Le organizzazioni criminali italiane,
specialmente la ‘Ndrangheta, hanno i capitali e le risorse umane per costruire
facilmente il castello necessario a realizzare questo tipo di artifici.
Nell'inchiesta sulla morte di Kuciak stanno emergendo anche i nomi di
politici slovacchi di primo piano. Pensa che l’omicidio del reporter avrà delle
ripercussioni politiche?
Sì. Tutti i governi slovacchi, sin dalla
separazione dei due stati, non hanno mai preso in considerazione il contributo
che la libertà di stampa offre alla democrazia. Questa è una colpa
imperdonabile di tutti i politici slovacchi. La morte di Jan e Martina avrà il
suo peso nel progresso etico e sociale del Paese.
Il primo omicidio di un giornalista nella storia
della Slovacchia ha suscita molta commozione. “E’ incredibile che una cosa del
genere sia successa nel nostro Paese – ha affermato il presidente della
repubblica – dobbiamo velocemente trovare i colpevoli e garantire la sicurezza
dei giornalisti”. E il primo ministro Fico ha promesso una ricompensa di un
milione di euro a chiunque fornisca informazioni che contribuiscano all'arresto
dell'assassino di Jan Kuciak e della fidanzata Martina Kusnírova.
Pochi giorni fa Telesur, la televisione latinoamericana voluta da Hugo Chavez, ha intervistato Noam Chomsky, probabilmente il più importante studioso di linguistica al mondo e lucido analista politico controcorrente, le cui riflessioni hanno sempre una certa risonanza soprattutto al di fuori dei mass media dominanti. Infatti, non mi risulta che i mass media internazionali abbiano dato molto risalto a questo suo ultimo intervento, pur avendo dedicato spazio ad interviste precedenti [1].
Chomsky ha esordito affermando che il potere degli Stati Uniti è dannoso all’umanità, ma che assicura tutti i vantaggi possibili all’oligarchia governante. Nella sua interessante analisi ha osservato che la politica statunitense si sviluppa attualmente su due livelli; da un lato, l’attenzione del mondo è focalizzata sulla figura di Donald Trump, che è un uomo di spettacolo, presentato come un pazzo e non sappiamo se cosciente del proprio ruolo. Se non si agisse in questo modo, se non si desse spazio a tutte le bugie che racconta attirando moltitudini, nessuno si preoccuperebbe di lui né gli presterebbe attenzione. Dall’altro, nello sfondo dietro le quinte, l’oligarchia, in particolare nella persona di Paul Ryan, presidente ultraconservatore della Camera dei rappresentanti, opera con sistematicità per smantellare quel che rimane dei diritti del lavoro, della protezione dei consumatori, della difesa dell’ambiente.
L'oligarchia repubblicana si preoccupa solo della borsa e non di due problemi fondamentali quali il riscaldamento della terra e la guerra nucleare, che provocherebbero lo sterminio dell'umanità e la fine della civiltà. Quest’ultima si realizzerà se non si rallenta il riscaldamento del globo terrestre o si scatena una guerra nucleare. Le azioni di Trump non fanno altro che acuire questi problemi, prefigurando da un lato una possibile guerra nucleare; dall’altro con la decisione unilaterale di ritirarsi dagli accordi di Parigi sul clima e con il non rispetto dei parametri stabiliti. Nel suo discorso annuale Trump ha parlato del carbone pulito, che è invece assai contaminante. Tutto ciò è accompagnato dai tagli agli investimenti alla ricerca sull’individuazione di fonti di energia rinnovabile.
Non bisogna cadere nell’errore di credere che queste scelte politiche – continua Chomsky – siano responsabilità del solo Trump; esse sono condivise da tutti gli esponenti più importanti del partito repubblicano, come per esempio Rex Tillerson, segretario di Stato e presidente della Exxon Mobile. Essi sono stati informati dagli scienziati che l’uso del petrolio ha effetti nocivi, e la cosa è di dominio pubblico da anni. D’altra parte, Trump conosce le conseguenze negative dell’impiego delle energie non rinnovabili e ciò è dimostrato dal fatto che ha costruito un muro per difendere i suoi numerosi campi da golf dal possibile innalzamento del livello del mare. Ciò nonostante i politici repubblicani non fanno niente, mostrando sostanzialmente di essere dei criminali, dal momento che continuano con le loro politiche dannose, perché da esse ricavano vantaggi economici.
Da queste considerazioni il linguista statunitense evince che il partito repubblicano costituisce l’organizzazione più pericolosa che è mai apparsa nella storia dell’umanità. Se arriviamo a compararli con la figura di Hitler, vedremo che questi non si proponeva di distruggere il futuro dell’esistenza umana (magari solo di una parte); invece, questi politici criminali perseguono apertamente questo fine, pur essendo persone istruite e non certo dei fondamentalisti religiosi, e al solo scopo di guadagnare sempre più [2].
Chomsky sottolinea che le sue considerazioni sono ispirate anche dagli scienziati, analisti politici e studiosi che fanno parte del Doomsday Club [3] che in un rapporto annuale stimato attraverso un’orologio metaforico il tempo che ci separa dalla completa distruzione della nostra civiltà (l’‘apocalisse’). Secondo questo orologio, che scorre avanti o indietro a seconda delle minacce in campo, mancherebbero nel 2018 solo 2 minuti all’evento irreparabile.
Quanto al potere oggi declinante degli Stati Uniti, il linguista statunitense afferma che esso raggiunse il suo culmine nel 1945, quando essi controllavano praticamente tutto il mondo. Molto rapidamente, però, il loro dominio cominciò a deteriorarsi. Nel 1949 la Cina si rese indipendente e si costituì come Repubblica Popolare, fatto che fu interpretato dagli Stati Uniti come la perdita del loro dominio mondiale, perché questo immenso paese non poteva più essere controllato. Nel dopoguerra l’Europa ricostruì la sua economia e la sua industria, il processo di decolonizzazione cambiò il volto del mondo. Negli anni ’70 gli Stati Uniti controllavano il 25% dell’economia mondiale. All’epoca il mondo era tripolare: le potenze economiche erano rappresentate dagli Stati Uniti in America, dalla Germania in Europa e dal Giappone in Asia, prima dell’emergere dell’economia cinese.
Dal punto di vista militare e tecnologico gli Stati Uniti sono oggi più avanzati degli altri paesi, mentre economicamente si stanno indebolendo, anche se a partire dagli anni ’90 con la cosiddetta globalizzazione neoliberale non è più opportuno parlare di potenza nazionale, ma bisogna tenere conto del potere effettivo delle corporazioni. Secondo uno studio condotto da scienziati, analisti politici e diplomatici quelle statunitensi sono padrone della metà del mondo e sono interamente intrecciate con lo Stato, che di fatto è da loro governato. Esse controllano tutti i settori: industria, finanza, commercio etc. Secondo il linguista statunitense queste trasformazioni dovrebbero suggerirci di ripensare la nostra nozione di potere e portarci alla conclusione che, nonostante il declino economico, gli Stati Uniti continuano a primeggiare mediante l’espansione delle loro corporazioni.
Quanto all’attività della CIA Chomsky ritiene che essa non agisca di sua iniziativa, ma che al contrario faccia esattamente ciò che gli viene ordinato e costituisca il braccio esecutivo del governo; in questo modo quest’ultimo ha la possibilità di scaricare su questa istituzione tutte le atrocità che accadono o gli errori commessi. Per questa ragione l’America Latina ha espulso i suoi agenti da venti anni. “Ricordo, per esempio, – continua Chomsky – che Rafael Correa affermò che gli Stati Uniti potevano mantenere la loro base militare in Ecuador, se avessero permesso al suo paese di costruirne una a Miami”.
Interessanti sono anche le riflessioni dello studioso statunitense sul concetto di ‘intervento umanitario’, che è il modo per giustificare ogni ingerenza aggressiva compiuta da una delle potenze mondiali, ovviamente non considerata tale dalle sue vittime. Menziona il bombardamento della Serbia del 1999 da parte della Nato, ossia degli Stati Uniti, giustificato con il fatto che si doveva poner termine alle atrocità compiute dai serbi contro gli albanesi, i quali d’altra parte organizzavano attentati terroristici in quel paese, proprio per sollecitarlo; bombardamento che di fatto scatenò tali atrocità, che perlopiù si verificarono dopo l’intervento.
Da questo momento il problema dell’intervento umanitario entrò nell’agenda internazionale e a questo proposito Chomsky riporta due importanti decisioni prese nell’ambito delle Nazioni Unite. Queste ultime formularono una risoluzione sulla necessità formale di proteggere i popoli dalle azioni aggressive e repressive dei loro governi, ma non militarmente. In secondo luogo, sempre su questo tema la Commissione presieduta dall’ex primo ministro australiano Gareth Evans (International Commission on Intervention and State Sovereignty, 2001) aggiunse un altro elemento: nel caso in cui il Consiglio di sicurezza non autorizzi l’ingerenza militare, organizzazioni regionali possono intervenire con la forza a difesa degli ‘oppressi’, richiedendo solo in seguito l’approvazione ONU. Qual è – si chiede Chomsky – l’unica organizzazione regionale in grado di intervenire in situazioni che richiedano l’uso della forza? La Nato ovviamente, ossia gli Stati Uniti. Pertanto, ciò significa che la Commissione Evans ha deciso che tali interventi solo legali, benché essi siano in contraddizione con quanto stabilito in termini generali dalle stesse Nazioni Unite.
Da questo punto di vista anche il bombardamento della Libia, che ha provocato il disgregamento di questo paese un tempo stabile e con un tenore di vita accettabile, può essere interpretato come un intervento umanitario volto contrastare la ferocia de Gheddafi. Richiamandosi a queste decisioni degli Stati Uniti, Chomsky osserva che la “responsabilità di proteggere” è diventata legale anche se implica azioni militari, e ciò è reso possibile dalle conclusioni cui è giunta la Commissione Evans, non dalla risoluzione dell’Assemblea generale riferita in precedenza. Ma il sistema di propaganda mette in risalto soltanto quanto deciso dalla Commissione per rendere accettabili e persino auspicabili le guerre, che in questo stesso momento si stanno combattendo in tanti paesi del mondo.
Aggiungo per concludere che questo dibattito sull’ingerenza umanitaria ricorda molto le secolari riflessioni sulla guerra giusta sviluppatesi nel seno della Chiesa cattolica, la quale alla fine l’ha considerata legittima come ultima ratio, come del resto confermano le parole di Papa Wojtyla: “Non sono un pacifista”.
Chi segue le vicende della lotta No Tav in Val di Susa non si è affatto sorpreso nell’apprendere gli ultimi sviluppi. Sviluppi che i grandi giornali, i media mainstream, si sono ben guardati dal riportare. Per fortuna ne ha scritto su il manifesto il “nostro” Maurizio Pagliassotti, e da lì la notizia ha preso a circolare sui social, ripresa poi da molte testate indipendenti. La presidenza del Consiglio dei ministri, in un documento ufficiale [PDF qui], riconosce il dato di realtà che economisti dei trasporti, esperti di logistica, ingegneri delle infrastrutture, fisici e altri tecnici e scienziati vanno spiegando da anni: il progetto della nuova linea Torino – Lione è basato su stime sbagliate e previsioni infondate. In parole povere: la linea è completamente inutile. Ripeto: chi segue la vicenda non si è affatto sorpreso. Benché farlo notare sia ritenuto poco fine, tutte le parti in causa sanno da tempo che quella linea non esisterà mai. A ventisette anni dai primi annunci, non se ne è ancora realizzato un solo centimetro (il buco in Val Clarea non è quello dove passerà il treno, ma un cunicolo geognostico); i francesi, dal canto loro, hanno fatto capire più volte che non gliene importa nulla, per la tratta di loro competenza non c’è nemmeno un progetto preliminare, dicono che inizieranno a pensarci«dopo il 2030». Il progetto del 2004 fu ritirato dopo la riconquista della Libera Repubblica di Venaus, e quello attuale — surrealmente definito «low cost» — ha perso un pezzo dopo l’altro, ed è plausibile che tra poco si ridurrà al solo «tunnel di base» da Susa a Saint-Jean-de-Maurienne (un inutile traforo di 57 chilometri) e all’insensata e fuori scala «stazione internazionale» (?) a San Giuliano di Susa. Ci sarebbe anche da scavare un tunnel sotto la collina morenica tra Rivoli e Avigliana, ma hanno già detto che forse, chissà, non lo fanno più. Merito della costante pressione della lotta No Tav, anche se il governo non può ammetterlo in nessun caso. Due anni fa, quando il ministro Graziano Delrio annunciò la cancellazione di una delle tratte più controverse e contestate dal movimento, la cosiddetta «Gronda Nord» di Torino, la presentò come un’intuizione sua e dei suoi tecnici. Una «intelligente rivisitazione del progetto», disse. Ogni movimento dal basso dev’essere raccontato come movimento dall’alto. E quando diventa proprio impossibile non ammettere che il «basso» ha ragione, e ha avuto ragione per tutto il tempo, bisogna farlo annacquando il più possibile, aggiungendo fuffa e scaricando le responsabilità, dando la colpa alla «crisi» come se si stesse parlando del maltempo, invitando a scurdasse ‘o passato… Come nel caso in oggetto: «Non c’è dubbio infatti che molte previsioni fatte quasi dieci anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica di questi anni che ha portato anche a nuovi obiettivi per la società, nei trasporti declinabili nel perseguimento di sicurezza, qualità, efficienza […] Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni, e nessuna persona di buon senso e in buona fede può stupirsi di ciò. Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni, a suo tempo assunte potevano essere diverse […]» Il governo non sta dicendo: abbiamo sbagliato, avevate ragione, parliamone. Al contrario, sta dicendo: abbiamo sbagliato ma è ininfluente, perché abbiamo ragione lo stesso e non c’è altro da dire. Infatti, subito dopo, si aggiunge che per poter continuare i lavori è necessario liberarsi«dall’obbligo di difendere i contenuti analitici delle valutazioni fatte anni fa». In soldoni, la grande opera va sganciata da tutte le motivazioni sinora date per giustificarla. Motivazioni ormai insostenibili, perché troppe volte smontate, ormai pura zavorra discorsiva.
La conclusione è dunque: si va avanti. A dispetto di ogni realtà, si va avanti. E nemmeno questa è una novità. Si va avanti perché «ormai». Si va avanti perché, come scrivevamo già nel 2013, «ci sono soldi già stanziati e spesi, impegni da “rispettare”, appalti, subappalti, nomi e cognomi messi in gioco, mani che stringono scroti». (Ciò vale anche per altri progetti insensati, come il Terzo Valico e il Tav Brescia-Verona, e in generale per quasi tutte le grandi opere in Italia: utili esclusivamente a chi ottiene gli appalti per costruirle, inutili per tutti gli altri; monumenti allo sperpero e alla deturpazione del territorio). Si va avanti perché bisogna tenere in piedi la facciata. Si va avanti perché, come ha detto a un processo, uno dei tantissimi processi celebrati contro i No Tav, un PM oggi in pensione: «il danno grave per il paese [è] il rischio della libera determinazione della pubblica autorità che [sarebbe] in crisi. Perché lì è il rischio per l’istituto democratico, ed è lì che ovviamente anche se [il governo] la ritiene inutile c’è una questione più forte, perché significherebbe rinunciare al principio di democrazia e quindi l’opera deve andare avanti a costo di impiegare l’esercito per farla andare avanti.» Infatti l’hanno impiegato. Maddalena ha detto chiaro e tondo quello che altre figure di potere tengono sottaciuto: non è nemmeno più una questione economica, ma principalmente una questione di dominio sui territori. Bisogna far vedere chi comanda, occultare il più possibile la vittoria dei No Tav, evitare il “contagio” e una devastante crisi di legittimità. Per questo hanno militarizzato un’intera valle. Per questo hanno diffamato e criminalizzato l’intera popolazione di quella valle. Per questo hanno inquisito, incarcerato, processato, condannato centinaia di persone. Su questa linea — benché l’appoggio più entusiastico e incondizionato alla repressione sia arrivato sempre dal Pd, che annovera tra le sue file «anti-notav» a tempo pieno come il senatore Stefano Esposito — tra «centrodestra» e «centrosinistra» non vi è mai stata alcuna discrepanza. A quel livello, l’unico livello che conti, cioè il livello del comando capitalistico, le «larghe intese» hanno la priorità su tutto ed esiste un solo “partito”. Questa è esattamente la storia che ho raccontato nel mio libro Un viaggio che non promettiamo breve. 25 anni di lotte No Tav (Einaudi, 2016). Nel frattempo gli anni sono diventati ventisette. Ventisette anni che hanno profondamente trasformato la Val di Susa e chi ci vive. Ventisette anni di storia che è imperativo conoscere. Perché, a dispetto di tutto e contro ogni apparenza, il movimento No Tav sta vincendo. Sta vincendo, e nasconderlo è sempre più difficile. Sta vincendo per tutte e tutti noi, e questa vittoria può insegnarci molto. Non ultimo, può insegnarci a riconoscere, accreditare, valorizzare altre vittorie delle quali non ci accorgiamo. Perché in Italia si lotta, e a volte si vince. È anche per nascondere questo che vi parlano ossessivamente di «clandestini», «degrado» e altri diversivi. Spazziamo via i diversivi. Parliamo delle lotte. da qui
Follie criminali. Segretamente a
Sigonella sta per entrare in funzione la Joint Tactical Ground Station (JTAGS),
la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di pronto
allarme USA per l’identificazione dei lanci di missili balistici con testate
nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali. Nell’area 465 della base
sorgerà il nuovo sito di guerra missilistico e nucleare. Della nuova
“ricollocazione” a Sigonella grande felicitazione del Presidente del Consiglio
Renzi e della Ministra Pinotti. Il governo italiano pare non abbia ritenuto
doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica. Mister Trump ha
annunciato un piano di “modernizzazione” degli arsenali che costerà più di
1.300 miliardi di dollari nei prossimi 30 anni. Vorrebbe testate nucleari per
“effettuare attacchi chirurgici con un numero ridotto di vittime”. Per le opere
urbanistiche la US Navy ha affidato i lavori di costruzione degli impianti
JTAGS alla D’Auria Costruzioni S.r.l. di Lamezia Terme che sembrerebbe una
società quantomeno discutibile.
C’è un sistema che dalla fine della
Seconda guerra mondiale consente di misurare il tempo mancante all’olocausto
nucleare planetario. Si tratta di un orologio virtuale, il Doomsday
Clock, le cui lancette si avvicinano o si allontano dalla fatidica mezzanotte
dell’umanità a secondo la gravità dei conflitti in atto o dell’evoluzione della
corsa al riarmo atomico. Questo sistema è stato adottato da centinaia di
scienziati di fama internazionale che periodicamente pubblicano un report sulBulletin
of the Atomic Scientists dove “fotografano” la distanza delle lancette
dalla maledetta ora X. Qualche giorno fa, nel corso di una conferenza stampa a
Washington, il Presidente della prestigiosa rivista scientifica, Rachel
Bronson, ha lanciato l’allarme: “Mancano solo due minuti alla mezzanotte”.
Lancette così vicine all’ecatombe nucleare non si vedevano dai tempi della
guerra fredda USA-URSS e dell’installazione in Europa dei missili a medio
raggio (i Cruise, i Pershing e gli SS-20) e di 112 testate atomiche nell’allora
base statunitense di Comiso, Ragusa. “L’odierna minaccia nucleare è
insostenibile”, ha aggiunto Rachel Bronson. Nel pianeta la guerra è globale e
permanente, anzi perpetua, e il presente e il futuro prossimo sono pesantemente
minacciati dall’escalation nucleare di decine di grandi e medie potenze, dalle
crescenti tensioni tra USA e Russia, USA e Cina, USA e Corea del Nord e – come
avvertono gli scienziati No War - dal “miglioramento
tecnologico delle armi nucleari che producono la concreta possibilità che esse
vengano usate”.
A rendere ancora più inquietanti gli
scenari internazionali e mettere profondamente in pericolo la stessa
sopravvivenza di ogni forma di vita nel pianeta ci ha pensato la nuova
amministrazione statunitense: mister Trump ha annunciato una radicale riforma
della postura nucleare a stelle e strisce grazie a un piano di
“modernizzazione” degli arsenali che nei prossimi 30 anni dilapiderà più di
1.300 miliardi di dollari. Obiettivo chiave della nuova dottrina nucleare
statunitense, lo sviluppo di testate nucleari a potenza
ridotta, anche di un solo kiloton (17 volte meno potente della bomba sganciata
su Hiroshima) per “effettuare attacchi chirurgici con numero ridotto di
vittime”. E poi ancora altre atomiche più precise e più potenti da
utilizzare con i nuovi caccia, i sottomarini e i missili a medio e lungo
raggio, forse anche con una nuova generazione di aerei senza pilota e senza
controllo umano a distanza. I moderni dottor Stranamore del Pentagono puntano
alla supremazia assoluta in campo tecnologico e nucleare e all’annientamento
ovunque e comunque di ogni minaccia, anche di quella rappresentata magari da
piccoli gruppi insorgenti contro cui potrebbero essere sganciate le nuove
mini-atomiche per la “guerra nucleare limitata”. Un mixer di ultra sofisticati
sistemi radar e satellitari, centri di comando, controllo, comunicazione e
intelligence consentirebbe – sempre secondo Trump & C. – di poter
“controllare” preventivamente ogni eventuale operazione missilistica nemica e
scatenare dunque il “primo colpo” nucleare, evitando qualsiasi ritorsione e
dunque i limiti-pericoli della cosiddetta “Mutua distruzione assicurata”.
Follie criminali con immediate ricadute
innanzitutto sui paesi partner alleati di Washington, Italia in testa. I nuovi
sistemi di distruzione di massa, infatti, sono destinati ad essere installati
(e utilizzati) principalmente in Europa, a partire dalle ammodernate bombe
aviotrasportate a guida laser B-61 da custodire nei bunker delle basi di Ghedi
(Brescia) e Aviano (Pordenone) o delle potentissime testate che armeranno i
sommergibili a propulsione atomica che incrociano le acquee nazionali e sempre
più spesso approdano ad Augusta, Napoli, La Spezia, Taranto.
Anche la base di Sigonella, capitale
mondiale dei droni da guerra e base avanzata per le forze speciali e di pronto
intervento USA e NATO, assumerà un ruolo strategico nei programmi di supremazia
nucleare planetaria delle forze armate degli Stati Uniti d’America.
Segretamente, senza che mai il governo italiano abbia ritenuto doveroso
informare il Parlamento e l’opinione pubblica, sta per entrare in funzione
nella grande infrastruttura militare siciliana la Joint Tactical Ground Station
(JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di
“pronto allarme” USA per l’identificazione dei lanci di missili balistici con
testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali.
Es un gran honor estar aquí ante
ustedes esta noche. Quizás, como el gran maestro Riccardo Muti, no estoy
acostumbrado a estar ante un público sin orquesta tras de mí, pero lo haré lo
mejor que pueda como artista en solitario hoy.
Anoche me quedé en vela, pensando
qué podía decir aquí, en esta asamblea de distinguidas personas. Y después de
comerme todas las chocolatinas, todos los cacahuetes del minibar, garabateé
unas pocas palabras. No creo que tenga que hacer referencia a ellas.
Obviamente, estoy muy emocionado por ser reconocido por la Fundación. Pero he venido aquí esta noche para expresar otra dimensión de mi
gratitud;creo que puedo hacerlo en tres o cuatro minutos y voy a
intentarlo.
Cuando estaba haciendo el equipaje
en Los Ángeles, tenía cierta sensación de inquietud porque siempre he sentido
cierta ambigüedad sobre un premio a la poesía. La poesía viene de un lugar que
nadie controla, que nadie conquista. Así que me siento como un
charlatán al aceptar un premio por una actividad que yo no controlo. Es decir,
si supiera de dónde vienen las buenas canciones, me iría allí más a menudo.
Mientras hacía el equipaje, cogí
mi guitarra. Tengo una guitarra Conde que está hecha en el
gran taller de la calle Gravina, 7, en España. Es un instrumento que
adquirí hace más de 40 años. La saqué de la caja, la alcé, y era como si
estuviera llena de helio, era muy ligera. Y me la acerqué a la cara, miré de
cerca el rosetón, tan bellamente diseñado, y aspiré la fragancia de la madera
viva. Ya saben que la madera nunca llega a morir. Y olí la fragancia del cedro,
tan fresco como si fuera el primer día, cuando la compré. Y una voz parecía
decirme: «Eres un hombre viejo y no has dado las gracias, no has devuelto
tu gratitud a la tierra de donde surgió esta fragancia». Así que vengo
hoy, aquí, esta noche, a agradecer a la tierra y al alma de este pueblo que me
ha dado tanto. Porque sé que un hombre no es un carnet de identidad y un país
no es solo la calificación de su deuda.
Ustedes saben de mi profunda
conexión y confraternización con el poeta Federico García Lorca.
Puedo decir que cuando era joven, un adolescente, y buscaba una voz en mí,
estudié a los poetas ingleses y conocí bien su obra y copié sus estilos, pero
no encontraba mi voz. Solamente cuando leí, aunque traducidas, las obras de
Federico García Lorca, comprendí que tenía una voz. No es que haya copiado su
voz, yo no me atrevería a hacer eso. Pero me dio permiso para
encontrar una voz, para ubicar una voz, es decir, para ubicar el yo, un yo que
no está del todo terminado, que lucha por su propia existencia. Y
conforme me iba haciendo mayor comprendí que con esa voz venían enseñanzas.
¿Qué enseñanzas eran esas? Nunca lamentarnos gratuitamente. Y si uno quiere
expresar la grande e inevitable derrota que nos espera a todos, tiene que
hacerlo dentro de los límites estrictos de la dignidad y de la belleza.
Y entonces ya tenía una voz, pero
no tenía el instrumento para expresarla, no tenía una canción.
Y ahora voy a contarles muy
brevemente la historia de cómo conseguí mi canción.
Porque era un guitarrista
mediocre, aporreaba la guitarra, solo sabía unos cuantos acordes. Me sentaba
con mis amigos, mis colegas, bebiendo y cantando canciones, pero en mil años
nunca me vi a mí mismo como músico o como cantante.
Pero un día, a principios de los
60, estaba de visita en casa de mi madre en Montreal. Su casa está junto a un
parque y en el parque hay una pista de tenis y allí va mucha gente a ver a los
jóvenes tenistas disfrutar de su deporte. Fui a ese parque, que conocía de mi
infancia, y había un joven tocando la guitarra. Tocaba una guitarra flamenca y
estaba rodeado de dos o tres chicas y chicos que le escuchaban. Y me encantó
cómo tocaba. Había algo en su manera de tocar que me cautivó. Yo quería tocar
así y sabía que nunca sería capaz.
Así que me senté allí un rato con
los que le escuchaban y cuando se hizo un silencio, un silencio
apropiado, le pregunté si me daría clases de guitarra. Era un joven de España,
y solo podíamos entendernos en un poquito de francés, él no hablaba inglés. Y
accedió a darme clases de guitarra. Le señalé la casa de mi madre, que se veía
desde las pistas de tenis, quedamos y establecimos el precio de las clases.
Vino a casa de mi madre al día
siguiente y dijo: «Déjame oírte tocar algo». Yo intenté tocar algo, y él
dijo: «No tienes ni idea de cómo tocar, ¿verdad?». Yo le dije:
«No, la verdad es que no sé tocar». «En primer lugar déjame que afine la
guitarra, porque está desafinada», dijo él. Cogió la guitarra y la afinó. Y
dijo: «No es una mala guitarra». No era la Conde, pero no era una guitarra
mala. Me la devolvió y dijo: «Toca ahora». No pude tocar mejor, la verdad.
Me dijo: «Deja que te enseñe
algunos acordes». Y cogió la guitarra y produjo un sonido con aquella guitarra
que yo jamás había oído. Y tocó una secuencia de acordes en trémolo, y dijo:
«Ahora hazlo tú». Yo respondí: «No hay duda alguna de que no sé hacerlo». Y él dijo:
«Déjame que ponga tus dedos en los trastes», y lo hizo «y ahora toca», volvió a
decir. Fue un desastre. «Volveré mañana», me dijo.
Volvió al día siguiente, me puso
las manos en la guitarra, la colocó en mi regazo, de manera adecuada, y empecé
otra vez con esos seis acordes –una progresión de seis acordes en la que se
basan muchas canciones flamencas–. Lo hice un poco mejor ese día. Al tercer día
la cosa, de alguna, manera mejoró. Yo ya sabía los acordes. Y sabía que aunque
no podía coordinar los dedos para producir el trémolo correcto, conocía los
acordes, los sabía muy, muy bien.
Al día siguiente no vino, él no
vino. Yo tenía el número de la pensión en la que se hospedaba en Montreal.
Llamé por teléfono para ver por qué no había venido a la cita y me dijeron que
se había quitado la vida, que se había suicidado.
Yo no sabía nada de aquel hombre.
No sabía de qué parte de España procedía. Desconocía porqué había venido a
Montreal, porqué se quedó allí. No sabía porqué estaba en aquella pista de
tenis. No tenía ni idea de porqué se había quitado la vida. Estaba muy triste,
evidentemente.
Pero ahora desvelo algo que nunca
había contado en público. Esos seis acordes, esa pauta de sonido
de la guitarra han sido la base de todas mis canciones y de toda mi música.
Y ahora podrán comenzar a entender las dimensiones de mi gratitud a este país.
Todo lo que han encontrado de
bueno en mi trabajo, en mi obra, viene de este lugar. Todo lo que ustedes han
encontrado de bueno en mis canciones y en mi poesía está inspirado por esta
tierra.
Y, por tanto, les agradezco
enormemente esta cálida hospitalidad que han mostrado a mi obra, porque es
realmente suya, y ustedes me han permitido añadir mi firma al final de la
página.
The transcript by Coco Éclair & Allan Showalter1begins at the point just after Cohen’s
opening salutations. The annotations and commentary are by Allan Showalter with
assistance from Adrian du Plessis, Ruth Stimson, Afric Prendergast, and
Coco Éclair.
It is a great honor to stand here before you tonight.
Perhaps, like the great maestro, Riccardo Muti,
I’m not used to standing in front of an audience without an orchestra behind
me, but I will do my best as a solo artist tonight.2
I stayed up all night last night wondering what I
might say to this assembly.3 After I had eaten all the chocolate
bars and peanuts from the minibar,4 I scribbled a few words.5 I don’t think I have to refer to them.
Obviously, I’m deeply touched to be recognized by the Foundation. But I have
come here tonight to express another dimension of gratitude; I think I can do
it in three or four minutes.
When I was packing in Los Angeles,6 I had a sense of unease because I’ve
always felt some ambiguity about an award for poetry. Poetry comes from a place
that no one commands, that no one conquers. So I feel somewhat like a charlatan
to accept an award for an activity which I do not command.7
In other words, if I knew where the good songs came
from I would go there more often.8
I was compelled in the midst of that ordeal of packing
to go and open my guitar.9
I pick up an instrument I acquired over 40 years ago.
I took it out of the case, I lifted it, and it seemed to be filled with helium
it was so light. And I brought it to my face and I put my face close to the
beautifully designed rosette,12 and I inhaled the fragrance of the
living wood. We know that wood never dies. I inhaled the fragrance of the cedar13 as fresh as the first day that I
acquired the guitar. And a voice seemed to say to me, “You are an old man14 and you have not said thank you, you
have not brought your gratitude back to the soil from which this fragrance
arose. And so I come here tonight to thank the soil and the soul of this land
that has given me so much.”15
Because I know that just as an identity card is not a
man, a credit rating is not a country.16
Now, you know of my deep association and confraternity
with the poet Frederico Garcia Lorca.17 I could say that when I was a young
man, an adolescent, and I hungered for a voice, I studied the English poets and
I knew their work well,18 and I copied their styles, but I
could not find a voice. It was only when I read, even in translation, the works
of Lorca that I understood that there was a voice. It is not that I copied his
voice; I would not dare. But he gave me permission to find a voice, to locate a
voice, that is to locate a self, a self that that is not fixed, a self that
struggles for its own existence.
As I grew older, I understood that instructions came
with this voice. What were these instructions? The instructions were never to lament
casually. And if one is to express the great inevitable defeat that awaits us
all, it must be done within the strict confines of dignity and beauty.
And so I had a voice, but I did not have an
instrument. I did not have a song.
And now I’m going to tell you very briefly a story of
how I got my song.
Because – I was an indifferent guitar player.19 I banged the chords. I only knew a
few of them.20 I sat around with my college friends,
drinking and singing the folk songs and the popular songs of the day,21 but I never in a thousand years
thought of myself as a musician or as a singer.22
One day in the early sixties,23 I was visiting my mother’s house in
Montreal. Her house was beside a park24 and in the park was a tennis court
where many people come to watch the beautiful young tennis players enjoy their
sport.25 I wandered back to this park which
I’d known since my childhood, and there was a young man playing a guitar. He
was playing a flamenco guitar, and he was surrounded by two or three girls and
boys who were listening to him. I loved the way he played. There was something
about the way he played that captured me. It was the way that I wanted to play
and knew that I would never be able to play.
And, I sat there with the other listeners for a few
moments and when there was a silence, an appropriate silence, I asked him if he
would give me guitar lessons. He was a young man from Spain, and we could only
communicate in my broken French and his broken French. He didn’t speak English.
And he agreed to give me guitar lessons. I pointed to my mother’s house which
you could see from the tennis court, and we made an appointment and settled a
price.
He came to my mother’s house the next day and he said,
“Let me hear you play something.” I tried to play something, and he said, “You
don’t know how to play, do you?”
I said, “No, I don’t know how to play.” He said “First
of all, let me tune your guitar. It’s all out of tune.” So he took the guitar,
and he tuned it. He said, “It’s not a bad guitar.” It wasn’t the Conde, but it
wasn’t a bad guitar. So, he handed it back to me. He said, “Now play.”
I couldn’t play any better.
He said “Let me show you some chords.” And he took the
guitar, and he produced a sound from that guitar I had never heard. And he played
a sequence of chords with a tremolo, and he said, “Now you do it.” I said, “It’s out of
the question. I can’t possibly do it.” He said, “Let me put your fingers on the
frets,” and he put my fingers on the frets. And he said, “Now, now play.”
It was a mess. He said, ” I’ll come back tomorrow.”
He came back tomorrow, he put my hands on the guitar,
he placed it on my lap in the way that was appropriate,26 and I began again with those six
chords – a six chord progression. Many, many flamenco songs are based on them.27
I was a little better that day. The third day –
improved, somewhat improved. But I knew the chords now. And, I knew that
although I couldn’t coordinate my fingers with my thumb to produce the correct
tremolo pattern, I knew the chords; I knew them very, very well.
The next day, he didn’t come. He didn’t come. I had
the number of his, of his boarding house in Montreal. I phoned to find out why
he had missed the appointment, and they told me that he had taken his life.
That he committed suicide.
I knew nothing about the man. I did not know what part
of Spain he came from. I did not know why he came to Montreal. I did not know
why he played there. I did not know why he he appeared there at that tennis
court. I did not know why he took his life.28
I was deeply saddened, of course. But now I disclose
something that I’ve never spoken in public. It was those six chords, it was
that guitar pattern that has been the basis of all my songs and all my music.29 So, now you will begin to understand
the dimensions of the gratitude I have for this country.
Everything that you have found favourable in my work
comes from this place. Everything , everything that you have found favourable
in my songs and my poetry are inspired by this soil.
So, I thank you so much for the warm hospitality that
you have shown my work because it is really yours, and you have allowed me to
affix my signature to the bottom of the page.
_____________________________
1.Coco Éclair prepared a complete,
direct transcription of Leonard Cohen’s words. I provided a modicum of editing
based on my own knowledge of Cohen’s phrases used in telling the anecdotes in
the past and, of course, on the English-only tape of the speech not available
to Ms Éclair. []
2.Ira Nadel, Cohen’s biographer, in an
interview recorded in “Leonard Cohen Under Review 1934-1977,” pointed out
Leonard as a performer is happiest, I think, when he’s
got company on stage. He’s always got his backup singers and he usually has a
substantial group accompanying him. It’s not just Leonard and a piano man or
Leonard and … someone on the drum kit. … He goes on tour and he establishes
this community that’s crucial for him. They provide a support for him … as the
performer. The fundamental thing is that he is part of a group. []
3.It is worth noting that Leonard
Cohen was the only musician ever honored with the Prince Of Asturias
Award For Letters. Consequently, one might have anticipated
that if Cohen’s speech were to focus on the arts, it would have spotlighted
poetry or prose. In such a case, one would have anticipated incorrectly. Cohen
has always taken the poet’s prerogative to use any platform as an opportunity
to address the issue of his interest. []
4.Leonard Cohen has a penchant for
such foodstuffs. Anjani tells of fueling the Cohen lyric-writing engine with candy
during their work together on the Blue Alert album:
The song was No One After You, and we just needed one
line to finish it so I could record it the next day:
I lived in many cities from Paris to LA I’ve known rags and riches
It was a bit tense as he paced back and forth. I
sat at the piano and didn’t move, didn’t say a word. Then he finally said, “I
need some chocolate if I’m gonna do this.”
That would have been milk chocolate, because he
doesn’t like dark — and of course I always keep some around — so he ate a bar
and about a minute later he came up with the line:
I’m a regular cliche
[Personal communication.] []
5.In addition to writing Chelsea Hotel
#2, based on his liaison with Janis Joplin at the Chelsea Hotel where Cohen
lived for some time and providing the music for and helping write “I Am a
Hotel,” a 24 minute video filmed at Toronto’s King Edward Hotel in 1983 which
won the Golden Rose at an international television festival in Montreux,
Leonard Cohen has frequently spoken about working in hotels. For example, he
often introduced “Hey That’s No Way To Say Goodbye” by referring to the site of
its origin (Diamonds In The Lines and back cover of 1976 “Greatest
Hits”):
This song arises from an over-used bed in the Penn
Terminal Hotel in 1966. The room is too hot. I can’t open the windows. I am in
the midst of a bitter quarrel with a blonde woman. The song is half-written in
pencil but it protects us as we manoeuvre, each of us, for unconditional
victory. I am in the wrong room. I am with the wrong woman.
catches him [Cohen] on a return trip from Greece to
his hometown of Montréal [where] he is staying in a $3-a-night hotel in Montréal’s
Tenderloin district–an area of the city centered on the corner of St. Laurent
and Ste. Catherine streets,
observes:
The hotel room, Cohen says, is a sanctuary, a refuge,
an oasis. It is a place to lay low and pursue the five hours of writing that he
likes to commit to each day. As he rises from bed, looks out the window and
washes up, Cohen’s voiceover offers his appreciation for the room: “You always
have a feeling in a hotel room that you are on the lam; and it’s one of the
safe moments in the escape, it’s that breathing spot. The hotel room is the
oasis of the downtown; it’s a kind of temple of refuge. It’s sanctuary,
sanctuary of a temporary kind, therefore all the more delicious. But whenever I
come into a hotel room, and there is the moment after the door is shut and the
lights you haven’t turned on illumine a very comfortable, anonymous, subtly
hostile environment, and you know that you’ve found the little place in the
grass and the hounds are going to go by; for three more hours, you’re going to have
a drink, light a cigarette, and take a long time shaving.”
Cohen also famously stated
But we’re not going to live forever; maybe I think,
basically, that nothing really changes. I’m not attached to that opinion,
though. I don’t even care if it’s true. When you’re banging your head against
the dirty carpet of the Royalton Hotel trying to find the rhyme for “orange,”
you don’t care about these things. (Leonard Cohen’s Nervous Breakthrough” by
Mark Rowland, Musician, July 1988.)
Leonard Cohen is known for his modest requirements in
hotel rooms:
Someone said “If riches assist thee acquire riches, if
poverty assist thee seek poverty.” There are many styles of life, I don’t think
one is better than another, it’s just that what suits me is a more modest style
than generally could be discovered in a first class hotel where so much is
based on the good graces of the people around you being purchased. (From
“Complexities And Mr. Cohen” by Billy Walker. Sounds, March 4, 1972. Found
at LeonardCohenFiles.)
[]
6.While Cohen maintains a residence in
Montreal, he has spent most of his at-home time in the past two decades at
what Larry “Ratso” Sloman described as his “modest house in a
decidedly unfashionable section of Los Angeles,” a site that afforded him an up
close and personal view the Los Angeles Riots. (7 Reasons Leonard Cohen
Is the Next-Best Thing to God by David Browne. Entertainment
Weekly. Jan 08, 1993. Leonard Cohen noted in “Hello, I Must Be Cohen” by Gavin
Martin (New Musical Express, January 9, 1993) that
Los Angeles is a great city — it’s falling apart on
every level. Geologically it’s falling apart, politically it’s falling apart,
the physical realm is also in deep fragmentation…a very suitable landscape for
my dismal expression.
It’s an extraordinary thing. He lives in this tiny
house in central Los Angeles that’s so dangerous I’m scared ever to visit it,
an area where everyone has barred their windows, you can almost hear sirens and
breaking glass. Out of all my friends in California — normal people, struggling
writers — he lives in the single most modest place. I and my friends seem rich
next to Leonard Cohen. He shares a house with his daughter and he might as well
be in the monastery and he’s been there for almost 30 years.
[]
7.Cohen has been reliably humble in
his public assessments of his his skills as a poet. His own poem “Thousands,”
which he recited in Leonard Cohen Discusses Life, a PBS interview (This site
includes the Real Player audio of the interview by Jeffery Brown as well as the
full transcript.) first broadcast 28 June 2006, is characteristic:
Out of the thousands who are known or who want to be
known as poets, maybe one or two are genuine and the rest are fakes, hanging
around the sacred precincts, trying to look like the real thing. Needless to
say, I am one of the fakes, and this is my story.
As is this quote from Yakety Yak by Scott Cohen (1994)
I always considered myself a minor writer. My province
is small and I try to explore it very, very thoroughly. It isn’t like I chose
this. This is what I am. You know whether you’re a high jumper or not. I know
in a sense I’m a long-distance runner. I’m not going to win any sprints. I’m
not going to win any high jumps or anything spectacular. I may hang in there if
my health remains good and I will explore this tiny vision.
In his interview with LA Times music blog: Leonard Cohen reborn in the U.S.A. by Geoff Boucher (Los
Angeles Times, February 27, 2009 ) Cohen lists some of his competitors and his
own assessment of his ranking:
You’re up against some heavy competition. King David,
Homer, you’re up against Shakespeare, Dante, Donne, you’re up against Whitman.
It’s like going up against Muhammad Ali if you’re a pretty good neighborhood
boxer, and that’s what I think of myself as. I’m just a pretty good
neighborhood boxer. Legacy? I never thought that it would mean anything to me
when I’m dead. I’m going to be busy.
Being called a poet is not very attractive. It’s like
being called a hippy. There’s something a bit fruity about being called a poet.
So whatever that activity is — when you write lines that don’t come to the edge
of the page — you just keep quiet about it.
And Cohen’s views on the title of “poet” have shifted:
View #1: From June 16, 1961 CBC interview with Leonard
Cohen
I think the term “poet” is a very exalted term and
should be applied to a man at the end of his work. When he looks back over the
body of his work and he’s written poetry then let the verdict be that he’s a
poet. But I would never assume that title until it’s been awarded me by a very
good and long performance.
View #2: From Harry Rasky’s The Song Of Leonard Cohen,
filmed in 1979
It’s due to the process of cultural advertising which
has the same effect as commercial advertising. Certain words [in this case,
“poet”] become devalued and, not only that, but many people rush to embrace the
description and I just don’t like the company.
On the other hand, he does admit to certain ambitions:
Marco: Once you said that you wished you could have
been like a poet whose songs are sung from Chinese women washing clothes on a
river. Is it still this your goal? …
Leonard Cohen: Dear Marco, They don’t have to be
Chinese. … (From an online chat in 2001) []
8.Note the segue from poetry to songs
accomplished by this line, which has been oft-repeated by Leonard Cohen. In a
June 28, 2006 NPR interview, for example, Cohen’s response to the
interviewer’s observation that he had been inducted into the Canadian
Songwriters Hall of Fame was
I don’t know where the good songs come from or else
I’d go there more often
Cohen has frequently debated the relationship between
songs and poems – taking both sides of the debate:
… I regard everything I write as being set to music,
almost as if I hear a giant guitar accompanying me! (Leonard Cohen Seventeen. March 1968)
I never did set poetry to music. … I got stuck with
that. It was a bum rap. I never set a poem to music. I’m not that hopeless. I
know the difference between a poem and a song! (“Porridge?
Lozenge? Syringe?” by Adrian Deevoy, Q Magazine, 1991)
It depends on what part of the being is operative. Of
course it’s wonderful to write a song, I mean there is nothing like a song, and
you sing it to your woman, or to your friend, people come to your house, and
then you sing it in front of an audience and you record it. I mean it has an
amazing thrust. And a poem, it waits on the page, and it moves in a much more
secret way through the world. And that also is… Well, they each have their own
way of travel. (Leonard Cohen: The Romantic in a Ragpicker’s Trade by
Paul Williams. Crawdaddy, March 1975.)
Perhaps what happened is as simple as Leonard Cohen’s response to an interviewer who asked why,
after writing “two wildly successful novels that sold over 800,000 copies each,
… it’s been twenty-six years now since Beautiful Losers was published, … you
never returned to the fiction form:”
I got lost in the song. I got very involved in the
life of music and the lyric and I went to some quite remote places … []
9.Cohen has owned, of course, many
guitars. In a Dec 10, 2009 LeonardCohenForum post, Patyou, a confessed “guitar
maniac,” listed these instruments used by Cohen from the 1960s through the
World Tour:
From 1967 (See the pictures from Newport) to 1970
tours (included IOW) : a Ramirez flamenca guitar (this one was the most
difficult to identify because nothing looks more like a flamenca guitar as
another flamenca guitar)
In the 1972 and 1974 tours (see the pictures in the
Concert Pictures section) : a Conde Hermanos flamenca guitar
In the 1976 and 1979 tours : an Ovation Classic model
(the recent models are easier to find out because each brand is now very
recognizable and there are more pictures on stage)
In 1985 and 1988 : the Chet Atkins Gibson model
In 1993 until the last tours : the Multiac ACS Godin
Leonard Cohen also used guitars as subjects for his
drawings. Note the self-mocking legends written on each of these
sketches:
11.A photo of Cohen with his Conde
guitar at his March 23, 1972 performance at the Albert Hall in London can
be found at LeonardCohenFiles []
12.A guitar’s rosette is the ornamental
circular band surrounding the sound hole of an acoustic guitar. Shown
below is the rosette of flamenco guitar made by Cónde hermanos. (The photo is
by Villanueva and was found at Wikipedia Commons.)
For an informative and delightful discussion of the
complex design and construction processes of this piece, see Rosette Making, A Real Labor of Love by Kenny Hill
(Acoustic Guitar, July 2001) []
13.An enlightening discussion of the
choices in woods used to construct acoustic guitars can be found at Tapping Tonewoods,
by Dana Bourgeois (Acoustic Guitar, March/April 1994) []
14.Leonard Cohen has recently turned 77
when this speech was given. One should note, however, that when Leonard Cohen
wrote these words from “Tower Of Song”
Well my friends are gone and my hair is grey I ache in the places where I used to play
he was 54. (Of course, Bruce Springsteen was 24 when
he wrote, “We ain’t that young anymore” in the song Thunder Road.) []
15.Cohen’s use of his guitar’s heritage
to link himself with Spain was presaged in his official acknowledgement of the
award, issued from New York on June 2, 2011:
I am most grateful to be recognized by the countrymen
of Machado and Lorca, and my friend Morente, and the incomparable companions of
the Spanish guitar.
Re Morente, in a Chris Douridas Interview With Leonard
Cohen (KCRW, Los Angeles, February 18, 1997) Cohen’s enthuses
about a flamenco-based cover of We Take Manhattan by Morente:
The fact that he saw something in my songs that could
be translated into flamenco music is what touches me. Cause a lot of the
changes in for example First We Take Manhattan are flamenco changes. So that he
saw that these songs had a reference to something that he understood and that
we meet there and that he made those songs into flamenco songs. []
16.Spain saw its credit rating cut by
two notches on Tuesday [Oct 18, 2011] as Moody’s warned that the country risked
being sucked deep into the European debt crisis. Spanish Credit Rating Downgraded by Graeme Wearden. The
Guardian, 18 October 2011. []
17.Leonard Cohen has often spoken about
the influence of Lorca on his life. A good starting point is the collection of
his concert introductions to Take This Waltz collected at Diamonds In The Lines.
The introduction from the October 31, 1988 Austin concert, one of many
examples, follows:
Long time ago I was about 15 in my hometown of
Montreal, I was rumbling through….or rambling as you say down here. We say
“rumbling.” Actually we don’t say that at all. I was rumbling through this
bookstore in Montreal. And I came upon this old book, a second-hand book of
poems by a Spanish poet. I opened it up and I read these lines: “I want to pass
through the arches of Elvira, to see your thighs and begin weeping.” Well that
certainly was a refreshing sentiment. I began my own search for those arches
those thighs and those tears…. Another line – “The morning through fistfuls of
ants at my face.” It’s a terrible idea. But this was a universe I understood
thoroughly and I began to pursue it, I began to follow it and I began to live
in it. And now these many years later, it is my great privilege to be able to
offer my tiny homage to this great Spanish poet, the adversary of whose
assassination was celebrated two years ago. He was killed by the Civil Guards
in Spain in 1936. But my real homage to this poet was naming my own daughter
Lorca. It was Federico Garcia Lorca. I set one of his poems to music and
translated it. He called it “Little Viennese Waltz.” My song is called “Take
this Waltz.”
These words from a CBC Radio Interview (August 26,
1995) presage his thoughts on Lorca expressed in his Prince Of Asturias Awards
speech:
Well, I don’t know how he [Lorca] helped me find my
own voice. Since he seemed exotic and far away, he allowed me to steal or
borrow a lot of his voice. It’s like anything that you fall in love with is
going to give you a certain kind of blindness. I think you are blinded to your
own imperfections and limitations. It allows you to kind of lurch forward on
the path that you want to choose for yourself. I don’t think that’s the real
benefit of falling in love with a writer when you’re young. With Lorca, when I
stumbled on him, it was something that was terribly familiar, it seemed to be
the way that things really were. The evocation of a landscape that you’re
really felt at home in, maybe more at home than anything you’ve been able to
come up with yourself.
A discussion of Lorca, especially as his work
influenced Cohen, can be found at Leonard Cohen’s Lonesome
Heroes(the video is cued to start at the 7:50 mark; the portion
pertinent to Lorca ends at 20:30) []
18.In addition to his formal literature
studies at McGill, Cohen was also knowledgeable, of course, about the work of
his own mentors, such as Irving Layton. Additional evidence of Cohen’s easy
familiarity with the classic canon of English poetry is his habit of quoting
lines from several such poets at selected concerts during the World Tour.
Examples follow:
I wanted to be a writer. From very very early time I
just knew that I was going to be a writer. So there was never any ambiguity or
difficult decision about what I wanted to be. And it was a writer not in the
popular culture,; on the contrary, it was a writer to writers that were already
dead. The writers I was writing for and the audience I was writing for, was not
a popular audience. I was writing for William Butler Yates, I wouldn’t say
Shakespeare, because I never really enjoyed Shakespeare, but there were other
poets that I was writing for that were dead. And that was where I was aimed. I
wanted to be one of those, I wanted to be in that tradition, I didn’t care, in
fact with the little group of poets that I grew up with in Montreal, we criticized
each others work very very savagely, we had a very very high sense of our
calling. And a very exaggerated sense of our own importance.
was only writing Spenserian stanzas to be set to
music. I don’t think there’s anyone else in the western world writing
Spenserian stanzas with that very intricate verse form. So I got very interested
in the whole lyrical form.
And, in a 1988 interview with Mr. Bonzai, Cohen listed
multiple influences:
There’s so much excellent work. Every time I turn on
the radio, I hear something good. Everytime I pick up a magazine, I read some
writing that is distinguished. My pace and viewpoint is being influenced
continually by things I come across.
You recapitulate the whole movement of your own
culture. Occasionally we are touched by certain elaborate language, like the
language we associate with the Elizabethan period, with the King James
translation of The Bible, or Shakespeare. In certain moments you are influenced
by very simple things. The instructions on a cereal package have a magnificent
clarity. You’re touched by the writing in National Geographic — it represents a
certain kind of accomplishment.
Occasionally you move into another phase where you are
touched by the writing of demented people or mental patients. I get a lot of
letters from those kinds of writers. You begin to see it as the most accurate kind
of reflection of your own reality, the landscape you’re operating on. There are
many kinds of expression that I’m sensitive to.
Personally, I take some pleasure in noting that
Leonard Cohen and I share two major sources of influences:
The first poetry that ever affected me was in the
synagogue, in the liturgy, and the Bible stories. And that would send shivers
down my spine. The stories I was reading, in those days, mostly came from
Marvel Comics. Captain Marvel, Superman, Aquaman, Spider Man, the various
heroes. I thought I could write. I was never very sure. I knew I could write
something. I started writing poetry to girls. Tried to get girls interested in
my mind. (Leonard Cohen’s Bunch Of Lonesome Heroes – Blue Beetle, Captain Marvel,
Spider-Man, …)
Later, Cohen would report feeling estranged by his own
generation of poets. Speaking to Michael Silverblatt on KCRW Bookworm program about Book Of Longing June 22,
2006, Cohen declared
I’m reluctant to call [my work] poetry. I like your
idea of footnotes, or notes or some other kind of activity, because I think
there is an enterprise called poetry today and I don’t really feel part of it
[…] I don’t have that mind that seems to be valued today. I can’t understand a
lot of the stuff that’s written. []
19.Despite the jokes, many of which are
made by Cohen himself, about his supposed lack of instrumental talent and
musicological knowledge that have persisted throughout his career, Cohen’s
guitar playing is more accurately characterized as unusual for a pop musician
rather than rudimentary. This excerpt from the Pitchfork review of Songs of Leonard Cohen is
instructional (and the entire article is enlightening on Cohen’s musical
style):
There’s his unique guitar style– most of his songs are
built from delicate webs of musky, finger-picked flamenco or broad, awkward
chord progressions … .
Cohen’s explanation of his shift to writing
songs on guitar to writing songs on synthesizers in Songwriters On
Songwriting by Paul Zollo (Da Capo Press 1997) is also
helpful in understanding the instrument’s importance to his songwriting:
[Interviewer] Do you work on guitar?
[Leonard Cohen] It usually was guitar but now I have
been working with keyboards.
[Interviewer] Does the instrument affect the song you
are writing?
[Leonard Cohen] They have certainly affected my songs.
I only have one chop. All guitar players have chops. Especially professional
ones. But I have only one chop. It’s a chop that very few guitarists can
emulate, hence I have a certain kind of backhanded respect from guitar players
because they know that I have a chop that they can’t master. And that chop was
the basis of a lot of my good songs.
John Simon, the producer of Songs Of Leonard Cohen, in
an interview for “Leonard Cohen Under Review 1934-1977,” describes Cohen’s
guitar style:
Leonard apparently learned how to play classical
guitar because he did things like [Simon plays triplets on piano] real fast –
real fast.
Cohen has, indeed, garnered some notoriety (note the
comments on this LeonardCohenForum page devoted to folks attempting,
typically without success, to emulate Cohen’s technique.) for his capacity to
play those rapid triplets, enhanced with flourishes, that can be heard in, for
example, Avalanche or The Stranger Song,
Most recently, David D. Robbins Jr., reviewing the early release of
“Darkness” from the Old Ideas album, pointed out that
A low-moan acoustic guitar, gracefully finger-picked
[by Cohen], purrs through the opening … []
20.In 1993, Cohen told a BBC
interviewer,
Now, I don’t want to give you the impression that I’m
a great musicologist, but I’m a lot better than what I was described as for a
long, long time; you know, people said I only knew three chords when I knew
five.” []
I used it [his guitar] as a courting procedure.
Probably I got down on my knees to serenade a girl. I was shameless in those
years.
The article goes on to observe that
To this day, his guitar playing suggests a skill
acquired around campfires and honed at solemn gatherings of folk-song devotees,
and for all its aptness and, at times, funky spirituality, it remains rather
rudimentary and functional.[]
23.This is almost certainly a
chronological error. Cohen was born 21 September 1934 so in the “early
sixties,” he would probably have been 26 to 30 years old. In his own telling
of the same story, however, in a 1988 BBC interview with John Archer,
Cohen estimates the age of the Spaniard who taught him guitar as “16 or 17” and
his own age as “13 or 14.” That segment can be viewed at YouTube – Leonard Cohen
BBC Interview(video cued to begin at 9:45).
[]
24.The Cohen family home was in
Westmount; the park he mentions is Murray Hill Park. The home, scenes from the
neighborhood, and the park can be viewed at Growing Up Cohen.
[]
26.One can only assume that Cohen’s
appending “in the way that was appropriate” to “he placed it [the
guitar] on my lap” was to preclude any suspicions that there this event was
tainted by sexual impropriety. Sadly, the prevalent cultural hypervigilance and
press sensationalism regarding this subject justifies such cautionary efforts.
[]
27.Neither I or those I’ve consulted
have been unable to discover a direct reference to a flamenco six chord
progression that serves as a basis for a large number of flamenco songs, but
the brief essays at Flamenco Guitar Music and Understanding Flamenco, as well as the Wikipedia Flamenco entry may
be helpful. Also see discussion of the flamenco influence on Cohen’s own songs
below. []
28.Leonard Cohen has recounted this
story of his guitar teacher committing suicide in more concise form on several
occasions. For example, in addition to the 1988 BBC interview with John
Archer already mentioned, Cohen gave this account in his interview with
Chris Douridas (KCRW, Los Angeles, February 18, 1997)
follows:
Leonard: There was a young man in the park behind my
mother’s house. A dark young man, very handsome, played flamenco guitar. I
asked him if he would give me a few lessons. He did. He gave me three or four
lessons. On the basis of those lessons I wrote most of my songs. He showed me
some changes with the guitar that was very very important to me. He didn’t turn
up for the final lesson, and I phoned his boarding house, they told he’d
committed suicide. I don’t know whether that was because of the progress with
his student; or I think perhaps he had other issues. []
29.Because Cohen appears to be
referring not to a specific set of six chords but to the tonal ‘mode’ in which
he writes his songs, some basic musicology is helpful on this point. The
following simplified explanation is contributed by Ruth Stimson with assistance
from Afric Prendergast:
The bog-standard, major scale mode for most Western
music is the Ionian. There are six other modes that are routinely utilised by
non-Western (e.g., far Eastern or Arabic) music. The third mode, the
Phrygian, is most often used by Spanish/flamenco music (influenced by Arabic
music, hence the different modal sound). It has a minor or flattened seventh,
which makes it distinctive.
While there is no evidence of a specific six chord
progression associated with this musical mode, or flamenco in general, there is
certainly a classic four chord progression – known as the Andalusian cadence
(the Wikipedia entry includes sample sound clips and also
notes that this progression was popular with musicians in the 1960s and
1970s; also see Flamenco Chord Progressions, which includes chords that
feature heavily in Leonard’s earlier guitar music, and and Chord Progressions For Songwriters by Richard Scott).
While Leonard Cohen is disingenuous to claim all his
music is based on this mode, his repertoire does include several excellent
examples that fit into this classification:
First We Take Manhattan: The progression is especially
obvious in the chorus, the chords played behind ‘First [dum] we take Manhattan’
[dum, dum, dum – progressing downward] Video cued to begin at 0:58.
The Story of Isaac: The phrase ‘I was / nine / years / old’ follows the chord
progression downwards [slashes represent chord changes] Video cued to
begin at 0:17.
Sisters of Mercy: The phrases ‘I’ve been where you’re /
hanging, I / think I can / see how you’re / pinned’ and ‘they / brought me
their / comfort and / later they / brought me this / song’ again follow the
chord progression downward. Video cued to begin at 0:23.
The Guests: The phrase ‘One by one / the guests arrive /
the guests are coming’ is a partial progression. The note rises again on the
‘through,’ which is thus not part of the progression. Video cued to begin
at 0:07.
Waiting for the Miracle: This sample is more difficult to
describe (and one should keep in mind that the music was written by Sharon
Robinson) but listen for the parts sung by the backup singers. Video cued
to begin at 0:56.
Leaving Green Sleeves: In this case, the progression is obvious as the chord is played a
beat before these lyrics start: ‘I sang my song / I told my lies / to lie
between your / matchless thighs.’ You can also hear the characteristic
progression at the beginning of the song in the phrase, ‘alas my love you did
me wrong.’ The music for Leaving Green Sleeves is, of course, a folk tune
co-opted rather than written by Cohen – though perhaps the association of the
Phrygian mode with troubadours may be have played a part in the attraction the
song held for him, the Phrygian mode.
More generally, flamenco/Spanish music is associated
with the minor keys, and Leonard Cohen certainly uses these a lot, probably
chucking in flattened sevenths for good measure.
Further, “Darkness,” an early release from the Old
Ideas album is described by Tom Hawking at FlavorWire as
… start[ing] with a moody flamenco-influenced intro
that’s decidedly reminiscent of Songs of Love and Hate track “Avalanche,” …
The actual chords of most Leonard Cohen songs,
including the above examples, can be found at Chords of Leonard