mercoledì 21 febbraio 2018

Salim Vally, uno che di apartheid se ne intende







intervista di Chiara Cruciati:

Da anni attivisti, esperti e ricercatori studiano i parallelismi tra il Sudafrica del dominio Afrikaners e il regime che Israele ha imposto sulla popolazione palestinese. Alla base sta il concetto di apartheid che, seppur con ovvie differenze storiche, è applicato ai due sistemi e che è definito dal diritto internazionale come «regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale».
Ma se a 20 anni dalla sconfitta dell’apartheid sudafricana come sistema legale le disuguaglianze socio-economiche tra bianchi e nere permangono, Israele porta avanti la sistematica discriminazione della popolazione palestinese sotto la propria effettiva autorità, che si tratti dei palestinesi cittadini israeliani o dei residenti nei Territori Occupati.
Ne abbiamo parlato con Salim Vally, professore all’Università di Johannesburg e direttore del Center for Education Rights and transformation, leader del Palestine Solidarity Committee sudafricano e attivista anti-apartheid di lungo corso.
A due decenni dalla fine dell’apartheid legale in Sudafrica, cosa resta del sistema di segregazione? Permane un’apartheid ufficiosa o, come la definisce un’analisi del think tank al-Shabaka, un «capitalismo razziale» nel paese?
Sono completamente d’accordo con il concetto usato dagli autori dell’analisi citata, Haidar Eid e Andy Clarno. Il capitalismo razziale è la causa dell’assenza di un reale cambiamento: il sistema di apartheid, la sua legislazione e la discriminazione legale sono stati rimossi dalle leggi dello Stato, ma non la discriminazione di classe, in termini di povertà, di proprietà. Nulla è cambiato. Ci troviamo di fronte ad un sistema liberale democratico come risultato dei negoziati dei primi anni ’90, ma non a reali cambiamenti strutturali.
È la razza che continua a definire opportunità e accesso a casa, terre, educazione, servizi. Una forma diversa e occulta di colonizzazione?
Il processo per cui alcune persone si sono arricchite e altre impoverite segue linee razziali. Usare la razza per giustificare la spoliazione della gente e l’accumulazione rapida da parte di pochi significa utilizzare linee di «colore». Le questioni di razza e classe non possono essere divise, l’intera struttura dipende da capitalismo e razzismo. Succede anche in altri paesi ma in Sudafrica in modo molto più sistematico. Tutti noi abbiamo combattuto l’apartheid e pagato un prezzo e siamo consapevoli che la situazione è migliorata, che c’è stato un avanzamento chiaro sul piano della discriminazione legale, ma è vero anche che la maggior parte dei poveri e della classe operaia non ha visto migliorare le proprie condizioni socio economiche.
Perché nel Sudafrica della lotta all’apartheid e del governo ormai ventennale dell’Anc, la discriminazione non è stata sconfitta?
Perché la struttura economica della società non è stata cambiata nelle sue fondamenta. Come accaduto anche in Asia e America latina, l’indipendenza politica ha portato a nuove élite e nuove bandiere ma le principali sorgenti dello sfruttamento sono spesso rimaste le stesse. Il vero potere, quello economico, è in mano a chi lo aveva già, alla borghesia tradizionale, nel caso sudafricano quella bianca. A questa si aggiunge una piccola quota di borghesia nera, ma la maggior parte dei neri sono intrappolati in una tremenda povertà.
Inevitabile è il parallelo con il modello israeliano. Nelson Mandela disse: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi». E Desmond Tutu ripete che quella israeliana è una segregazione ancora peggiore di quella degli Afrikaners. Quali i punti in comune e quali le differenze?
Ci sono molti elementi comuni, il modello israeliano è parte della «famiglia» dei regimi di apartheid. I pensieri espressi da Mandela e Tutu sono molto accurati. Chi di noi ha visitato la Palestina ha immediatamente visto le similitudini nella discriminazione quotidiana: mancata libertà di movimento, regime dei permessi, demolizioni di case, detenzioni senza processo, divisione in bantustan di Cisgiordania e Gerusalemme. Tutto questo riflette il modello operativo dell’occupazione che non esitiamo a definire stato di apartheid.
È molto importante sul piano giuridico e del diritto internazionale ricordare che l’Onu ha votato alla fine degli anni ’80, dopo lo scoppio della prima Intifada per intenderci, una risoluzione di condanna ed eliminazione dell’apartheid, ovviamente riferita all’epoca al Sudafrica ma volontariamente posta come concetto generico. L’obiettivo era riferirsi a qualsiasi possibile paese. Esperti giuridici di tutto il mondo, come John Dugand e Richard Falk, hanno detto più volte che Israele si qualifica come Stato di apartheid.
Esistono ovviamente anche significative differenze tra Israele e Sudafrica dell’apartheid. Un esempio: la classe al potere in Sudafrica dipendeva dalla forza lavoro nera a basso costo e per questo lo sviluppo dei sindacati ha permesso di resistere con più efficacia al regime semplicemente sottraendogli lavoratori e bloccando l’economia. Nel caso palestinese non accade: se inizialmente Israele ha sfruttato la manodopera palestinese, l’ha poi marginalizzata. L’economia israeliana non è dipendente dalla forza lavoro palestinese.
Il caso palestinese è inoltre caratterizzato dalla divisione in territori e conseguenti status legali diversi della popolazione (rifugiati della diaspora, residenti apolidi di Gerusalemme, comunità sotto occupazione a Gaza e in Cisgiordania e palestinesi cittadini israeliani). Forme diverse di apartheid o un unico sistema?
È come se il popolo palestinese fosse tanti popoli diversi. È fondamentale ricordarsi dei 7 milioni di profughi all’estero e dei quasi 2 milioni di palestinesi cittadini israeliani discriminati. La situazione è dunque diversa dalla segregazione sudafricana dove con il sistema dei bantustan si puntava al controllo fisico e limitato nello spazio della popolazione nera, dove però non c’erano differenze di trattamento. Il sistema di apartheid di Israele è infinitamente più sofisticato perché si applica in forme diverse alle diverse «sacche» di palestinesi. Ciò rende la loro situazione peggiore di quella che la maggior parte dei sudafricani ha sopportato.
Nel caso sudafricano, oltre alla mobilitazione interna, un ruolo centrale lo ebbe il boicottaggio internazionale. In quello palestinese il boicottaggio esiste, ha effetti concreti ma resta un’opzione elle società civili, non dei governi. Quale la chiave per aprire le stanze dei bottoni?
Nel caso sudafricano ci sono voluti decenni prima che si arrivasse al boicottaggio internazionale e che questo divenisse significativo: la prima chiamata la boicottaggio risale al 1959. Non abbiamo raggiunto questo livello con la questione palestinese, ma non significa che un movimento non esista. Significa che il supporto globale può avere effetti contro l’impunità di Israele, soprattutto in Europa, se si moltiplicano le spinte dalla base ai vertici. Ognuno di noi di fronte alle atrocità che vede deve giocare un ruolo: studenti, professori, organizzazioni, associazioni di donne e così via sono il solo mezzo di pressione sui governi al potere, che beneficiano loro stessi dell’occupazione israeliana.
Abbiamo visto in questi giorni Ibrahim Abu Thuraya, disabile, ucciso da un cecchino israeliano mentre sventolava una bandiera, un omicidio extragiudiziale; la 16enne Ahed Tamimi arrestata per uno schiaffo; due milioni di persone sotto assedio a Gaza; 500 bambini arrestati ogni anno e torturati…posso andare avanti per giorni a elencare le atrocità israeliane. E tutto avviene nel silenzio internazionale. Dobbiamo agire ora perché la repressione che subiscono i palestinesi è ora. Netanyahu, il movimento dei coloni, la gran parte del governo israeliano la vedono come la soluzione definitiva a quanto iniziato nel 1948, un genocidio in termini di presenza fisica, culturale, sociale, così come lo definisce – usando la definizione dell’Onu – Ilan Pappe. Tutto questo può spingere la gente a guardare alla solidarietà internazionale e al rafforzamento delle organizzazioni di base palestinesi come sola alternativa alla posizione dei governi.

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