Nell’immaginario
europeo l’Africa è il continente dell’immobilità, da sempre relegato ai margini
della storia. Nella realtà non è mai stato così: i movimenti migratorî interni
– per sfuggire alla carestia, alla siccità, alla desertificazione – sono
frequenti in quelle popolazioni. A essere mutata, negli ultimi decenni, è in
larga misura la direzione del movimento, il che indica l’uscita di una parte di
quelle donne e di quegli uomini dalla rassegnazione: da sud verso nord, cioè
verso i ricchi paesi europei, alla ricerca di una vita liberata dalla
costrizione del bisogno.
Chi da noi non ha
compreso che questo movimento è inarrestabile (epocale, si direbbe, con
espressione un po’ roboante) si condanna a restare fuori, ancorandosi ai vecchi
pregiudizi, dal processo storico contemporaneo. Di una contemporaneità – è bene
ripeterlo – composta da una congerie sfasata di tempi diversi, in cui i più
recenti ritrovati della tecnica si combinano, anche nell’Occidente moderno, con
i miti e le ubbie del passato, con le chiusure nazionalistiche e identitarie
ovunque prepotentemente risorte.
L’unico modo efficace
per cercare di regolamentare, per quanto possibile, il flusso migratorio verso
l’Europa sarebbe quello di lanciare un messaggio di apertura delle frontiere.
Presso le ambasciate europee, nei paesi africani più interessati ai
movimenti migratorî, dovrebbero insediarsi delle vere e proprie “agenzie di
collocamento”, e, sulla base di un piano generale dell’immigrazione, andrebbero
costruite “liste di attesa” orientate alla ricerca di manodopera per i grandi
lavori socialmente utili. In Italia ne avremmo un particolare e urgente
bisogno, se si considera la fragilità del nostro territorio segnato dai
terremoti, dal dissesto idrogeologico, da un’incuria e da una speculazione di
lunga data che richiedono di essere risanate.
Naturalmente per
realizzare qualcosa del genere occorrerebbero un accordo e un impegno
finanziario a livello europeo. Altro che austerità! Proprio il contrario:
andrebbe messo in atto un programma di finanziamenti pubblici sulla base di una
fiscalità progressiva comune, se non a tutti, almeno alla maggior parte dei
paesi europei.
Solo così il vecchio
continente si mostrerebbe all’altezza dei tempi, solo così avrebbe ancora una
sua missione e un significato storico di progresso. Diversamente, sarà
scavalcato dai trafficanti di esseri umani che si collocano – piaccia o non
piaccia – sul fronte d’onda di una storia che va tutta nel senso delle grandi
migrazioni. In alternativa, l’Europa si troverà sempre di più a delegare alle
organizzazioni umanitarie il salvataggio dei migranti, quindi, nei fatti, la
gestione dei flussi. Per quanto riguarda l’Italia, non vale servirsi di uno
degli articoli della deprecata Bossi-Fini per perseguire un
reato fantomatico come quello di “favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina” contro navi di soccorso che si accordano con i trafficanti, senza
peraltro ricavarne alcun vantaggio economico. La maniera migliore per
soccorrere delle vite in pericolo, infatti, è evitare che queste finiscano nel
pericolo. È veramente da ipocriti voler prescrivere, sotto la minaccia dei
rigori della legge, che il rischio della vita diventi concreto prima che
l’intervento di soccorso possa aver luogo.
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