1. All’inizio c’è sempre l’Indignazione,
cui segue un indistinto sentimento d’irritazione, non importa se intellettuale,
etica o epidermica, che cresce a dismisura se si getta lo sguardo sulle
ingiustizie perpetrate dai potenti e sulla macchina della manipolazione che
modella una popolazione narcotizzata da consumismo e rimbambimento smartfonico,
quella medesima manipolazione che sul piano internazionale impone il delirio
paranoico bellicista del principale avversario della pace nel mondo, l’Impero
americano. Non v’è dubbio che una sintesi estrema come quella che precede porta
con sé il rischio di risultare apodittici. Essa tuttavia ci fa almeno
guadagnare in chiarezza di posizionamento.
In
dettaglio, se si getta lo sguardo al dipanare degli accadimenti è possibile
identificare con buona approssimazione i nemici principali da cui occorre
guardarsi: sul piano economico un capitalismo selvaggio e la
società della mercificazione; su quello politico l’assolutismo neoliberalista;
sul piano filosofico l’alienazione solipsista; su quello
sociale il dominio mercantile e sull’arena geopolitica, ça
va sans dire, gli Stati Uniti d’America.
Parafrasando
l’incipit della Bibbia, all’inizio c’è il Verbo, americano
beninteso, che andrebbe chiamato in realtà statunitense, perché i
nobili abitanti di quel continente non andrebbero confusi con le oligarchie
malate che guidano la locomotiva impazzita di quella nazione. Ma la lingua
imperiale deforma senso e controsenso, imponendosi persino nel balbettio
lessicale di ridicoli operatori mediatici. Per Verbo statunitense deve
comunque intendersi una forma mentis, variante della nozione
di caos, luogo metafisico che consente alla plutocrazia bellicista
di quel paese di acquisire legittimazione abolitoria di ogni
restrizione agli interventi armati contro chiunque osi mantenere la posizione
retta. Da lì la patologia dell’eccezionalismo americanista si è poi
diffusa nell’inconscio filosofico-valoriale di tante nazioni non solo
occidentali, deformando la coscienza di miliardi di individui intellettualmente
fragili e indifesi, corredati di difese deboli davanti alle nefande
intimidazioni della «nazione scelta da dio per governare un mondo altrimenti
ingovernabile» (W. Clinton, 1999).
Gli Stati
Uniti costituiscono oggi il supremo garante strategico-militare dell’egemonismo
estrattivo planetario, un’oligarchia bulimica di super-ricchi che sventola la
bandiera dei diritti umani con le mani insanguinate, massacrando popoli indifesi,
colpevoli solo di perseguire la libera scelta del proprio destino. Negli ultimi
ottant’anni la cupola oligarchica statunitense ha fatto uso di ogni genere di
armi: nucleari, al napalm, al fosforo, al drone, al cianuro e via massacrando,
ricorrendo al metodo scientifico della tortura, direttamente (Guantanamo, Abu
Ghraib, Bagram e in altre prigioni note e segrete), per procura (educando al
riguardo dittature sudamericane, autocrazie militari africane e asiatiche) o
per saldatura ideale con compagni di merende (spicca
in proposito lo Stato terrorista/apartheid di Israele, sospettato di genocidio
dalle Corti Penali e di Giustizia internazionali (che ora chiedono di arrestare
B. Netanyahu e il suo ex ministro della difesa, Y. Gallant), sebbene poco
cambierebbe per i poveri palestinesi bombardati o sepolti vivi dalle armi democratiche statunitensi
se tali crimini fossero definiti solo massacri. A Israele è
consentita ogni atrocità etica e giuridica. L’ideologia sionista, usurpatrice
della sofferenza ebraica, si offre alla commiserazione del
mondo come vittima iconica della storia, dopo aver costruito sull’olocausto una
fiorente industria e aver esteso a tutto l’Occidente la colpa
inespiabile della follia sterminatrice nazi-tedesca. Quando tutto ciò non è
sufficiente, la medesima ideologia ricorre alla sorveglianza mediatica e alle
minacce delle lobbies israeliane (in Usa e nel mondo). È così che la
strumentale assimilazione tra sionismo da una parte, e religione/etnia
dall’altra, avanza parallela con l’asservimento psico-culturale e la viltà
politica delle classi dirigenti statunitensi ed europee (che ne estraggono
carriere, onori e denari). L’Occidente non ha scampo, la sua colpa
olocaustica può essere scontata solo nell’eternità!
Una schiera
di analisti (una per tutti Lindsay O’Rourke, Covert Regime Change,
Cornell University, 2018) ha documentato con dovizia di evidenze che a partire
dal secondo dopoguerra gli Stati Uniti hanno tratto benefici giganteschi dai
conflitti provocati, sostenuti e combattuti nel mondo. L’elenco delle guerre,
interferenze e sistematiche violazioni del diritto e dell’etica pubblica da
parte di questa nazione malata è noto, ma proprio perché noto, affermava Hegel,
non è conosciuto: un sintetico rinfresco di memoria è disponibile nella nota a
margine[1].
È bene chiarire che non si tratta qui di posizioni antiamericane pregiudiziali.
L’avversario, sia chiaro, non è il popolo americano, oppresso come
altri e sia detto en passant tra i più politicamente
analfabeti del pianeta, ma quell’1% che esprime l’oligarchia plutocratica,
predatoria e bellicista che lo dirige. Del resto, le coscienze più sensibili di
quella nazione si son sempre battute contro tali aberrazioni, pagando anche
pesanti tributi personali.
Gli Stati
Uniti, impaludati nell’infantile convincimento di essere stati scelti da dio
per governare un mondo irrequieto, impongono la mistica stravagante di una
preminenza etico-culturale (estesa alle altre nazioni anglosassoni, ma non del
tutto), più altre ridicole perle di mitologica superiorità, che per ragioni
indecifrabili i governi europei digeriscono senza conati di vomito, mentre il
Sud del Mondo (Brics-plus[2] e
tanti altri) ha da tempo abbandonato tale grottesca sottomissione psicologica,
economica e politica, avendo acquisito consapevolezza del valore delle loro
civiltà.
2. Le
guerre, sono i governi a volerle, non i popoli, anche se occorre sondare la
dinamica strutturale che spinge i primi a preferire il conflitto, male supremo,
in luogo della pace, opprimendo la volontà dei secondi. Se talvolta anche i
popoli si convincono che la guerra sia inevitabile, togliendo spazio al
percorso della pace, va tenuto a mente che un ruolo cruciale tra i decisori
politici è ricoperto da propaganda, manipolazione, corruzione morale e
materiale, insieme a cinismo e distacco dalla realtà dei detentori ultimi del
potere, quelli che modellano a piacimento le maschere di carattere
interscambiabili di politici/burocrati, giornalisti e accademici,
fatte salve le usuali eccezioni che non fanno la differenza.
I motori di
questa macchina letale si situano nelle sfere finanziarie dominanti (il cuore
putrido del sistema), politiche (i maggiordomi) e mediatiche (il popolo va
sorvegliato attraverso menzogna e paura, non si sa mai!), sfere occultate sotto
qualifiche meno indigeribili quali rappresentanti del
popolo, parlamentari eletti, ministri illuminati,
presidenti acclamati dalle plebi e via infinocchiando.
Le guerre,
dunque, possono essere giuste o ingiuste (sotto il profilo etico), legittime o
illegittime (sul piano giuridico, il diritto internazionale), opportune o inopportune
(per i risultati prodotti). Per quanto concerne i due ultimi profili, i
conflitti in Medio Oriente provocati o sostenuti dagli Usa (Iraq, Siria, Libia,
Yemen, Afghanistan, Palestina e Libano) sono stati illegittimi e inopportuni
(hanno violato la Carta delle Nazioni Unite e numerose Risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza). Quanto al criterio della giustizia, il giudizio
dipende dal sistema di valori di riferimento (l’etica, affermava Nietzsche, non
è che la cornice dei valori a sostegno degli interessi del potere). Secondo il
Diritto Internazionale, le guerre sono legittime in due sole circostanze: a)
quando vi è il consenso formale della Comunità Internazionale,
vale a dire una decisione del CdS delle N.U. (art. 51 della Carta), ovvero, a
prescindere dal CdS, in caso di aggressione da parte di un’altra nazione.
La guerra
resta in ogni caso una dimensione arcaica e selvaggia, assenza dello Stato di
diritto, prevalenza della legge della giungla, massacri, omicidi mirati, stupri
di massa, sopraffazioni e violenze di ogni genere. Se chi dichiara la guerra
fosse tenuto ad andare lui stesso a farla, insieme alla sua famiglia, si
porrebbe fine una volta per tutte a tale flagello. Mentre auspichiamo che
Irene, la dea greca della pace, possa rendere tale norma universale, proviamo a
ragionare.
Nulla è
peggiore di una guerra (quella tra grandi potenze poi sarebbe fatale per tutti,
in presenza di armi nucleari), nemmeno convivere con un dittatore, il quale va
convinto con il dialogo politico ed economico a diventare ogni giorno meno
dittatore (come avvenuto in vari paesi di Sud America, Asia e Africa),
e come avverrebbe in Medio Oriente, se l’impero egemone e il suo cagnolino da
passeggio israeliano fossero costretti a rispettare i principi della ragione e
della dimensione umana del vivere civile.
Resta
cruciale, ma in ombra, il profilo strutturale del conflitto
dominati/dominanti (individui o nazioni non fa differenza), vale a dire la
natura socioeconomica dei rapporti di classe, solitamente occultata per inconsistenza
filosofica o convenienza, sfuggendo alla consapevolezza a causa di ritardo
culturale, ricatti/povertà, violenze e manipolazioni. Come rileva G. Orwell nel
suo libro iconico (1984), l’obiettivo della guerra non
è la sconfitta dell’avversario, ma il mantenimento della struttura classista
del potere all’interno del sistema. Non è certo un caso se le guerre
arricchiscono i già ricchi e potenti, spesso nascosti tra le quinte.
3. Quanto
sopra premesso, non v’è dubbio che la guerra costituisca fattore dominante
dell’azione degli Stati sulla scena internazionale: la sola ipotesi anche
lontana che possa profilarsi all’orizzonte condiziona a fondo il modo in cui
gli Stati interagiscono tra loro. Che si abbia a che fare con un conflitto
aperto o sullo sfondo, l’ombra della guerra domina l’orizzonte, generando
cupidigia, angoscia, terrore su un’arena internazionale ontologicamente
competitiva.
Nella nota
sintesi del generale prussiano Carl von Clausewitz, la guerra è la prosecuzione
della politica con altri mezzi, strumento occulto e ineludibile del governare,
che ha poco a che fare con la morale o il diritto. Gli Stati entrano in
conflitto quando lo ritengono nel loro interesse. Sotto questo aspetto, si
hanno due tipologie di guerre: preventiva e di opportunità, solo la prima
all’interno del recinto teorico di guerra giusta o legittima, seppure a date
condizioni.
Quattro sono
le principali teorie delle relazioni internazionali: quella realista/neorealista,
quella liberale, quella costruttivista e
quella marxista/neomarxista. Per il realista gli
Stati competono tra loro per il potere, al fine di garantirsi la propria
sicurezza, pacificamente e quando inevitabile anche con l’uso della forza. A
suo parere, agire in conformità con la logica del bilanciamento dei poteri
risponde anche alla legge morale e comunque ne tiene maggiormente conto.
L’equilibrio costituisce la precondizione per giungere alla pace, seppure entro
i confini di un’inevitabile precarietà (l’equilibrio è biologicamente
instabile). Quando gli Stati entrano in competizione sia sul piano politico che
economico, per la scuola realista, sono le preoccupazioni di
sicurezza a prevalere sempre sugli interessi materiali. Chiudere gli occhi
sull’evidenza compromette la capacità del sistema di gestire la competizione
per la sicurezza quale percorso realistico verso la pace.
Per i
realisti, la competizione per la sicurezza è dunque una tragica necessità, data
la struttura anarchica del sistema internazionale. Per
costoro, tale competizione è indisciplinabile, in assenza di
un potere gerarchico che disponga del monopolio dell’uso della
forza. Secondo la scuola realista – che si oppone alla
scuola liberale, sfidando insieme la narrativa pubblica
prevalente – l’operazione militare speciale iniziata
da Mosca il 24 febbraio 2022 non è stata una derivata non-provocata dell’intento
russo di riposizionarsi sul quadrante dell’Europa Orientale un tempo presidiato
dall’Unione Sovietica.
Ai suoi
occhi l’impegno della scuola liberale nel combattere la politica di potenza con
le armi della moralità (i valori essendo ontologicamente precari e di
parte) finisce per generare esiti immorali. Per l’idealismo
liberale, la condotta degli Stati deve invece ispirarsi alla dimensione
etica. Se questa non è rispettata, emerge il dovere morale di
imporla, talora anche con le cattive. La scuola liberale ha
poco a che vedere con la nozione di libertà, finendo per voler
sottrarre alle altre nazioni la libera scelta sul proprio
destino. Non sorprende, del resto, che essa esprima valori allineati agli
interessi imperiali degli Stati Uniti. I suoi sostenitori ritengono che essa
sarebbe sostenuta da evidenze fattuali. L’implosione dell’Unione Sovietica del
1991, secondo la pittoresca profezia mai avveratasi del politologo
giappo-statunitense F. Fukuyama, avrebbe generato la fine della storia,
vale a dire l’imbuto democrazia liberale/economia di mercato, nel
quale tutte le nazioni del mondo, senza scampo, sarebbero prima o poi
precipitate. E qui iniziano i guai.
Nella
fattispecie della guerra in corso, la scuola realista contesta
l’assolutezza giuridica dell’Ucraina di aderire alla Nato,
discostandosi dal semplicismo strumentale dell’Occidente (governi e media).
L’argomento liberale, di genesi idealista –
sulla base del quale l’Ucraina viene quotidianamente devastata, deve
aggiungersi – è giudicato seducente ma pericoloso. Esso implica che quel paese
disponga della sovranità e della libertà (entrambe in forma incondizionata)
di aderire a qualsiasi alleanza, politica o militare che sia. Tale astratta
statuizione – che porterebbe a riconoscere alla Russia l’inaccettabile pretesa
di condizionare la libertà di scelta dell’Ucraina – raccoglie beninteso il
primitivo sostegno di opinioni pubbliche notoriamente narcotizzate da
rimbambimento televisivo-cellularico e ontologicamente aliene
all’approfondimento.
L’argomento idealistico esposto
(libertà incondizionata di aderire a qualsiasi alleanza) fonda
le radici su una proiezione onirica del mondo basata su una puerile onnipotenza
che ignora le ragioni della prassi, alimentando impulsi infantili.
L’espansione
di alleanze militari decise sulla carta che oblitera la sicurezza di una Grande
Potenza, nega le lezioni della storia. L’Ucraina confina con un paese nucleare,
tra i più armati al mondo. Le sue preoccupazioni securitarie sono quanto mai
legittime. Ma proprio tali preoccupazioni avrebbero consigliato la massima
prudenza. L’aver invitato la Grande Potenza rivale, gli Stati Uniti, a mettere
radici nel salotto di casa ha reso la competizione incandescente. Questo
invito, sia stato esso spontaneo o estorto dalla Cia con la corruzione o il
ricatto, rischia oggi di compromettere la sopravvivenza dell’Ucraina quale
Stato funzionale e sovrano.
Se si fosse
dato spazio alle ansie russe in tema di sicurezza, si sarebbe aperto un
orizzonte di pace, senza rinunciare a diritti/interessi fondamentali. Ciò
avrebbe garantito all’Ucraina una realistica sovranità.
Condizione questa che, alla luce della sua posizione geografica privilegiata,
le avrebbe consentito di prosperare dialogando e commerciando con gli uni e gli
altri. Nei decenni di guerra fredda nessun paese occidentale,
nemmeno gli oscillanti Stati Uniti, ha mai temuto che prestare
attenzione agli interessi di sicurezza dell’Unione Sovietica potesse essere
giudicato una capitolazione. Non a caso, in quegli anni, gli Stati
europei neutrali (Finlandia, Svezia, Jugoslavia, Austria)
fungevano da cuscinetto tra Est e Ovest, mitigando la competizione per la
sicurezza dei due fronti.
4. Sempre
secondo la scuola realista (in particolare J. Mearsheimer, Università di
Chicago), l’errore strategico degli Stati Uniti è stato di aggredire la Russia,
la quale invece doveva venir reclutata sul fronte occidentale in funzione
anticinese, poiché il vero peer contender della superpotenza
americana è la Cina, non la Russia, per ragioni demografiche (1,42 mld di
abitanti contro 145 mln) ed economiche (la Cina è dal 2015 la prima economia al
mondo a parità di potere d’acquisto, ed entro 8/10 anni lo sarà anche in potere
d’acquisto internazionale).
Ma qui
l’esegesi del prestigioso esponente della scuola realista ha
un cedimento. Se i bellicosi strateghi statunitensi hanno messo nel mirino la
Federazione sin dal 1991, una ragione deve pur esserci stata, per quanto
fallace la si possa ritenere. Vediamo.
La prima
ragione, non v’è dubbio, è stata la hybris di ogni impero: gli
Stati Uniti hanno ritenuto di poter travolgere oggi la Russia, principale
obiettivo della guerra ucraina, e domani la Cina, per destabilizzare la quale,
sembra di capire, l’Amministrazione Trump si servirà di Taiwan, obiettivo
velleitario, ma gli imperi declinano perché iniziano a chiudere gli occhi sulla
realtà.
Un’altra
ragione alla base della strategia Usa di destabilizzare la Russia deve
rinvenirsi nell’incubo che la saldatura di quest’ultima con Europa genera
nell’impero egemone, che avrebbe in tal caso rischiato di essere emarginato al
di là dell’Atlantico. La forte complementarità euro-russa avrebbe creato un
cemento unificante nella regione eurasiatica, alla quale si sarebbe aggiunta
gradualmente la Cina che con la Nuova Via della Seta persegue proprio
l’obiettivo di ridurre le distanze tra Estremo Oriente ed Europa, con la
successiva ulteriore aggregazione delle altre nazioni asiatiche. In tale
prospettiva d’orizzonte, la fibrillazione del dell’impero talassocratico
avrebbe superato la soglia di tolleranza. In tale evenienza, il potere del
mondo sarebbe passato dal mare (la talassocrazia americana) alla terra (la
heartland centroasiatica di Halford Mackinder).
Con
l’implosione sovietica, i paesi europei hanno perso l’occasione storica per
costruire un orizzonte di distensione e prosperità nella regione euro-asiatica,
non in alternativa ma a complemento della dimensione euro-atlantica, cui
avrebbero potuto associarsi, in uno scenario ideale, persino gli Stati Uniti, i
quali però, per le ragioni menzionate, non l’hanno consentito. Tale prospettiva
resta tuttavia nella logica della storia (Asia ed Europa costituiscono un’unica
entità continentale, non due come si pensava un tempo) e prima o poi rialzerà
la testa, con buona pace degli strateghi imperiali al tramonto.
Il mondo,
inoltre, non è più diviso in due blocchi, che la scuola realista chiama Grandi
Potenze. La tutela della sicurezza in un’arena a più voci trova
bilanciamento su più livelli, in una dimensione prismatica, che
coinvolge una panoplia di soggetti, seppure alcuni più potenti di altri.
Dunque, e
qui entra in gioco la scuola costruttivista, in un’interlocuzione a più voci il
ruolo delle organizzazioni internazionali, oggi poco influenti, torna cruciale
per contenere frizioni e contrasti consustanziali sulla scena del mondo.
La scuola
neomarxista, infine, che vede il confronto nel mondo quale riflesso della lotta
di classe all’interno dei paesi, pone enfasi sulla prevaricazione dei paesi
ricchi, potenti, dotati di armi, tecnologie e capitali, sulle nazioni povere,
oppresse e colonizzate. Sulla strada eterna dell’emancipazione e nell’orizzonte
ideale di una nuova umanità, la palingenesi interna agli Stati, dopo aver
conquistato una diversa modulazione dei rapporti di forza tra dominati e
dominanti, saprà gettare le basi per una graduale e universale alleanza tra
nazioni ideologicamente vicine per la costruzione di una nuova etica della
convivenza. La sintesi di tali percorsi che intrecciano teoria e prassi è
beninteso lasciata al paziente apprezzamento del lettore.
5. Se
l’odierna scena internazionale è fonte di preoccupazione, dunque, essa non è
però priva di qualche speranza. Il peso complessivo dei paesi Brics-plus, Sco[3],
dell’Unione Economica Euroasiatica e delle numerose aggregazioni già operanti
nei cinque continenti, ha già creato un faro strategico alternativo al dominio
occidentale a guida Usa, e in espansione.
Per
comprendere l’ampiezza dei cambiamenti in corso, non sarà inutile guardare alla
ricchezza prodotta nei due campi, quello occidentale e quello emergente[4].
Al 31 dicembre 2023, secondo il Fmi[5] il
Pil dei paesi G7 è stato di 52.151 mld di dollari in parità di potere
d’acquisto (Ppp)[6].
Quello dei Brics-plus ha superato 63.157 mld. Se poi si sommano i paesi che
hanno già chiesto di aderire[7] (e
la lista è destinata a crescere) il Pil complessivo sfiora i 78.000 mld: una
ricchezza enorme. Resta vero che se al G7 si sommano le economie dell’Occidente
che non ne fanno parte, quest’ultimo è tuttora più ricco. Le distanze,
tuttavia, si accorciano ogni giorno, poiché i paesi emergenti crescono a tassi
più elevati.
Il G7 è un
simulacro di potere che non riflette più quello che la retorica occidentale
chiamava un tempo comunità internazionale. Ormai, le discussioni
che vi hanno luogo appassionano soprattutto i cultori di storia medievale. Quel
tempo è scaduto, e i sedicenti padroni del mondo, insieme a Nato e
Unione Europea (v. dichiarazione congiunta Consiglio Ue-Nato[8]),
servono soprattutto a orientarsi su tempi e luoghi del prossimo conflitto
armato. Dove si collochi, su tale palcoscenico, l’ostentata democrazia
occidentale resta un quesito aperto.
Divenuto
plurale, multipolare e multinodale, il pianeta dà il benvenuto a
una miriade di nuovi protagonisti (come si è visto al vertice Brics-plus di
Kazan, 24-26 ottobre scorsi): Cina e India (le nazioni più popolose del
pianeta) e poi Russia (grande potenza nucleare e solida economia energetica e
agricola), Brasile, Sud Africa e altri paesi a seguire, tutti determinati a
contenere l’arroganza del capitalismo corporativo privato e dei Dottor
Stranamore che si agitano nel ventre dell’impero.
L’obiettivo
del Sud Globale non è, tuttavia, il dominio sul mondo al posto dell’impero
egemone. Molti paesi hanno del resto interessi sui due fronti. Il cemento
unificante è invero il principio di sovranità, vale a dire il
recupero della libertà di scegliere il proprio destino, obiettivo sul quale –
sia detto anche qui en passant – anche il nostro paese avrebbe
interesse a concentrarsi se vuole evitare un drammatico declino, così come
l’Europa tutta, le cui classi dirigenti, in cambio di carriere, denari e onori,
hanno consegnato del futuro dei nostri figli a interessi altrui.
6. Epilogo.
L’imperialismo Usa odierno non è diverso nei metodi e obiettivi da quelli del
passato, ma ricchezza e potere vi sono concentrati come mai prima nella storia,
mentre disinformazione e propaganda hanno raggiunto livelli senza precedenti.
Nel mondo
occidentale, il capitalismo autoritario si manifesta attraverso politiche di
disciplina sociale, quelle europee di austerità (imposte da una tecnocrazia
globalista falsamente democratica), la strategia della paura (precariato
permanente, disoccupazione, l’invasione russa, il terrorismo,
l’espansione cinese, l’Iran, i virus). In America, si agitano
milizie armate solo in parte controllabili, un irrisolto divario razziale,
etnico e di benessere, le nefandezze dello stato profondo, il
proliferare delle spese belliche, conflitti diretti o per procura e via
dicendo. In Europa, al blocco unico di centro è affidato
l’incaricato di sorvegliare il disagio sociale per scongiurare il punto di non
ritorno, mentre sinistra e destra si
distinguono solo per i tratti somatici dei rispettivi vertici, e per una
diversa perizia nell’organizzare l’intrattenimento, mentre le ali estreme, a
destra impraticabili, a sinistra ridotte in cenere, non contano. A fronte di
ciò, la maggior parte degli abitanti della terra dispone di redditi di sopravvivenza,
mentre la natura strutturale del conflitto tra dominati e
dominanti è tenuta nascosta da analfabetismo politico, ritardo
culturale, emarginazione e manipolazione.
Il pianeta
avrebbe invero precise urgenze: 1) i rischi di una guerra nucleare che marcherebbe
il crepuscolo del genere umano. Secondo il doomsday clock – l’orologio
dell’apocalisse – la distanza dalla mezzanotte, che segnerebbe la fine
del mondo, è oggi misurata non più in minuti ma in secondi (per
l’esattezza novanta), tanto più che quel pulsante è affidato alle
macchine; 2) un capitalismo privo di limitazioni, reso estremo dalla ferocia
neoliberista, che concentra immense ricchezze nelle mani di pochi; e 3) la
distruzione dell’equilibrio ecologico, la cui ragione strutturale risiede nella
bulimia delle corporazioni private interessate solo al profitto.
In una
diversa prospettiva, gli Stati Uniti potrebbero riflettere sulla necessità di
sedere intorno a un tavolo come un paese normale per
contribuire alla soluzione pacifica delle emergenze. Oggi, tale prospettiva è
una chimera. La sua ipertrofia oligarchica e bellicista, lontana dai bisogni
del popolo, non può essere contenuta dalle deboli restrizioni del diritto
internazionale, ma solo da profondi cambiamenti interni, valoriali e di potere
(che non sono però alle viste) o da un graduale riequilibrio di forze sulla
scena internazionale, al raggiungimento del quale il contributo del Sud Globale
sarà quanto mai prezioso. A dispetto del fallace storicismo di F. Fukuyama, per
finire, l’uomo resta arbitro del proprio destino. L’aspirazione a un mondo
diverso e migliore rispetto a quello attuale è alimentata da una fiamma eterna
che mai si spegnerà nel cuore degli uomini integri e di buona volontà.
Note
[1] Cuba, Vietnam, Iran, Serbia, Iraq, Siria, Libia, Afghanistan, 15
altri solo in Sud America, tra cui Nicaragua, Cile, Panama, le prigioni/torture
di Guantanamo, Bagram, Abu Graib altre segrete, omicidi extragiudiziali “al
drone”, la vicenda Julian Assange e quella di Edward Snowden, e via dicendo.
Solo dal 1947 al 1989 gli Stati Uniti hanno organizzato 70 tentativi di regime
change (l’eufemismo sta per colpi di Stato), 64 sotto copertura, 6 con sostegno
militare aperto. In 25 casi, i tentativi hanno avuto successo con
l’instaurazione di un governo amico, in altri 39 sono invece falliti (Covert
Regime Change, Linsday A. O’Rourke, Cornell University Press, 2018).
Ciò ha causato milioni di vittime, rifugiati, distruzioni, degrado e via
dicendo, tutto per promuovere i sani valori della democrazia e dei diritti
umani.
[2] Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa e altri cinque, più 13 con
la qualifica di paesi partners.
[3] Shanghai Organization Cooperation.
[4] Al 31 dicembre 2021 il Pil complessivo dei paesi del G7, in potere
d’acquisto internazionale (PAI), era stato di 42.368 mld di dollari (e 44.558
in PPP, potere d’acquisto interno). Al 31 dicembre 2022 tale Pil aggregato
dovrebbe superare i 43.538 mld in PAI e 49.186 mld in PPP. Per i paesi Brics,
al 31 dicembre 2021 i dati sono rispettivamente 24.709 mld di dollari in PAI e
46.615 in PPP, e nella proiezione al 31 dicembre 2022, rispettivamente 26.227
mld in PAI e 51.117 in PPP. Se all’attuale composizione dei Brics si aggiungono
i paesi che hanno chiesto di aderirvi – vale a dire, Argentina, Algeria, Iran e
Turchia – il Pil totale in PAI è 26.682 mld (al 31 dicembre 2021) e 28.497 mld
(nella proiezione al 31 dicembre 2022), mentre in PPP è stato di 52.151 mld (al
31 dicembre 2021), e di 57.845 mld di dollari in PPP (nella proiezione al 31
dicembre 2022). Aggiungendo quindi l’Arabia Saudita – che intende anch’essa
aderire ai Brics – il Pil complessivo al 31 dicembre 2021 è stato di 27515 mld
di dollari in PAI e 53902 in PPP, mentre la proiezione al 31 dicembre 2022 è di
29.507 mld (in PAI) e 59.863 mld (in PPP).
[5] Fondo Monetario Internazionale.
[6] https://www.imf.org/external/datamapper/PPPGDP@WEO/OEMDC/ADVEC/WEOWORLD
[7] Algeria, Bangladesh, Bahrein, Belarus, Bolivia, Vietnam, Honduras,
Indonesia, Cuba, Kazakistan, Kuwait, Marocco, Nigeria, Palestina, Senegal e
Thailandia.
[8] Vedansi https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_185000.htm per il vertice Nato giugno
2021 (Bruxelles), https://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_196951.htm per il Vertice Nato del giugno
2022 (Madrid) e https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/01/10/eu-nato-joint-declaration-10-january-2023/, per il comunicato del Consiglio
Ue-Nato del 10 gennaio 2023.
da
qui