lunedì 31 marzo 2025

Come salvare Kiev dopo la sconfitta - Barbara Spinelli

Cruda verità - Smascherando le illusioni e la propaganda, Trump rivela la sola cosa che conta e che tanti non hanno voluto dire: la ineluttabile realtà dei rapporti di forza. Solo partendo da qui si potrà aiutare l’Ucraina

(23 Febbraio 2025, Fatto Quotidiano)


Prima di accusare Giuseppe Conte di tradimento dei valori occidentali, e di sottomissione a Trump e alle estreme destre, converrebbe analizzare l’andamento della guerra in Ucraina negli ultimi tre anni e chiedersi come mai l’illusione di una vittoria di Kiev sia durata così a lungo e apparentemente duri ancora.

Come mai non ci sia alcun ripensamento, nella Commissione UE e nel Parlamento europeo, sulla strategia di Zelensky e sull’efficacia del sostegno militare a Kiev. La prossima consegna di armi, scrive il Financial Times, dovrebbe ammontare a 20 miliardi di dollari. 

Non è solo Conte a dire che Trump e i suoi ministri smascherano un’illusione costata centinaia di migliaia di morti ucraini oltre che russi: l’illusione che Kiev potesse vincere la guerra, e che per vincerla bastasse bloccare ogni negoziato con Putin e addirittura vietarlo, come decretato da Zelensky il 4 ottobre 2022, otto mesi dopo l’invasione russa e sette dopo un accordo russo-ucraino silurato da Londra e Washington. 

Smascherando illusioni e propaganda, Trump prende atto dell’unica cosa che conta: non la politica del più forte, come affermano tanti commentatori, ma la realtà ineluttabile dei rapporti di forza. Realtà dolorosa, ma meno dolorosa di una guerra che protraendosi metterebbe fine all’Ucraina. Trump agisce senza cultura diplomatica e alla stregua di un affarista senza scrupoli: come già a Gaza dove si è atteggiato a immobiliarista che spopola terre non sue immaginando di costruire alberghi sopra le ossa dei Palestinesi, oggi specula sulle rovine ucraine e reclama minerali preziosi in cambio degli aiuti sborsati dagli Usa. Ma al tempo stesso dice quel che nessuno osa neanche sussurrare: Mosca ha vinto questa guerra, e Kiev l’ha perduta. La resistenza ucraina non è vittoriosa perché l’Occidente pur spendendo miliardi non voleva che lo fosse.

Fingere che la realtà sia diversa, che non sia grottesco l’ennesimo pellegrinaggio di Ursula von der Leyen a Kiev, in sostegno di Zelensky, è pensiero magico allo stato puro, invenzione di ologrammi paralleli. I vertici dell’Ue fingono di rappresentare l’intera Unione e giungono sino a reinserire nella propria cabina di comando la Gran Bretagna che dall’Unione pareva uscita. 

Riconoscere la sconfitta di Kiev e Zelensky non è sacrificare l’Ucraina. Trump sacrifica il patto bellicoso con Zelensky – nella tradizione statunitense molla spudoratamente l’alleato – ma salva quel che resta dello Stato ucraino prima che cessi di esistere del tutto (i Russi hanno riconquistato il 20, non il 100% del Paese). 

Così come stanno le cose militarmente, l’indignazione dei principali governi europei contro la tregua di Trump non implica la pace giusta, ma l’estinzione dell’Ucraina. Questa è la verità dei fatti tenuta nascosta durante la presidenza Biden: una bolla che Trump ha bucato con inaudita violenza verbale. Non si capisce come mai l’establishment giornalistico e politico in Europa parli di valori occidentali violati, di resistenza ucraina tradita, di Occidente sotto ricatto e attacco russo. L’Europa si è sfasciata, la Germania che va oggi al voto è il secondo grande perdente di questa guerra dopo l’Ucraina, e la bugia secondo cui Mosca può aggredire l’Europa se vince in Ucraina è irreale e antistorica. 

A ciò si aggiunga che non sono i francesi, né i tedeschi, né gli italiani, né gli inglesi, a morire sul fronte. È un’intera generazione di ucraini che è perduta. Anche questo viene occultato: i giovani ucraini da tempo disertano in massa il campo di battaglia. Fuggono come possono. Il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko narra di giovani ripetutamente “bussificati”, spediti senza formazione a morire: il termine fa riferimento ai minibus che con violenza prelevano per strada i riluttanti. “Ogni mese si registrano casi di coscritti forzati che nelle stazioni di mobilitazione vengono picchiati a morte”. Sono soprattutto i poveri a disertare, subire violenze e morire: non hanno soldi per corrompere le autorità e strappare l’esonero dal servizio militare. “In dicembre, inchieste giornalistiche hanno rivelato torture sistematiche ed estorsioni nei ranghi dell’esercito” (Peter Korotaev e Volodymyr Ishchenko, Al Jazeera 23.1.2025). 

Non meno occultata, perché incompatibile col pensiero magico: la destra estrema ucraina, i neonazisti che dal 2014 ispirano la guerra di Kiev contro i separatisti del Donbass. Si parla molto di neonazisti putiniani a Ovest. Di quelli ucraini non si parla più, eppure Zelensky è diventato il loro prigioniero. Anche il suo predecessore Porošenko lo era, quando nel 2012 declassò per legge la lingua russa e boicottò gli accordi di Minsk che garantivano autonomia al Donbass e ai russofoni. Preferì la guerra civile fra il 2014 e il 2022, prima del massiccio intervento dell’esercito russo. Di questa guerra si parla poco. Fu cruenta (più di 14 mila morti) e andrebbe anch’essa condannata. Cosa diremmo se Parigi bombardasse i separatisti della Corsica? 

Anche se non parla da statista, Trump ha in mente soluzioni sensate: ritornare alla promessa fatta a Gorbacëv di non allargare la Nato fino alle porte russe; riammettere Mosca nel Gruppo degli Otto (oggi Gruppo dei Sette) come era usanza alla fine della guerra fredda, prima che Obama facilitasse lo spodestamento di un governo ucraino troppo filorusso e Mosca reagisse riprendendosi la Crimea. Trump annuncia infine che europei e non europei potranno garantire militarmente l’Ucraina, ma senza gli Stati Uniti. 

La Nato sopravviverà forse per qualche tempo, ma è un meccanismo spezzato. Quanto agli europei, mentono sapendo di mentire. Dicono che spenderanno molto più per la difesa, ma che per custodire la tregua invieranno truppe in Ucraina a condizione che si impegnino pure gli Stati Uniti, cosa rifiutata appunto da Trump. Non potranno inoltre riarmarsi senza tagliare lo stato sociale, e anche questo è un freno. 

L’unica cosa che gli europei potrebbero fare, ma non fanno, è concepire una politica estera che ricominci da zero: cioè da quando è finita la guerra fredda, e Gorbacëv propose un sistema di sicurezza comune (la “Casa comune europea”). Forse è troppo tardi: tanto grande è il fossato che si è aperto tra Europa e Russia. Tanto forte è ancora l’ideologia neoconservatrice, che sembra spegnersi a Washington (non si sa per quanto tempo) ma persiste immutata nelle élite europee. È neocon il Presidente Mattarella, quando paragona Putin a Hitler nel momento in cui si negozia una tregua. Quando mai la Russia ha assaltato Germania, Francia, Italia, Inghilterra? 

Particolarmente rattristanti sono i partiti come il Pd, che si dicono di sinistra. Oggi si ritrovano a destra di Trump, a difendere un’Europa fortino e a dimenticare la distensione di Willy Brandt negli anni 60 del secolo scorso. Al posto della Ostpolitik si piangono oggi nebbiosi valori occidentali, euroatlantici. Si auspicano negoziati, ma senza mai ammettere la sconfitta di Kiev e la necessaria sua neutralità. Forse nel pensiero magico Trump passerà presto.

Fino alla vittoria - Pasquale Pugliese

  

2022: l’Ue smette per una volta di essere un’unione economica e dopo otto anni di guerra civile nel Donbass assume un ruolo di neutralità attiva, sottraendosi all’abbraccio mortale della Nato per poter svolgere un’autorevole azione di mediazione tra Russia e Ucraina, mentre sostiene i movimenti pacifisti e gli obiettori di coscienza dei due paesi… No, non è andata così, l’Ue (e con essa l’Italia) si è lanciata invece in una nuova guerra di civiltà mandando armamenti a Kiev per 62 miliari di euro “fino alla vittoria”… Alcune stime parlano di oltre un milione tra russi e ucraini, morti, mutilati, feriti permanenti

 

Nessuno che avesse un minimo di onestà intellettuale poteva dubitare che c’erano solo due strade per concludere il conflitto armato in Ucraina: una mediazione con l’avversario o l’escalation fino alla guerra nucleare tra due superpotenze atomiche, che avrebbe provocato almeno 95 milioni di morti in 45 minuti, secondo la simulazione dell’Università di Princeton. Inascoltati, con Rete Italiana Pace e Disarmo, sosteniamo da prima che l’esercito russo invadesse il territorio ucraino – dopo otto anni di guerra civile nel Donbass e il tradimento degli accordi di Minsk – che l’Europa avrebbe dovuto esercitare un ruolo di “neutralità attiva”sottraendosi all’abbraccio mortale della Nato per poter svolgere un’autorevole azione di mediazione in quanto soggetto terzo; sostenere i movimenti pacifisti in Ucraina e Russia e dare rifugio agli obiettori di coscienza di entrambi i fronti; organizzare una Conferenza internazionale di pace e promuovere l’ingresso sia dell’Ucraina che della Russia nell’Unione Europea (era, peraltro, il vecchio sogno del presidente Gorbaciov, per un’Europa unita e pacifica dall’Atlantico agli Urali).

“Il maggior numero delle parti in conflitto – sosteneva Johan Galtung, fondatore dei Peace studies e mediatore Onu – ha qualche posizione valida: il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire da quel ‘qualcosa di valido’, per quanto minuscolo possa essere”. Invece l’Unione Europea – e con essa l’Italia, ripudiando per l’ennesima volta la sua Costituzione, anziché la guerra – si è lanciata, a rimorchio degli Usa, in una nuova “guerra di civiltà” (dopo quella anti-islamica) contro la Russia, mandando armamenti per 62 miliardi di euro… “fino alla vittoria”. Oggi che “il nuovo sceriffo” della Casa Bianca dà il contrordine e avvia negoziati diretti con il capo del Cremlino – a dispetto della reductio ad hitlerum che ne aveva fatto la vulgata bellicista – che sembrano accogliere le sue richieste iniziali, a cominciare dalla neutralità militare dell’Ucraina, aggravate dall’espansione militare russa sul terreno in questi tre anni di guerra, i governi europei e i cantori dell’escalation, messi ai margini, rimangono increduli e frastornati.

Nel frattempo, i calcoli geopolitici delle cancellerie internazionali hanno triturato una generazione di giovani europei, con sommo disprezzo delle vite umane, in quella che gli storici ricorderanno come “l’inutile strage” del XXI secolo, esattamente come accadde nella prima guerra mondiale che avrebbe dovuto “porre fine a tutte le guerre”. Ingannati, allora come oggi, come scriveva il generale Smedley D. Butler, eroe della “grande guerra”, nel libro che ne scrisse a conclusione dal titolo La guerra è una mafia:

“Ragazzi con una normale prospettiva di vita sono stati strappati via dai campi, dagli uffici, dalle fabbriche, dalle aule scolastiche e messi in riga per essere rimodellati e riprogrammati. A loro è stato imposto un brusco dietro-front con cui si sono trovati a passare da una vita normale a un’altra dove l’omicidio è all’ordine del giorno. Sono stati messi spalla a spalla e, attraverso il condizionamento di massa, trasformati. Li abbiamo sfruttati per un paio di anni addestrandoli a non far altro che uccidere o essere uccisi”.

Non sappiamo ancora quante siano le vittime effettive dal 2022, stime parlano di oltre un milione tra russi e ucraini, morti e mutilati, feriti e traumatizzati permanenti.

 

Che cosa rimane di questi anni di guerra in Europa? La militarizzazione dell’economia e della cultura, con l’alimentazione della paura del “nemico” alle porte, come esplicitato chiaramente da Mark Rutte, segretario generale della Nato, che ha intimato di passare alla “mentalità di guerra”, e da Ursula von der Leyen che alla Conferenza di Monaco sulla “sicurezza” ha ordinato di adottare “in modo permanente la mentalità di urgenza”. Ma, come spiegava Zygmunt Bauman, le paure indotte “arrivano nella nostra vita già con i loro rimedi, prima ancora che i mali che essi promettono di curare abbiano fatto in tempo a spaventarci” (Paura liquida). E il rimedio della Commissione europea è di aumentare le spese militari dei paesi europei “per centinaia di miliardi in più all’anno”, ossia dai 340 miliardi che corrispondono in media al 2% del Pil dei paesi UE nel 2024 a 620 miliardi all’anno, ossia al 3,5% del loro Pil.

Per fare questo – per la corsa agli armamenti, non per gli investimenti sociali – von der Leyen sospende i vincoli di spesa previsti dal patto di stabilità, esattamente come avvenuto durante la crisi della pandemia di Covid. Ma per il Covid quegli investimenti straordinari servivano ad uscire dalla pandemia e salvare vite, le spese militari servono per entrare nella pandemia della guerra permanente che falcia le vite. Durante il periodo del Covid avevo raccolto i miei articoli del tempo in un libretto intitolato Disarmare il virus della guerra e sottotitolato Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie. Ecco, sta avvenendo esattamente il contrario: allora era stato usato il paradigma bellico per affrontare una pandemia virale, adesso si usa il paradigma pandemico per entrare nell’epoca della guerra globale. Dalla guerra al virus al virus della guerra.

da qui

domenica 30 marzo 2025

Il riarmo degli imbecilli – Emmanuel Todd

 

Le guerre e l’orizzonte di un mondo diverso - Alberto Bradanini

 

1. All’inizio c’è sempre l’Indignazione, cui segue un indistinto sentimento d’irritazione, non importa se intellettuale, etica o epidermica, che cresce a dismisura se si getta lo sguardo sulle ingiustizie perpetrate dai potenti e sulla macchina della manipolazione che modella una popolazione narcotizzata da consumismo e rimbambimento smartfonico, quella medesima manipolazione che sul piano internazionale impone il delirio paranoico bellicista del principale avversario della pace nel mondo, l’Impero americano. Non v’è dubbio che una sintesi estrema come quella che precede porta con sé il rischio di risultare apodittici. Essa tuttavia ci fa almeno guadagnare in chiarezza di posizionamento.

In dettaglio, se si getta lo sguardo al dipanare degli accadimenti è possibile identificare con buona approssimazione i nemici principali da cui occorre guardarsi: sul piano economico un capitalismo selvaggio e la società della mercificazione; su quello politico l’assolutismo neoliberalista; sul piano filosofico l’alienazione solipsista; su quello sociale il dominio mercantile e sull’arena geopolitica, ça va sans dire, gli Stati Uniti d’America.

Parafrasando l’incipit della Bibbia, all’inizio c’è il Verbo, americano beninteso, che andrebbe chiamato in realtà statunitense, perché i nobili abitanti di quel continente non andrebbero confusi con le oligarchie malate che guidano la locomotiva impazzita di quella nazione. Ma la lingua imperiale deforma senso e controsenso, imponendosi persino nel balbettio lessicale di ridicoli operatori mediatici. Per Verbo statunitense deve comunque intendersi una forma mentis, variante della nozione di caos, luogo metafisico che consente alla plutocrazia bellicista di quel paese di acquisire legittimazione abolitoria di ogni restrizione agli interventi armati contro chiunque osi mantenere la posizione retta. Da lì la patologia dell’eccezionalismo americanista si è poi diffusa nell’inconscio filosofico-valoriale di tante nazioni non solo occidentali, deformando la coscienza di miliardi di individui intellettualmente fragili e indifesi, corredati di difese deboli davanti alle nefande intimidazioni della «nazione scelta da dio per governare un mondo altrimenti ingovernabile» (W. Clinton, 1999).

Gli Stati Uniti costituiscono oggi il supremo garante strategico-militare dell’egemonismo estrattivo planetario, un’oligarchia bulimica di super-ricchi che sventola la bandiera dei diritti umani con le mani insanguinate, massacrando popoli indifesi, colpevoli solo di perseguire la libera scelta del proprio destino. Negli ultimi ottant’anni la cupola oligarchica statunitense ha fatto uso di ogni genere di armi: nucleari, al napalm, al fosforo, al drone, al cianuro e via massacrando, ricorrendo al metodo scientifico della tortura, direttamente (Guantanamo, Abu Ghraib, Bagram e in altre prigioni note e segrete), per procura (educando al riguardo dittature sudamericane, autocrazie militari africane e asiatiche) o per saldatura ideale con compagni di merende (spicca in proposito lo Stato terrorista/apartheid di Israele, sospettato di genocidio dalle Corti Penali e di Giustizia internazionali (che ora chiedono di arrestare B. Netanyahu e il suo ex ministro della difesa, Y. Gallant), sebbene poco cambierebbe per i poveri palestinesi bombardati o sepolti vivi dalle armi democratiche statunitensi se tali crimini fossero definiti solo massacri. A Israele è consentita ogni atrocità etica e giuridica. L’ideologia sionista, usurpatrice della sofferenza ebraica, si offre alla commiserazione del mondo come vittima iconica della storia, dopo aver costruito sull’olocausto una fiorente industria e aver esteso a tutto l’Occidente la colpa inespiabile della follia sterminatrice nazi-tedesca. Quando tutto ciò non è sufficiente, la medesima ideologia ricorre alla sorveglianza mediatica e alle minacce delle lobbies israeliane (in Usa e nel mondo). È così che la strumentale assimilazione tra sionismo da una parte, e religione/etnia dall’altra, avanza parallela con l’asservimento psico-culturale e la viltà politica delle classi dirigenti statunitensi ed europee (che ne estraggono carriere, onori e denari). L’Occidente non ha scampo, la sua colpa olocaustica può essere scontata solo nell’eternità!

Una schiera di analisti (una per tutti Lindsay O’Rourke, Covert Regime Change, Cornell University, 2018) ha documentato con dovizia di evidenze che a partire dal secondo dopoguerra gli Stati Uniti hanno tratto benefici giganteschi dai conflitti provocati, sostenuti e combattuti nel mondo. L’elenco delle guerre, interferenze e sistematiche violazioni del diritto e dell’etica pubblica da parte di questa nazione malata è noto, ma proprio perché noto, affermava Hegel, non è conosciuto: un sintetico rinfresco di memoria è disponibile nella nota a margine[1]. È bene chiarire che non si tratta qui di posizioni antiamericane pregiudiziali. L’avversario, sia chiaro, non è il popolo americano, oppresso come altri e sia detto en passant tra i più politicamente analfabeti del pianeta, ma quell’1% che esprime l’oligarchia plutocratica, predatoria e bellicista che lo dirige. Del resto, le coscienze più sensibili di quella nazione si son sempre battute contro tali aberrazioni, pagando anche pesanti tributi personali.

Gli Stati Uniti, impaludati nell’infantile convincimento di essere stati scelti da dio per governare un mondo irrequieto, impongono la mistica stravagante di una preminenza etico-culturale (estesa alle altre nazioni anglosassoni, ma non del tutto), più altre ridicole perle di mitologica superiorità, che per ragioni indecifrabili i governi europei digeriscono senza conati di vomito, mentre il Sud del Mondo (Brics-plus[2] e tanti altri) ha da tempo abbandonato tale grottesca sottomissione psicologica, economica e politica, avendo acquisito consapevolezza del valore delle loro civiltà.

 

2. Le guerre, sono i governi a volerle, non i popoli, anche se occorre sondare la dinamica strutturale che spinge i primi a preferire il conflitto, male supremo, in luogo della pace, opprimendo la volontà dei secondi. Se talvolta anche i popoli si convincono che la guerra sia inevitabile, togliendo spazio al percorso della pace, va tenuto a mente che un ruolo cruciale tra i decisori politici è ricoperto da propaganda, manipolazione, corruzione morale e materiale, insieme a cinismo e distacco dalla realtà dei detentori ultimi del potere, quelli che modellano a piacimento le maschere di carattere interscambiabili di politici/burocrati, giornalisti e accademici, fatte salve le usuali eccezioni che non fanno la differenza.

I motori di questa macchina letale si situano nelle sfere finanziarie dominanti (il cuore putrido del sistema), politiche (i maggiordomi) e mediatiche (il popolo va sorvegliato attraverso menzogna e paura, non si sa mai!), sfere occultate sotto qualifiche meno indigeribili quali rappresentanti del popolo, parlamentari eletti, ministri illuminati, presidenti acclamati dalle plebi e via infinocchiando.

Le guerre, dunque, possono essere giuste o ingiuste (sotto il profilo etico), legittime o illegittime (sul piano giuridico, il diritto internazionale), opportune o inopportune (per i risultati prodotti). Per quanto concerne i due ultimi profili, i conflitti in Medio Oriente provocati o sostenuti dagli Usa (Iraq, Siria, Libia, Yemen, Afghanistan, Palestina e Libano) sono stati illegittimi e inopportuni (hanno violato la Carta delle Nazioni Unite e numerose Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza). Quanto al criterio della giustizia, il giudizio dipende dal sistema di valori di riferimento (l’etica, affermava Nietzsche, non è che la cornice dei valori a sostegno degli interessi del potere). Secondo il Diritto Internazionale, le guerre sono legittime in due sole circostanze: a) quando vi è il consenso formale della Comunità Internazionale, vale a dire una decisione del CdS delle N.U. (art. 51 della Carta), ovvero, a prescindere dal CdS, in caso di aggressione da parte di un’altra nazione.

La guerra resta in ogni caso una dimensione arcaica e selvaggia, assenza dello Stato di diritto, prevalenza della legge della giungla, massacri, omicidi mirati, stupri di massa, sopraffazioni e violenze di ogni genere. Se chi dichiara la guerra fosse tenuto ad andare lui stesso a farla, insieme alla sua famiglia, si porrebbe fine una volta per tutte a tale flagello. Mentre auspichiamo che Irene, la dea greca della pace, possa rendere tale norma universale, proviamo a ragionare.

Nulla è peggiore di una guerra (quella tra grandi potenze poi sarebbe fatale per tutti, in presenza di armi nucleari), nemmeno convivere con un dittatore, il quale va convinto con il dialogo politico ed economico a diventare ogni giorno meno dittatore (come avvenuto in vari paesi di Sud America, Asia e Africa), e come avverrebbe in Medio Oriente, se l’impero egemone e il suo cagnolino da passeggio israeliano fossero costretti a rispettare i principi della ragione e della dimensione umana del vivere civile.

Resta cruciale, ma in ombra, il profilo strutturale del conflitto dominati/dominanti (individui o nazioni non fa differenza), vale a dire la natura socioeconomica dei rapporti di classe, solitamente occultata per inconsistenza filosofica o convenienza, sfuggendo alla consapevolezza a causa di ritardo culturale, ricatti/povertà, violenze e manipolazioni. Come rileva G. Orwell nel suo libro iconico (1984), l’obiettivo della guerra non è la sconfitta dell’avversario, ma il mantenimento della struttura classista del potere all’interno del sistema. Non è certo un caso se le guerre arricchiscono i già ricchi e potenti, spesso nascosti tra le quinte.

 

3. Quanto sopra premesso, non v’è dubbio che la guerra costituisca fattore dominante dell’azione degli Stati sulla scena internazionale: la sola ipotesi anche lontana che possa profilarsi all’orizzonte condiziona a fondo il modo in cui gli Stati interagiscono tra loro. Che si abbia a che fare con un conflitto aperto o sullo sfondo, l’ombra della guerra domina l’orizzonte, generando cupidigia, angoscia, terrore su un’arena internazionale ontologicamente competitiva.

Nella nota sintesi del generale prussiano Carl von Clausewitz, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, strumento occulto e ineludibile del governare, che ha poco a che fare con la morale o il diritto. Gli Stati entrano in conflitto quando lo ritengono nel loro interesse. Sotto questo aspetto, si hanno due tipologie di guerre: preventiva e di opportunità, solo la prima all’interno del recinto teorico di guerra giusta o legittima, seppure a date condizioni.

Quattro sono le principali teorie delle relazioni internazionali: quella realista/neorealista, quella liberale, quella costruttivista e quella marxista/neomarxista. Per il realista gli Stati competono tra loro per il potere, al fine di garantirsi la propria sicurezza, pacificamente e quando inevitabile anche con l’uso della forza. A suo parere, agire in conformità con la logica del bilanciamento dei poteri risponde anche alla legge morale e comunque ne tiene maggiormente conto. L’equilibrio costituisce la precondizione per giungere alla pace, seppure entro i confini di un’inevitabile precarietà (l’equilibrio è biologicamente instabile). Quando gli Stati entrano in competizione sia sul piano politico che economico, per la scuola realista, sono le preoccupazioni di sicurezza a prevalere sempre sugli interessi materiali. Chiudere gli occhi sull’evidenza compromette la capacità del sistema di gestire la competizione per la sicurezza quale percorso realistico verso la pace.

Per i realisti, la competizione per la sicurezza è dunque una tragica necessità, data la struttura anarchica del sistema internazionale. Per costoro, tale competizione è indisciplinabile, in assenza di un potere gerarchico che disponga del monopolio dell’uso della forza. Secondo la scuola realista – che si oppone alla scuola liberale, sfidando insieme la narrativa pubblica prevalente  l’operazione militare speciale iniziata da Mosca il 24 febbraio 2022 non è stata una derivata non-provocata dell’intento russo di riposizionarsi sul quadrante dell’Europa Orientale un tempo presidiato dall’Unione Sovietica.

Ai suoi occhi l’impegno della scuola liberale nel combattere la politica di potenza con le armi della moralità (i valori essendo ontologicamente precari e di parte) finisce per generare esiti immorali. Per l’idealismo liberale, la condotta degli Stati deve invece ispirarsi alla dimensione etica. Se questa non è rispettata, emerge il dovere morale di imporla, talora anche con le cattive. La scuola liberale ha poco a che vedere con la nozione di libertà, finendo per voler sottrarre alle altre nazioni la libera scelta sul proprio destino. Non sorprende, del resto, che essa esprima valori allineati agli interessi imperiali degli Stati Uniti. I suoi sostenitori ritengono che essa sarebbe sostenuta da evidenze fattuali. L’implosione dell’Unione Sovietica del 1991, secondo la pittoresca profezia mai avveratasi del politologo giappo-statunitense F. Fukuyama, avrebbe generato la fine della storia, vale a dire l’imbuto democrazia liberale/economia di mercato, nel quale tutte le nazioni del mondo, senza scampo, sarebbero prima o poi precipitate. E qui iniziano i guai.

Nella fattispecie della guerra in corso, la scuola realista contesta l’assolutezza giuridica dell’Ucraina di aderire alla Nato, discostandosi dal semplicismo strumentale dell’Occidente (governi e media). L’argomento liberale, di genesi idealista – sulla base del quale l’Ucraina viene quotidianamente devastata, deve aggiungersi – è giudicato seducente ma pericoloso. Esso implica che quel paese disponga della sovranità e della libertà (entrambe in forma incondizionata) di aderire a qualsiasi alleanza, politica o militare che sia. Tale astratta statuizione – che porterebbe a riconoscere alla Russia l’inaccettabile pretesa di condizionare la libertà di scelta dell’Ucraina – raccoglie beninteso il primitivo sostegno di opinioni pubbliche notoriamente narcotizzate da rimbambimento televisivo-cellularico e ontologicamente aliene all’approfondimento.

L’argomento idealistico esposto (libertà incondizionata di aderire a qualsiasi alleanza) fonda le radici su una proiezione onirica del mondo basata su una puerile onnipotenza che ignora le ragioni della prassi, alimentando impulsi infantili.

L’espansione di alleanze militari decise sulla carta che oblitera la sicurezza di una Grande Potenza, nega le lezioni della storia. L’Ucraina confina con un paese nucleare, tra i più armati al mondo. Le sue preoccupazioni securitarie sono quanto mai legittime. Ma proprio tali preoccupazioni avrebbero consigliato la massima prudenza. L’aver invitato la Grande Potenza rivale, gli Stati Uniti, a mettere radici nel salotto di casa ha reso la competizione incandescente. Questo invito, sia stato esso spontaneo o estorto dalla Cia con la corruzione o il ricatto, rischia oggi di compromettere la sopravvivenza dell’Ucraina quale Stato funzionale e sovrano.

Se si fosse dato spazio alle ansie russe in tema di sicurezza, si sarebbe aperto un orizzonte di pace, senza rinunciare a diritti/interessi fondamentali. Ciò avrebbe garantito all’Ucraina una realistica sovranità. Condizione questa che, alla luce della sua posizione geografica privilegiata, le avrebbe consentito di prosperare dialogando e commerciando con gli uni e gli altri. Nei decenni di guerra fredda nessun paese occidentale, nemmeno gli oscillanti Stati Uniti, ha mai temuto che prestare attenzione agli interessi di sicurezza dell’Unione Sovietica potesse essere giudicato una capitolazione. Non a caso, in quegli anni, gli Stati europei neutrali (Finlandia, Svezia, Jugoslavia, Austria) fungevano da cuscinetto tra Est e Ovest, mitigando la competizione per la sicurezza dei due fronti.

 

4. Sempre secondo la scuola realista (in particolare J. Mearsheimer, Università di Chicago), l’errore strategico degli Stati Uniti è stato di aggredire la Russia, la quale invece doveva venir reclutata sul fronte occidentale in funzione anticinese, poiché il vero peer contender della superpotenza americana è la Cina, non la Russia, per ragioni demografiche (1,42 mld di abitanti contro 145 mln) ed economiche (la Cina è dal 2015 la prima economia al mondo a parità di potere d’acquisto, ed entro 8/10 anni lo sarà anche in potere d’acquisto internazionale).

Ma qui l’esegesi del prestigioso esponente della scuola realista ha un cedimento. Se i bellicosi strateghi statunitensi hanno messo nel mirino la Federazione sin dal 1991, una ragione deve pur esserci stata, per quanto fallace la si possa ritenere. Vediamo.

La prima ragione, non v’è dubbio, è stata la hybris di ogni impero: gli Stati Uniti hanno ritenuto di poter travolgere oggi la Russia, principale obiettivo della guerra ucraina, e domani la Cina, per destabilizzare la quale, sembra di capire, l’Amministrazione Trump si servirà di Taiwan, obiettivo velleitario, ma gli imperi declinano perché iniziano a chiudere gli occhi sulla realtà.

Un’altra ragione alla base della strategia Usa di destabilizzare la Russia deve rinvenirsi nell’incubo che la saldatura di quest’ultima con Europa genera nell’impero egemone, che avrebbe in tal caso rischiato di essere emarginato al di là dell’Atlantico. La forte complementarità euro-russa avrebbe creato un cemento unificante nella regione eurasiatica, alla quale si sarebbe aggiunta gradualmente la Cina che con la Nuova Via della Seta persegue proprio l’obiettivo di ridurre le distanze tra Estremo Oriente ed Europa, con la successiva ulteriore aggregazione delle altre nazioni asiatiche. In tale prospettiva d’orizzonte, la fibrillazione del dell’impero talassocratico avrebbe superato la soglia di tolleranza. In tale evenienza, il potere del mondo sarebbe passato dal mare (la talassocrazia americana) alla terra (la heartland centroasiatica di Halford Mackinder).

Con l’implosione sovietica, i paesi europei hanno perso l’occasione storica per costruire un orizzonte di distensione e prosperità nella regione euro-asiatica, non in alternativa ma a complemento della dimensione euro-atlantica, cui avrebbero potuto associarsi, in uno scenario ideale, persino gli Stati Uniti, i quali però, per le ragioni menzionate, non l’hanno consentito. Tale prospettiva resta tuttavia nella logica della storia (Asia ed Europa costituiscono un’unica entità continentale, non due come si pensava un tempo) e prima o poi rialzerà la testa, con buona pace degli strateghi imperiali al tramonto.

Il mondo, inoltre, non è più diviso in due blocchi, che la scuola realista chiama Grandi Potenze. La tutela della sicurezza in un’arena a più voci trova bilanciamento su più livelli, in una dimensione prismatica, che coinvolge una panoplia di soggetti, seppure alcuni più potenti di altri.

Dunque, e qui entra in gioco la scuola costruttivista, in un’interlocuzione a più voci il ruolo delle organizzazioni internazionali, oggi poco influenti, torna cruciale per contenere frizioni e contrasti consustanziali sulla scena del mondo.

La scuola neomarxista, infine, che vede il confronto nel mondo quale riflesso della lotta di classe all’interno dei paesi, pone enfasi sulla prevaricazione dei paesi ricchi, potenti, dotati di armi, tecnologie e capitali, sulle nazioni povere, oppresse e colonizzate. Sulla strada eterna dell’emancipazione e nell’orizzonte ideale di una nuova umanità, la palingenesi interna agli Stati, dopo aver conquistato una diversa modulazione dei rapporti di forza tra dominati e dominanti, saprà gettare le basi per una graduale e universale alleanza tra nazioni ideologicamente vicine per la costruzione di una nuova etica della convivenza. La sintesi di tali percorsi che intrecciano teoria e prassi è beninteso lasciata al paziente apprezzamento del lettore.

 

5. Se l’odierna scena internazionale è fonte di preoccupazione, dunque, essa non è però priva di qualche speranza. Il peso complessivo dei paesi Brics-plus, Sco[3], dell’Unione Economica Euroasiatica e delle numerose aggregazioni già operanti nei cinque continenti, ha già creato un faro strategico alternativo al dominio occidentale a guida Usa, e in espansione.

Per comprendere l’ampiezza dei cambiamenti in corso, non sarà inutile guardare alla ricchezza prodotta nei due campi, quello occidentale e quello emergente[4]. Al 31 dicembre 2023, secondo il Fmi[5] il Pil dei paesi G7 è stato di 52.151 mld di dollari in parità di potere d’acquisto (Ppp)[6]. Quello dei Brics-plus ha superato 63.157 mld. Se poi si sommano i paesi che hanno già chiesto di aderire[7] (e la lista è destinata a crescere) il Pil complessivo sfiora i 78.000 mld: una ricchezza enorme. Resta vero che se al G7 si sommano le economie dell’Occidente che non ne fanno parte, quest’ultimo è tuttora più ricco. Le distanze, tuttavia, si accorciano ogni giorno, poiché i paesi emergenti crescono a tassi più elevati.

Il G7 è un simulacro di potere che non riflette più quello che la retorica occidentale chiamava un tempo comunità internazionale. Ormai, le discussioni che vi hanno luogo appassionano soprattutto i cultori di storia medievale. Quel tempo è scaduto, e i sedicenti padroni del mondo, insieme a Nato e Unione Europea (v. dichiarazione congiunta Consiglio Ue-Nato[8]), servono soprattutto a orientarsi su tempi e luoghi del prossimo conflitto armato. Dove si collochi, su tale palcoscenico, l’ostentata democrazia occidentale resta un quesito aperto.

Divenuto plurale, multipolare e multinodale, il pianeta dà il benvenuto a una miriade di nuovi protagonisti (come si è visto al vertice Brics-plus di Kazan, 24-26 ottobre scorsi): Cina e India (le nazioni più popolose del pianeta) e poi Russia (grande potenza nucleare e solida economia energetica e agricola), Brasile, Sud Africa e altri paesi a seguire, tutti determinati a contenere l’arroganza del capitalismo corporativo privato e dei Dottor Stranamore che si agitano nel ventre dell’impero.

L’obiettivo del Sud Globale non è, tuttavia, il dominio sul mondo al posto dell’impero egemone. Molti paesi hanno del resto interessi sui due fronti. Il cemento unificante è invero il principio di sovranità, vale a dire il recupero della libertà di scegliere il proprio destino, obiettivo sul quale – sia detto anche qui en passant – anche il nostro paese avrebbe interesse a concentrarsi se vuole evitare un drammatico declino, così come l’Europa tutta, le cui classi dirigenti, in cambio di carriere, denari e onori, hanno consegnato del futuro dei nostri figli a interessi altrui.

 

6. Epilogo. L’imperialismo Usa odierno non è diverso nei metodi e obiettivi da quelli del passato, ma ricchezza e potere vi sono concentrati come mai prima nella storia, mentre disinformazione e propaganda hanno raggiunto livelli senza precedenti.

Nel mondo occidentale, il capitalismo autoritario si manifesta attraverso politiche di disciplina sociale, quelle europee di austerità (imposte da una tecnocrazia globalista falsamente democratica), la strategia della paura (precariato permanente, disoccupazione, l’invasione russa, il terrorismo, l’espansione cinese, l’Iran, i virus). In America, si agitano milizie armate solo in parte controllabili, un irrisolto divario razziale, etnico e di benessere, le nefandezze dello stato profondo, il proliferare delle spese belliche, conflitti diretti o per procura e via dicendo. In Europa, al blocco unico di centro è affidato l’incaricato di sorvegliare il disagio sociale per scongiurare il punto di non ritorno, mentre sinistra destra si distinguono solo per i tratti somatici dei rispettivi vertici, e per una diversa perizia nell’organizzare l’intrattenimento, mentre le ali estreme, a destra impraticabili, a sinistra ridotte in cenere, non contano. A fronte di ciò, la maggior parte degli abitanti della terra dispone di redditi di sopravvivenza, mentre la natura strutturale del conflitto tra dominati e dominanti è tenuta nascosta da analfabetismo politico, ritardo culturale, emarginazione e manipolazione.

Il pianeta avrebbe invero precise urgenze: 1) i rischi di una guerra nucleare che marcherebbe il crepuscolo del genere umano. Secondo il doomsday clock – l’orologio dell’apocalisse – la distanza dalla mezzanotte, che segnerebbe la fine del mondo, è oggi misurata non più in minuti ma in secondi (per l’esattezza novanta), tanto più che quel pulsante è affidato alle macchine; 2) un capitalismo privo di limitazioni, reso estremo dalla ferocia neoliberista, che concentra immense ricchezze nelle mani di pochi; e 3) la distruzione dell’equilibrio ecologico, la cui ragione strutturale risiede nella bulimia delle corporazioni private interessate solo al profitto.

In una diversa prospettiva, gli Stati Uniti potrebbero riflettere sulla necessità di sedere intorno a un tavolo come un paese normale per contribuire alla soluzione pacifica delle emergenze. Oggi, tale prospettiva è una chimera. La sua ipertrofia oligarchica e bellicista, lontana dai bisogni del popolo, non può essere contenuta dalle deboli restrizioni del diritto internazionale, ma solo da profondi cambiamenti interni, valoriali e di potere (che non sono però alle viste) o da un graduale riequilibrio di forze sulla scena internazionale, al raggiungimento del quale il contributo del Sud Globale sarà quanto mai prezioso. A dispetto del fallace storicismo di F. Fukuyama, per finire, l’uomo resta arbitro del proprio destino. L’aspirazione a un mondo diverso e migliore rispetto a quello attuale è alimentata da una fiamma eterna che mai si spegnerà nel cuore degli uomini integri e di buona volontà.


Note

[1] Cuba, Vietnam, Iran, Serbia, Iraq, Siria, Libia, Afghanistan, 15 altri solo in Sud America, tra cui Nicaragua, Cile, Panama, le prigioni/torture di Guantanamo, Bagram, Abu Graib altre segrete, omicidi extragiudiziali “al drone”, la vicenda Julian Assange e quella di Edward Snowden, e via dicendo. Solo dal 1947 al 1989 gli Stati Uniti hanno organizzato 70 tentativi di regime change (l’eufemismo sta per colpi di Stato), 64 sotto copertura, 6 con sostegno militare aperto. In 25 casi, i tentativi hanno avuto successo con l’instaurazione di un governo amico, in altri 39 sono invece falliti (Covert Regime Change, Linsday A. O’Rourke, Cornell University Press, 2018). Ciò ha causato milioni di vittime, rifugiati, distruzioni, degrado e via dicendo, tutto per promuovere i sani valori della democrazia e dei diritti umani.

[2] Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa e altri cinque, più 13 con la qualifica di paesi partners.

[3] Shanghai Organization Cooperation.

[4] Al 31 dicembre 2021 il Pil complessivo dei paesi del G7, in potere d’acquisto internazionale (PAI), era stato di 42.368 mld di dollari (e 44.558 in PPP, potere d’acquisto interno). Al 31 dicembre 2022 tale Pil aggregato dovrebbe superare i 43.538 mld in PAI e 49.186 mld in PPP. Per i paesi Brics, al 31 dicembre 2021 i dati sono rispettivamente 24.709 mld di dollari in PAI e 46.615 in PPP, e nella proiezione al 31 dicembre 2022, rispettivamente 26.227 mld in PAI e 51.117 in PPP. Se all’attuale composizione dei Brics si aggiungono i paesi che hanno chiesto di aderirvi – vale a dire, Argentina, Algeria, Iran e Turchia – il Pil totale in PAI è 26.682 mld (al 31 dicembre 2021) e 28.497 mld (nella proiezione al 31 dicembre 2022), mentre in PPP è stato di 52.151 mld (al 31 dicembre 2021), e di 57.845 mld di dollari in PPP (nella proiezione al 31 dicembre 2022). Aggiungendo quindi l’Arabia Saudita – che intende anch’essa aderire ai Brics – il Pil complessivo al 31 dicembre 2021 è stato di 27515 mld di dollari in PAI e 53902 in PPP, mentre la proiezione al 31 dicembre 2022 è di 29.507 mld (in PAI) e 59.863 mld (in PPP).

[5] Fondo Monetario Internazionale.

[6] https://www.imf.org/external/datamapper/PPPGDP@WEO/OEMDC/ADVEC/WEOWORLD

[7] Algeria, Bangladesh, Bahrein, Belarus, Bolivia, Vietnam, Honduras, Indonesia, Cuba, Kazakistan, Kuwait, Marocco, Nigeria, Palestina, Senegal e Thailandia.

[8] Vedansi https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_185000.htm per il vertice Nato giugno 2021 (Bruxelles), https://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_196951.htm per il Vertice Nato del giugno 2022 (Madrid) e https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/01/10/eu-nato-joint-declaration-10-january-2023/, per il comunicato del Consiglio Ue-Nato del 10 gennaio 2023.

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sabato 29 marzo 2025

Che tristezza i leader europei - Luca Sommi

 

Super riarmo tedesco, «la Germania è tornata», e l’AfD - Piero Orteca

Leggete la storia, metabolizzatela e non sottovalutate mai la Germania. Ogni volta che ha riarmato è finita in tragedia. E se domani decidesse di ‘correre da sola’, blindandosi come la superpotenza d’Europa e cadesse nelle mani di un governo di esaltati?

 

Alcune differenze sostanziali tra gli europei

Facendo un’analisi delle ‘traiettorie diplomatiche’ di alcuni grandi Stati europei, balzano subito agli occhi, nelle ultime settimane, alcune differenze sostanziali. In particolare, colpisce proprio l’atteggiamento di Berlino che, rispetto ad altri attori di più conclamato peso geopolitico, come Francia e Regno Unito, ha deciso di dare il via a una politica di riarmo senza precedenti. O, almeno, i precedenti per i cultori della storia con la ‘S maiuscola’ ci sono, e si rivelano tutti abbondantemente infausti. Il fatto, poi, che il Cancelliere in pectore, Friedrich Merz, abbia accompagnato il ‘grande salto tedesco’ con una sorta di slogan da ‘Quarto Reich’, «la Germania è tornata», solleva ulteriori perplessità.

Preoccupazioni legittime

Prima di tutto perché con il suo ‘Blitzplan’ da mille miliardi (di cui però, attenzione, per ora 500 vanno alle infrastrutture) pensato, finanziato e finalizzato in solitaria, Berlino si mette sotto i piedi (nei fatti) qualsiasi ipotesi di coordinamento preventivo-operativo con il resto dell’Unione Europea. E poi perché l’esborso appare sinceramente sproporzionato (anche se diluito nel tempo, 12 anni) rispetto alle fantomatiche ‘emergenze’ (addirittura un’imminente invasione russa) invocate come alibi. Insomma, qualcosa non quadra. Pensate che solo fino al 2030, la Bundesbank ha calcolato debito aggiuntivo militare fino a 220 miliardi. Laddove, invece, la UE ne mette solo 150 (come prestiti) a disposizione di tutti gli altri 26 Paesi. Viene il sospetto (o molto di più) che dietro la retorica che in questi giorni inonda molti dibattiti in Occidente e, particolarmente, tra il Reno e l’Elba (l’ex Germania Ovest) ci siano ragioni nettamente più prosaiche, quasi mercantilistiche, dove c’entrano molto la politica interna e le crisi del settore manifatturiero e dell’automotive.

Disagio tedesco contemporaneo

Possiamo allora costruire un modello interpretativo del disastro contemporaneo tedesco, che spieghi il passaggio da una Germania motore di sviluppo a un Paese che, invece, potrebbe tornare a far paura ai suoi vicini? Si può ragionare. Il problema era la ‘Schuldenbrense’,  il freno costituzionale del debito, che imponeva ai governi tedeschi di non sforare oltre lo 0,35% del Pil. Bene, dopo le recenti elezioni, il quadro politico era così sconvolto che i parziali vincitori (CDU) si sono dovuti alleare con i perdenti (SPD e Verdi) per uno dei voti più importanti nella storia della Germania: tornare ai vecchi deficit pubblici, che erano stati eliminati da Angela Merkel, appunto introducendo la “Schuldenbremse”. Ma, e qui la democrazia esce pesta e sanguinante, Herr Merz, avendo bisogno di una maggioranza qualificata, per una nuova legge di revisione costituzionale, ha riunito per l’ultima volta il vecchio Parlamento, prima di mandarlo definitivamente a casa. E così, ha fatto approvare una legge da cui dipendono i destini della nuova Germania dal defunto Bundestag, dopo che 60 milioni di tedeschi si erano appena espressi in modo esattamente diverso.

Spese Difesa senza limiti di bilancio

Non è una questione di merito, ma di quello che nel Diritto si chiama ‘principio di ragionevolezza’, e che la stessa Corte costituzionale tedesca, però, non ha ritenuto di applicare. Confermando così la validità di una riforma che ha effetti notevoli sul nuovo governo del Paese, ma che è stata votata da parlamentari che non rappresentano più, in alcun modo, la volontà popolare. Ora, perché potrebbe essere importante legare l’eliminazione del ‘freno del debito’ al nuovo massiccio riarmo tedesco? È semplice: la nuova legge prevede che le spese per la difesa siano esentate dai limiti di bilancio. E siccome, in teoria, il coefficiente debito-Pil di Berlino  (nel 2024 era solo al 64 per cento) ha ancora larghi margini di estensione, si può ritenere che una Germania ‘che è tornata’, come si è fatto scappare Merz, potrebbe diventare agevolmente, in un quinquennio, la nuova potenza militare dominante in Europa.

Germania e la tentazione nucleare

Se poi i suoi governi lo volessero, potrebbero anche organizzare un’altra bella riunione notturna al Bundestag e costruirsi un «arsenale nucleare faidate» in un paio di mesi. Quindi, i guai che potrebbero arrivare dal riarmo tedesco sono appena cominciati. Non essendovi una soglia di debito da osservare in questo campo, le scelte dipendono dall’esecutivo. Quello che non si è capito finora è che il malessere per il sistema politico-sociale tedesco è molto più profondo di quanto pensiamo. Coloro che sbrigativamente gli analisti liquidano come ‘populisti’, non sono tutti estremisti. Molti sono delusi dal sistema. D’altro canto, alle recenti elezioni generali, chi governava (la coalizione di centro-sinistra) è uscito con le ossa rotte, mentre l’opposizione cristiano-democratica ha vinto, ma solo ‘per modo di dire’. Nel senso che ha una maggioranza relativa che per governare non le serve a niente. Ha bisogno, insomma, di mettere in piedi una Grosse koalition, appunto con l’SPD.

Partiti non solo populisti ma antisistema

Nel Paese hanno preso quota i partiti anti-sistema, spesso definiti un po’ genericamente ‘populisti’. Specie a Est, in Brandeburgo, Turingia e Sassonia, queste formazioni, di destra e di sinistra, hanno avuto un boom. Mettendo all’angolo, in primis, i socialdemocratici e arginando anche il possibile recupero dei centristi della CDU. Insomma, la Germania, specie l’ex DDR, sta diventando un caso-scuola da scienza politica. Qui i problemi sociali ed economici scatenati dai rivolgimenti geopolitici, non hanno trovato risposte adeguate da parte dei partiti tradizionali. Così è esplosa non solo l’estrema destra xenofoba di AfD (Alternative fur Deutschland), ma anche la formazione radicale di sinistra di BSW, ‘costola’ di Die Linke.

Niente impedisce, specie se il riarmo di Merz dovesse essere accompagnato da nuove tasse e tagli alla spesa sociale, che anche a Ovest il Paese prenda fuoco. E una Germania armata fino ai denti, con Alternative fur Deutschland al potere, sinceramente ci fa più paura di Putin.

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venerdì 28 marzo 2025

Professore ucraino spedito al fronte ed abbandonato, ora al fianco dei russi per liberare l’Ucraina - Vittorio Nicola Rangeloni

 

l'attualità di Karl Marx

scrive Karl Marx:

"Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa."


Il 10 giugno 1940 Benito Mussolini pronuncia il discorso con il quale annuncia l'ora delle decisioni irrevocabili. “Comincerò dall'Esercito, al quale spetta il compito della difesa delle frontiere terrestri. Aggiungo subito che la difesa non deve essere interpretata in senso limitativo: spesso la miglior difesa è l'offesa.”

 

Mattarella: «Sulla difesa Ue decisioni non più rinviabili. Compito delle Forze armate è difendere la democrazia»

giovedì 27 marzo 2025

Dispotismi lucidati – Enrico Euli


Approvato che la Terra è del Signore, come la sua abbondanza; approvato che la Terra viene concessa ai santi; approvato che noi siamo i santi” (da un’assemblea cittadina, tenutasi a Milford, Connecticut, nel 1640)

La tirannide tende a tre fini: che i sudditi abbiano pensieri meschini (un pusillanime non si rivolterà contro nessuno), che siano in continua diffidenza l’uno dell’altro (la tirannide non si distrugge prima che si stabiliscano rapporti di reciproca fiducia tra loro…), che siano nell’impossibilità di agire… Eppure a chi voglia riflettere potrebbe forse sembrare strano che compito dell’uomo di stato sia poter esaminare i mezzi per dominare e tiranneggiare gli altri, volenti o non volenti… La grandissima maggioranza degli stati militaristi rimangono in piedi quando combattono, crollano quando hanno conquistato un impero: in tempo di pace perdono la tempra, come il ferro. Responsabile è il legislatore che non li ha educati a saper vivere in ozio” (Aristotele, Politica, libri VI e VII)

Gli uomini (e donne-uomini) di stato si stanno rivelando per quel che sono: dei despoti che, più si scoprono impotenti verso chi e ciò che è più forte di loro, più si fingono onnipotenti verso chi e quel che tengono sotto (e va sempre più giù). Gli esempi non sono mai mancati nella storia, ma oggi è in corso una gara tra loro che non si era più vista da tempo.

La lucida follia della Meloni: ha parlato di “riarmo sostenibile” e ha dichiarato però che la dizione Rearm Europe è fuorviante. Ha poi letto parti del Manifesto di Ventotene, onestamente ammettendo – per chi avesse ancora dei dubbi – che “quella non è la sua Europa”. Purtroppo non è neppure quella di molti che si stracciavano le vesti e le sbraitavano contro (per lesa maestà nei confronti dei Padri tutelari) e neppure quella della von der Leyen (che molti di loro hanno rieletto). E meno male che, votandola, volevano evitare l’avanzata dell’estrema destra!

La lucida follia della pastora tedesca non è particolarmente originale: siamo ancora lì, come sempre, al “si vis pacem, etc etc…” (mi vergogno anche solo a ridirlo intero). La novità è però che “Dobbiamo prepararci alla guerra!”. La locomotiva tedesca – che non cresce e anzi declina da un po’ – deve militarizzare la sua produzione, se vuole restare in alto, proseguire a crescere e a dominare l’Unione. Allarmare ancora una volta col pericolo russo serve soprattutto a questo. Una Germania super-armata e potente, una Germania con i baffi, ecco il vero pericolo per l’Europa e per il mondo intero: altro che Russia.

La lucida follia di Trump è quella di credere che le guerre si fermino con i soldi, con i ricatti e con la fretta. Ci sta già sbattendo contro in Palestina (la tregua è già finita) e con la Russia (non è iniziata – se non al telefono – e non ci sarà a breve). Netanyahu prosegue a fare quel che vuole, come ha sempre fatto, col permesso di tutti, in barba a qualunque negoziato. Ed è Putin a dettare le sue condizioni e a poter prendere tempo semplicemente perché ha vinto la guerra; e – ancor più semplicemente, se non fosse per i morti – altri (l’Europa e Zelensky) non le possono dettare perché l’hanno persa. Neanche Dio onnipotente potrebbe fermarli (e neppure il Dio degli eserciti). Figuriamoci Trump.

E chi prova a fermare la lucida follia di Erdogan? Ocalan chiede al PKK di deporre, finalmente, le armi e lui, in tutta risposta, che fa? Fa arrestare il sindaco di Istanbul per corruzione e appoggio verso i ‘terroristi curdi’. Ogni capo di governo sta solo cercando di tenersi in piedi e tenere il potere in questo marasma, con qualunque mezzo. Ma Erdogan è veramente insuperabile: riesce a fornire droni a tutti e a proporsi come mediatore, stare in Occidente ed entrare nei Brics, stare nella Nato e colludere con i suoi nemici, far fare le elezioni ma eliminare i rivali, sostenere la Palestina ma far soldi con i sauditi. Fantastico.

La lucida follia di Draghi ci avvolge ancora nelle sue spire: persevera con le sue ricette, che stanno alla base del disastro in cui già siamo, ma è considerato un sapiente e va ascoltato con devozione. La saggezza nonviolenta direbbe altro (5 proposte per Russia e Ucraina), ma chi la ascolta? Nessuno.

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Se privatizziamo l’università i risultati sono questi - Tomaso Montanari

L’imbarazzante vicenda della laurea della ministra Calderone così come l’ha meritoriamente ricostruita questo giornale, costituisce di per sé un serio danno reputazionale per l’intero sistema universitario italiano: ed è proprio per questo che è opportuno che gli scandali diventino di pubblico dominio. Ed è una vicenda che, nella sua triste meschinità provinciale, ha però nessi profondi con situazioni ben altrimenti importanti: come il vergognoso cedimento della rettrice ad interim di Columbia University alle minacce liberticide di Donald Trump, o come lo stupefacente ritiro della laurea al sindaco Ekrem İImamoglu imposto dal governo di Erdogan all’Università di Istanbul. Il filo conduttore è unico, ed è la sottomissione dell’università agli interessi, alle pressioni, alle volontà del potere politico. Quando le università hanno padroni privati, piegarle è più facile: e da noi (fatte salve le vecchie e indipendenti private di grande tradizione, come la Cattolica o la Bocconi, o altre) il risultato è un triste sottobosco di scambi, collateralismi, lobbismi che smontano le regole del sistema, o peggio le piegano a favore degli interessi privati. Quando le università sono pubbliche, piegarle è in teoria più difficile, ma si possono privatizzare (l’ha fatto Orbán in Ungheria), o minacciare direttamente, come negli Usa. E ci sono ragioni concrete per pensare che anche in Italia potrebbe presto succedere qualcosa del genere: definanziamenti che inducano gli atenei a fondersi tra loro, a trasformarsi in fondazioni, a cadere direttamente sotto il controllo del potere politico. A quel punto, una squallida vicenda come quella attuale non solo rappresenterebbe la norma (e non un’eccezione rara, come è ancora), ma rischierebbe perfino di essere il minore dei mali. Non sottovalutiamo i sintomi, finché il paziente (il sistema universitario pubblico) è vivo.

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mercoledì 26 marzo 2025

Discorso integrale di Roger Waters alle Nazioni Unite – 17 febbraio 2025

 

Il capitalismo è l’assassino - Raúl Zibechi

In modo così metodico e completo, quale altro sistema ha dichiarato guerra all’umanità? Quale altro sistema pratica sistematicamente genocidi e stermini di intere porzioni di giovani, donne e bambini? Che ruolo giocano gli Stati e i governi che li amministrano, che non possono e non vogliono fermare la violenza contro i popoli e le persone? È tempo di dare un nome a questo sistema: capitalismo. Dobbiamo capire che la violenza non ha altro obiettivo che l’accumulazione accelerata di capitale. Per fare questo spostano e sterminano quei settori che ostacolano l’arricchimento dell’uno per cento.

Non si tratta di eventi o errori isolati, ma di un disegno che si sta perfezionando negli ultimi decenni e che più recentemente abbiamo visto svolgersi in tutta la sua grandezza, nella vasta geografia che va da Gaza al Messico, come dimostrano i bombardamenti indiscriminati contro scuole e ospedali, come dimostrano i forni crematori di Teuchitlán (Messico).

Osserviamo lo stesso modello con alcune varianti in altre geografie del Medio Oriente, e in modo molto particolare nei territori delle popolazioni indigene e nere, dal Wall Mapu (storico territorio mapuche in Cile) al Chiapas. Nel sud dell’Argentina, i grandi imprenditori bruciano le foreste mentre lo Stato non le spegne, criminalizza il popolo mapuche e sfolla le comunità per trarre profitto dalle loro terre. L’alleanza tra lo Stato, la comunità imprenditoriale e le sue milizie, i media mainstream e la giustizia, è lubrificata dalla presenza dei soldati israeliani in quei territori.

La popolazione attorno alla miniera di Chicomuselo, in Chiapas, è testimone dell’alleanza tra Stato, affari, paramilitari e criminalità organizzata, con l’unico obiettivo di sfollare e controllare la popolazione che ostacola l’espansione del business di distruzione della Madre Terra, per convertire i beni comuni in merci.

Troviamo modi molto simili quando la Polizia Militare brasiliana entra nelle favelas, quando bande narcoparamilitari armate attaccano il popolo Garifuna in Honduras; i corpi repressivi che sparano da elicotteri da combattimento sulle folle mobilitate nella regione andina del Perù, e tanti altri casi impossibili da descrivere in questo spazio.

Non illudiamoci: non si tratta di eccessi o deviazioni specifiche, ma di un vasto progetto di militarizzazione a quattro mani (forze armate e di polizia, giudici, governanti e criminalità organizzata), che sostiene le imprese estrattive. Quando vediamo madri e guerrieri della ricerca usare le proprie mani perché non hanno risorse, ma sono comunque in grado di portare alla luce l’orrore, non possiamo fare a meno di capire che le autorità si sono messe al servizio di questa guerra di esproprio, garantendo l’impunità ai responsabili.

Il dolore e solo il dolore è la fonte della conoscenza. Non possiamo dimenticare quando i genitori degli studenti di Ayotzinapa lanciarono lo slogan “È stato lo Stato”, fatto con il sangue dei loro figli e con torture psicologiche sia per la loro assenza che per il modo in cui furono fatti sparire.

Ora quel dolore ci dice che siamo di fronte a una rete criminale capace delle più grandi atrocità, come ha sottolineato giorni fa il giornalista messicano Jonathan Ávila, del CEPAD (adondevanlosdesaparecidos.org).

Sappiamo che non c’è e non ci sarà la volontà politica di fermare la violenza dall’alto. Quindi la domanda è: cosa dobbiamo fare? Perché i movimenti, le persone e la società nel suo complesso facciano ciò che chi sta al vertice non vuole fare. Perché per fermare la violenza c’è una sola cosa: porre fine a questo sistema capitalista predatorio e genocida che considera gli Adelitas, i Panchos e gli Emilianos (i poveri dal basso) come suoi nemici.

Il primo punto è capire che siamo tutti nel mirino del capitale. Negli anni Settanta, se eri un guerrigliero, uno studente, un operaio o un contadino organizzato che combatteva, venivi fatto sparire. Questa logica è cambiata radicalmente. Ora, il semplice fatto di esistere, respirare e vivere come una persona dal basso verso l’alto ti rende una potenziale vittima. Ecco perché è più che mai necessario gridare: siamo tutti Ayotizinapa. Siamo tutti Gaza. Siamo tutti Teuchitlán.

Il secondo è seguire l’esempio dei ricercatori e dei guerrieri. Organizzarci. Mettiamo il corpo, le mani e il cuore. Uniti, spalla a spalla, per proteggere e salvare i nostri cari, diventando barricate collettive per fermare la barbarie, cioè i barbari. Non esiste altra via, nessuna scorciatoia, nessuna legge, nessun governante proteggerà le nostre vite nel mezzo dello sterminio.

Capisco che si tratta di lezioni molto difficili ed estreme, che implicano il superamento della paura, della solitudine, degli insulti e, cosa ancora peggiore, dell’indifferenza e dei tentativi di trarre profitto politico e materiale dal nostro dolore. Ma dobbiamo essere chiari: non possiamo aspettarci altro che i nostri sforzi collettivi, qui e ora, finché potremo.

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martedì 25 marzo 2025

Allegoria della politica – Giorgio Agamben

 

Siamo tutti all’inferno, ma alcuni sembrano pensare che non ci sia qui altro da fare che studiare e descrivere minuziosamente i diavoli, il loro orrido aspetto, i loro feroci comportamenti, le loro infide trame. Forse si illudono in questo modo di poter scampare all’inferno e non si rendono conto che ciò che li occupa interamente non è che la peggiore delle pene che i diavoli hanno escogitato per tormentarli. Come il contadino della parabola kafkiana, essi non fanno che contare le pulci sul bavero del guardiano. Va da sé che nemmeno sono nel giusto coloro che all’inferno passano invece il loro tempo a descrivere gli angeli del paradiso – anche questa è una pena, in apparenza meno crudele, ma non meno odiosa dell’altra.

La vera politica sta tra queste due pene. Essa comincia innanzitutto col sapere dove ci troviamo e che non ci è dato sfuggire così facilmente alla macchina infernale che ci circonda. Dei demoni e degli angeli sappiamo quello che c’è da sapere, ma sappiamo anche che è con una fallace immaginazione del paradiso che è stato costruito l’inferno e che a ogni consolidamento delle mura dell’Eden fa riscontro un approfondimento dell’abisso della Gehenna. Del bene conosciamo poco e non è un tema che possiamo approfondire; del male sappiamo soltanto che siamo stati noi stessi a costruire la macchina infernale con cui ci tormentiamo. Forse una scienza del bene e del male non è mai esistita e comunque qui e ora non c’interessa. La vera conoscenza non è una scienza – è, piuttosto, una via di uscita. Ed è possibile che questa coincida oggi con una tenace, lucida, svelta resistenza sul posto.

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