Le righe che
seguono sono la rielaborazione della relazione presentata all’importante
incontro di aggiornamento, dal titolo “Come cambia la scuola?”, che si è svolto
il 17 febbraio presso l’Istituto “Di Vittorio-Lattanzio” di Roma.
***
Le competenze sono un risultato chiuso, previsto a priori e in
astratto; a pensarci, sono l’esatto opposto della cultura e del pensiero
critico, che portano a conoscenze, scoperte e aperture sul mondo davvero nuove.
L’ideologia delle competenze è frutto di un rovesciamento: si parte dal
risultato anziché da ciò che ci si trova davanti; e ciò che ci si trova davanti
quando si istruisce e si educa sono le persone in carne e ossa e il mondo
praticamente sconfinato della conoscenza, precipitato di tutta l’esperienza
storica dell’umanità, all’interno del quale bisogna trascegliere alcuni
contenuti, corrispondenti a delle finalità educative e culturali. La
triangolazione sapere/insegnanti/studenti è alla base di qualunque processo di
conoscenza, che si sviluppa attraverso le preziose relazioni educative che si
creano col tempo nelle classi e con gli studenti. Ma, a parte ciò che accade
per alcune abilità fondamentali, finalità educative non significa poter
prevedere integralmente cosa il contatto con certe conoscenze produrrà in un
determinato gruppo classe; altrimenti avremmo di fronte delle macchine da
programmare o, come dice Tomaso Montanari, pezzi di ricambio per il mondo così
com’è.
Competenza, al singolare e non al plurale, il diventare competenti in qualcosa,
è il risultato di una stratificazione temporale di conoscenze, di esperienze,
di processi cognitivi, emotivi, relazionali, di pensiero e rielaborazione di
pensiero, consapevoli e inconsci. Non si può inoculare direttamente un
risultato che è la conseguenza di un processo non integralmente prevedibile a
priori, proprio perché gli esseri umani non sono macchine
Per fare un solo esempio: posso insegnare l’abilità della scrittura ma non
insegnare direttamente la “competenza” del “saper scrivere” bene; posso invece
aiutare e stimolare gli studenti a leggere (senza lettura difficilmente si crea
una capacità linguistica e ideativa avanzata) e posso farli esercitare a
scrivere. La capacità di scrittura che verrà fuori da questi atti educativi e
didattici non è del tutto sotto il mio controllo.
Controllo tra l’altro è una parola chiave: notoriamente, quello sulle
conoscenze è un lavoro aperto, che insegnanti, classi e studenti fanno insieme,
con risultati spesso sorprendenti; un lavoro, un’abitudine a pensare anche
l’imprevedibile e a scoprire quello che non si sa che gli studenti porteranno
poi avanti per tutta la vita; l’opposto del “lifelong learning”, che è
addestramento e adeguamento perenne alle esigenze di “flessibilità” richieste
dal “mercato”.
La cosa migliore che noi insegnanti possiamo lasciare ai nostri studenti è
l’abitudine a pensare, che a ben vedere è la condizione fondamentale della
libertà; e si insegna a pensare non trasmettendo una presunta competenza
astratta del “pensiero critico” o del “problem solving” fondata sul nulla, ma
attraverso l’abitudine a lavorare e a pensare insieme attorno a dei veri
contenuti culturali.
La cosiddetta “didattica per competenze”, in sintesi, nella sua astrattezza e
spinta a una formalizzazione vuota, burocratica e standardizzante, chiude gli
spazi del pensiero anziché aprirli; e l’ideologia delle competenze esclude per
definizione la capacità della cultura e del sapere di sorprendere e di
rinnovare la visione del mondo, cosa che sola può appassionare le persone in
crescita – in cerca di risposte a domande di senso – e appagare la loro
insopprimibile curiosità.
Oggi, poi, si è arrivati addirittura all’imposizione, nel dibattito sulla
scuola, del concetto paradossale di “competenze non cognitive” (dove la
sottrazione del pensiero è programmatica), o soft skills, o life skills:
inutile dire che l’idea di “costruire” delle personalità utili e gradite,
secondo criteri stabiliti dall’esterno, è addirittura mostruosa; l’esatto
opposto dell’autentica psicologia che, riconoscendo la complessità degli esseri
umani, mostra la loro irriducibilità a una sola dimensione e mette al centro
dell’interazione con l’altro il rispetto, la prudenza e il senso del limite…
E allora una questione: se non è possibile e nemmeno auspicabile una didattica
“per competenze”, perché questa retorica delle competenze continua a dilagare
nelle scuole, a informare burocrazia, documenti ufficiali, richieste pressanti
agli insegnanti? Perché non si parla semplicemente di conoscenze (che hanno già
in sé anche un aspetto pratico), di abilità, di capacità? Probabilmente perché
questa retorica è supportata da istituzioni e organizzazioni nazionali e
internazionali particolarmente influenti, che premono per imporre un’ideologia
economicistica standardizzante a tutti i settori dell’esistenza umana, e dunque
anche e soprattutto nel campo dell’educazione.
Per questo non riusciamo a liberarci della parola “competenze”: perché questo
termine così ambiguo e scivoloso è il fulcro della sottomissione e della
subordinazione del linguaggio dell’educazione e dell’istruzione a quello non
tanto dell’economia, ma di una precisa ideologia economicistica, quella del
‘capitale umano’ formulata dalla scuola di Chicago negli Stati Uniti soprattutto
a partire dagli anni ’50, quello che noi chiamiamo generalmente neoliberismo.
Per venire incontro a questa ideologia, è stato stravolto e strumentalizzato il
cosiddetto attivismo pedagogico (si impara solo dall’esperienza e da bisogni
legati alla realtà), che già di suo ha aspetti discutibili quando si fa
unilaterale: alcune cose, in alcune fasce di età, effettivamente si imparano
dall’esperienza e dalla realtà, altre conoscenze e altre età richiedono una
concettualizzazione che passa per i ragionamenti, la parola, le spiegazioni.
E comunque, come scrive Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito (Bari-Roma,
Laterza, 2019): «Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto
con quella praticata attraverso le competenze. L’educazione attiva,
per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai
ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una
comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per competenze,
al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa
possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non
si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo
scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per
adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami
sociali, che devono essere dotati di propri portafogli di
competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare
da un loro uso accorto sul mercato. In questo modo le finalità
individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione
artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria».
Sull’argomento cfr.
https://nostrascuola.blog/2022/01/14/competenze-non-cognitive-le-parole-dello-psicoanalista/
https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/studium/article/view/7735/6814
https://www.micromega.net/chi-detta-legge-nella-scuola-italiana
https://nostrascuola.blog/2022/01/04/ideologia-e-mistificazioni/
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