giovedì 6 marzo 2025

Una didattica “per competenze”? - Luca Malgioglio

  

Le righe che seguono sono la rielaborazione della relazione presentata all’importante incontro di aggiornamento, dal titolo “Come cambia la scuola?”, che si è svolto il 17 febbraio presso l’Istituto “Di Vittorio-Lattanzio” di Roma.

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Le competenze sono un risultato chiuso, previsto a priori e in astratto; a pensarci, sono l’esatto opposto della cultura e del pensiero critico, che portano a conoscenze, scoperte e aperture sul mondo davvero nuove.

L’ideologia delle competenze è frutto di un rovesciamento: si parte dal risultato anziché da ciò che ci si trova davanti; e ciò che ci si trova davanti quando si istruisce e si educa sono le persone in carne e ossa e il mondo praticamente sconfinato della conoscenza, precipitato di tutta l’esperienza storica dell’umanità, all’interno del quale bisogna trascegliere alcuni contenuti, corrispondenti a delle finalità educative e culturali. La triangolazione sapere/insegnanti/studenti è alla base di qualunque processo di conoscenza, che si sviluppa attraverso le preziose relazioni educative che si creano col tempo nelle classi e con gli studenti. Ma, a parte ciò che accade per alcune abilità fondamentali, finalità educative non significa poter prevedere integralmente cosa il contatto con certe conoscenze produrrà in un determinato gruppo classe; altrimenti avremmo di fronte delle macchine da programmare o, come dice Tomaso Montanari, pezzi di ricambio per il mondo così com’è.

Competenza, al singolare e non al plurale, il diventare competenti in qualcosa, è il risultato di una stratificazione temporale di conoscenze, di esperienze, di processi cognitivi, emotivi, relazionali, di pensiero e rielaborazione di pensiero, consapevoli e inconsci. Non si può inoculare direttamente un risultato che è la conseguenza di un processo non integralmente prevedibile a priori, proprio perché gli esseri umani non sono macchine

Per fare un solo esempio: posso insegnare l’abilità della scrittura ma non insegnare direttamente la “competenza” del “saper scrivere” bene; posso invece aiutare e stimolare gli studenti a leggere (senza lettura difficilmente si crea una capacità linguistica e ideativa avanzata) e posso farli esercitare a scrivere. La capacità di scrittura che verrà fuori da questi atti educativi e didattici non è del tutto sotto il mio controllo.

Controllo tra l’altro è una parola chiave: notoriamente, quello sulle conoscenze è un lavoro aperto, che insegnanti, classi e studenti fanno insieme, con risultati spesso sorprendenti; un lavoro, un’abitudine a pensare anche l’imprevedibile e a scoprire quello che non si sa che gli studenti porteranno poi avanti per tutta la vita; l’opposto del “lifelong learning”, che è addestramento e adeguamento perenne alle esigenze di “flessibilità” richieste dal “mercato”.

La cosa migliore che noi insegnanti possiamo lasciare ai nostri studenti è l’abitudine a pensare, che a ben vedere è la condizione fondamentale della libertà; e si insegna a pensare non trasmettendo una presunta competenza astratta del “pensiero critico” o del “problem solving” fondata sul nulla, ma attraverso l’abitudine a lavorare e a pensare insieme attorno a dei veri contenuti culturali.

La cosiddetta “didattica per competenze”, in sintesi, nella sua astrattezza e spinta a una formalizzazione vuota, burocratica e standardizzante, chiude gli spazi del pensiero anziché aprirli; e l’ideologia delle competenze esclude per definizione la capacità della cultura e del sapere di sorprendere e di rinnovare la visione del mondo, cosa che sola può appassionare le persone in crescita – in cerca di risposte a domande di senso – e appagare la loro insopprimibile curiosità.

Oggi, poi, si è arrivati addirittura all’imposizione, nel dibattito sulla scuola, del concetto paradossale di “competenze non cognitive” (dove la sottrazione del pensiero è programmatica), o soft skills, o life skills: inutile dire che l’idea di “costruire” delle personalità utili e gradite, secondo criteri stabiliti dall’esterno, è addirittura mostruosa; l’esatto opposto dell’autentica psicologia che, riconoscendo la complessità degli esseri umani, mostra la loro irriducibilità a una sola dimensione e mette al centro dell’interazione con l’altro il rispetto, la prudenza e il senso del limite…

E allora una questione: se non è possibile e nemmeno auspicabile una didattica “per competenze”, perché questa retorica delle competenze continua a dilagare nelle scuole, a informare burocrazia, documenti ufficiali, richieste pressanti agli insegnanti? Perché non si parla semplicemente di conoscenze (che hanno già in sé anche un aspetto pratico), di abilità, di capacità? Probabilmente perché questa retorica è supportata da istituzioni e organizzazioni nazionali e internazionali particolarmente influenti, che premono per imporre un’ideologia economicistica standardizzante a tutti i settori dell’esistenza umana, e dunque anche e soprattutto nel campo dell’educazione.

Per questo non riusciamo a liberarci della parola “competenze”: perché questo termine così ambiguo e scivoloso è il fulcro della sottomissione e della subordinazione del linguaggio dell’educazione e dell’istruzione a quello non tanto dell’economia, ma di una precisa ideologia economicistica, quella del ‘capitale umano’ formulata dalla scuola di Chicago negli Stati Uniti soprattutto a partire dagli anni ’50, quello che noi chiamiamo generalmente neoliberismo.

Per venire incontro a questa ideologia, è stato stravolto e strumentalizzato il cosiddetto attivismo pedagogico (si impara solo dall’esperienza e da bisogni legati alla realtà), che già di suo ha aspetti discutibili quando si fa unilaterale: alcune cose, in alcune fasce di età, effettivamente si imparano dall’esperienza e dalla realtà, altre conoscenze e altre età richiedono una concettualizzazione che passa per i ragionamenti, la parola, le spiegazioni.

E comunque, come scrive Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito (Bari-Roma, Laterza, 2019): «Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto con quella praticata attraverso le competenze. L’educazione attiva, per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per competenze, al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri portafogli di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul mercato. In questo modo le finalità individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria».

Sull’argomento cfr.
https://nostrascuola.blog/2022/01/14/competenze-non-cognitive-le-parole-dello-psicoanalista/
https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/studium/article/view/7735/6814
https://www.micromega.net/chi-detta-legge-nella-scuola-italiana
https://nostrascuola.blog/2022/01/04/ideologia-e-mistificazioni/

 

da qui

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