Cicito Masala l’abbiamo perso nel 2007, lui novantenne custode di mille memorie e capace di mille racconti. E il tempo veloce che tutti divora pare averne indebolito la cura del nome, e perciò delle sue poesie e dei suoi drammi, delle sue storie e, con tutto questo, della sua stessa persona che non si è consumata soltanto nella scrittura, originale e suggestiva, ma invece s’è spesa anche nella militanza civile: dico meglio, in una documentata militanza civile sorella gemella di quella culturale nei lunghi anni della ricostruzione postbellica (ancora macchiata dalla emigrazione contadina), e in quelli dello sviluppo pur contraddittorio (fra benessere e omologazione, e secolarizzazione valoriale) di società ed economia in Sardegna ed in Italia… Così, fino ad arrivare alle stagioni di fine Novecento in cui un certo radicale nazionalitarismo di stampo etnicista (e sbocco illusoriamente indipendentista) - in lui sviluppatosi progressivamente tanto da divenirne sistema dottrinario – è sembrato farsi corpo politico, seminando sensibilità e infine però crollando in macerie per i cattivi strumenti con cui lo si voleva, da parte dei più sulla scena, affermare.
Meriterebbe, merita Cicito Masala non tanto che lo si
celebri, ma che lo si studi per quanto ci ha lasciato. Sono ormai anziane – ché
soprattutto di donne si tratta – le sue lontane allieve dell’Istituto
Magistrale di Cagliari e qualcuna dovrebbe farsi promotrice di uno o dieci
incontri per riunire ricordi e testimonianze. Un po’ come hanno fatto gli
allievi di Francesco Alziator nell’Istituto Agrario del nostro capoluogo, tanto
da farne infine un libro… Ma poi c’è il tanto che Cicito ha pubblicato, come
critico d’arte – e direi più d’arte che letterario, ma anche letterario – sulla
terza pagina de L’Unione
Sarda, tanto più negli anni ’50 e ancora nel decennio successivo.
L’indimenticato nostro Gianni Filippini promosse, nel
2010, una raccolta di scritti di Salvatore Cambosu dandola alla stampa nella
collana della Biblioteca dell’identità (Cambosu giornalista): e certo si trattò di una
selezione severa, fatta con l’accetta, e direi anche ingiusta, perché restarono
fuori fior di articoli che avrebbero meritato rifugio in un secondo e in un
terzo e anche quarto volume, così anche a dare energia e coraggio a L’Unione
Sarda che, a mio modestissimo e personalissimo avviso, dopo le grandi
direzioni di Crivelli e Filippini, ha perso la sua anima divenendo tante cose
diverse né tutte commendevoli (perfino, per dieci anni, una specie di foglio
iperconformista, tutto esplicativo, cioè laudativo, delle pochezze
berlusconiane e di corte!).
Una serie di volumi con la generosa e ragionata
raccolta degli interventi sul giornale di autori come Masala appunto, o Mario
Ciusa Romagna, o Bachisio Zizi, o Antonio Romagnino e almeno altri dieci
collaboratori e anche redattori di alto rango – da Peppino Fiori a Filippo
Canu, da Angelo De Murtas ad Alberto Rodriguez, e da Giuseppe Dessì a Mario
Pinna –, ristorerebbe memorie che vanno coltivate, e potrebbe anche – se
l’editrice ne fornisse le scuole – favorire, nelle forme adeguate di recupero,
una sana confidenza dei ragazzi con lo strumento “giornale”, intendo il
giornale cartaceo, con quante potenzialità educative (oggi mortificate) esso
contiene.
Torno a Cicito Masala. Il 7 settembre 2016 – onorandone
nome e lascito, nel centenario della nascita in Nughedu San Nicolò (era il
1916, tempo di grande guerra e di battaglie sull’Isonzo, all’indomani della
dichiarazione di guerra italiana alla Germania e della impiccagione di Cesare
Battisti) – mi provai, riportandomi a lui, amico e maestro, con un lungo
articolo postato nel sito di Fondazione Sardinia (Francesco Masala e le
sue suggestioni egualitarie, fra poetica e politica), a proporre un
dettagliato repertorio sfuggito in parte ad altri censimenti, ancorché limitato
a tre riviste evidentemente di “nicchia” e che, in qualche modo, mi
coinvolgevano per studi particolari consegnati a stampe e conferenze. Mi
riferisco a Riscossa (il periodico della risorta democrazia
sassarese affidato alla direzione di Francesco Spanu Satta nel triennio
1944-1946), Il Convegno (rivista degli Amici del libro con
direzione dal 1946 ed eterna di Nicola Valle) e S’Ischiglia (mensile
bilingue fondata nel 1949 dal bonorvese Angelo Dettori con la preziosa
collaborazione di Antonio Sanna). Integrando il tutto, ovviamente, con nuovi e
forse inediti riferimenti bio-bibliografici (si pensi a Ichnusa di
Antonio Pigliaru ed anche ai Quaderni oristanesi) ed a militanze
associative utili alla maggiore e migliore esplorazione dell’uomo e del
letterato.
In un recente spoglio delle raccolte de L‘Unione Sarda riferite agli
anni ultimi della direzione Spetia ed ai primi della direzione Crivelli ho
incrociato un breve e delizioso articolo – uno fra i primi della lunga
collaborazione al quotidiano – di Cicito Masala che, dato il calendario
natalizio, mi è parso oggi cosa santa “esumare” anche perché direttamente
ricollegabile alla prosa del celebratissimo Quelli dalle labbra
bianche e a tutte quelle pagine – pagine sparse – in cui lo scrittore è
tornato ad evocare la terribile esperienza dell’aggressiva guerra fascista (o
nazi-fascista) in Russia.
Si tratta dell’articolo “Ricordo di un Natale lontano”
uscito su L’Unione
Sarda del 25 dicembre 1953, insomma di 71 anni fa… Eccolo.
Ricordo di un Natale lontano
La notta è discesa all’improvviso: dentro questa isba
logora ed isolata (che i comandi militari si ostinano a chiamare caposaldo B
della linea Z) ci guardiamo, pochi uomini, addossati l’uno all’altro, in silenzio.
Il vento, come un lupo affamato, morde con denti di
gelo la sterminata pianura incredibile di neve e luna.
A quest’ora nella nostra terra cominciano a suonare
teneramente le campane di Natale. Caliamo lentamente in ricordi lontani, il
viso tra le mani, dentro la nostalgia di cose che ci fanno male.
Nessuno di noi ha paura, non è questione di paura (noi
siamo un caposaldo) e non temiamo molto quello che ci sta intorno, la morte
bianca e senza volto, la voce spettrale della mitraglia: il cuore si va
consumando in una pena inestricabile.
Non vedo più il volto dei miei soldati, chiuso dentro
una lacrima; la mia infanzia mi guarda sgomenta: mi sembra di essere ancora un
fanciullo, vicino a mia madre, la notte di altri Natali.
Ecco: quando dal campanile veniva il rintocco
dell’Avemaria, tutti entravamo nella vecchia oscura cucina del pianterreno e ci
sedevamo intorno al camino. Mio padre prendeva il ceppo più grande di cuore di
quercia, il più grande di tutto l’anno, e lo metteva sulle fiamme: esso doveva
durare fin dopo mezzanotte e noi trattenevamo il respiro, attenti, per paura
che il nostro alito lo consumasse anzitempo, giacché la fine del ceppo segnava
l’ora di andare a letto.
Noi non eravamo bambini molto vivaci e non gridavamo
mai esitanti fra il volto severo di nostro padre e il labile dolcedolente
sorriso pallido di nostra madre: eravamo paghi di sedere, in silenzio, almeno
una volta all’anno, in mezzo alla confidenza dei grandi. Così, in tacita
soddisfazione, stavamo appena suonava l’Avemaria di Natale.
Intanto dalla chiesa usciva l’incenso sulle strade a
profumare la neve che cadeva morbida, quasi calda, dal cielo.
Non occorreva molto incenso per riempire tutte le
strade del mio paese, quel mio piccolo paese fatto di pietra grigia, stretto ad
oriente e ad occidente da due alte montagne nere. La luce veniva, la mattina,
filtrando dalle rame di un altissimo cipresso e se ne andava, la sera, molto
presto, moderando al di là di un altro altissimo cipresso: ambedue i cipressi
erano di uno strano colore verderame e da essi si partivano due sentieri che si
perdevano nelle montagne verso i pascoli e i prati gialli d’asfodeli dove erano
le capanne dei pastori.
Dai sentieri dei cipressi, nella notte di Natale,
venivano in paese tutti i pastori, anche quelli che erano banditi: veniva mio
zio e portava l’agnello di latte e il formaggio fresco per la cena. Mo zio era
alto e barbuto, vestito d’orbace, si sedeva con noi, nel camino, vicino a mio
padre, in silenzio.
Per ultima entrava in cucina mia nonna che scendeva
dal primo piano: ci alzavamo tutti a salutarla: essa si sedeva e molte parole
si scambiavano i grandi mentre la notte s’inoltrava.
Poi suonava la campana grande per la messa di
mezzanotte: allora mio padre, mia madre e mio zio si alzavano ed andavano in
chiesa. Noi allora ci avvicinavamo alla finestra e guardavamo al di là dei
vetri nella notte: dai sentieri dei cipressi venivano gli ultimi pastori
portando alle loro case gli agnelli di latte per la cena e noi sentivamo gli
esili belati con doloroso stupore. Nella vita, sotto la nostra finestra, le
figure passavano lente, vestite di nero, e la neve cadeva e sui loro abiti neri
i fiocchi di neve sembravano stelle d’avorio.
Dalla chiesa in preghiera veniva più forte il profumo
dell’incenso e si spandeva per le vie e penetrava nelle case: tutto il paese
era un tempio in attesa: e la campana grande suonava, suonava.
Poi la nonna ci chiamava e ci faceva sedere vicino al
camino e parlava.
Le sue labbra serene di antica maestra di scuola
distillavano allora per noi incantati paesaggi di neve e luna, infinite mandrie
di agnelli, meravigliosi e dolci pastori (affatto differenti da quelli del mio
paese) buoni e miti come angeli, nitidissime comete. Mentre essa filtrava
magiche parole saliva dalla via il suono delle cornamuse: erano i pastori
d’Abruzzo venuti dal continente, sul mare, a portarci le loro melodie ed a
solcare di tristezza le strade della nostra isola. Qualche anno gli zampognari
non venivano (a noi ci dicevano che il mare era in collera ed aveva divorato le
barche) ed allora si formava un gruppo di uomini e donne che andava di porta in
porta a cantare antichissime ninnenanne: anninnia-anninare-anninnare-anninnia.
Mia nonna allora ci parlava di antichi popoli
scomparsi vissuti nella notte dei secoli nella nostra isola: essi vivevano
dentro quelle nere case di pietra che erano sul monte ed adoravano i loro
terribili iddii fatti di ferro e mangiavano sangue e carne cruda. Ma poi –
continuava mia nonna – dall’oriente era venuta sui neri nuraghi una stella incantata
e gli uomini erano usciti dalle loro nere case e avevano sorriso alla stella e
avevano imparato ad amare ed avevano appreso a cullare i loro piccoli figli con
dolcissime nenie: anninnare-anninnia-anninnia-anninare.
E così, piano piano – mentre la nonna parlava – la
nostra cucina diventava la grotta di Betlem: la stella incantata rideva sugli
occhi mansueti di un bue, sulle orecchie lunghe di un asino, sul viso di luce
di una madre, sull’ansia tenera di un padre e sul luminoso figlio di un dio
iridato di stelle: e, anninnia-anninnare, la voce della nonna
continuava esile e dolce, tenue e malinconica e noi ci addormentavamo, il viso
tra le mani e dormivamo, così, cullati dalla voce della nonna, anninnare-anninnia,
dormivamo, così, al tepore del ceppo grande di Natale.
Noi dormivamo ed essa rideva custodendoci nel sonno
fino a quando i grandi tornavano dalla messa di mezzanotte.
Allora ci svegliavamo e ci sedevamo tutti attorno alla
grande tavola della cucina e mangiavamo l’agnello arrosto, il formaggio fresco,
l’uva passa e il miele dorato: i grandi ci guardavano con un sorriso nuovo.
Il ceppo grande intanto si era andato consumando nel
camino ed allora mio padre si alzava e si avvicinava a noi e ci dava un bacio:
era quello l’unico bacio paterno di tutto l’anno. Poi mia madre ci metteva a
letto e, prima di addormentarci, ci faceva dire una sua preghiera.
Ecco: «Signor Tenente, è tanto che piange: non pianga,
non pianga, è Natale»: è il caporale Del Fa.
Non so se mi capirebbe il caporale Del Fa (o forse, penserebbe
che a me sta per accadere quello che è successo al soldato Riva Mario che una
notte pianse e non la smise più, fin a che non lo rimandammo indietro
all’ospedale, al reparto psichiatrico) ma vorrei dirgli, ecco: «Sta tranquillo,
Del Fa, tu non sai chi piange; vedi, non piango io, vedi, ma piange un
fanciullo che stava vicino a sua madre la notte di un altro Natale».
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