Ci sono due modi per pensare alla sicurezza tra i diversi popoli e paesi.
Uno è la deterrenza armata secondo l’abusata locuzione latina: Si vis
pacem, para bellum («se vuoi la pace, prepara la guerra»). L’altro,
all’opposto, è la ricerca dell’appianamento preventivo dei motivi di
conflittualità e la de-escalation militare. Il primo atteggiamento si basa sul
presupposto che tra i popoli e i rispettivi stati vi sia una inimicizia
ontologica insuperabile, culturale, o religiosa, o di mera volontà di potenza.
L’altro approccio ritiene invece che sia possibile contemperare pacificamente ogni
tipo di diversità nel riconoscimento delle rispettive ragioni, senza farsi del
male.
Si tratta di due strategie politiche opposte che hanno segnato a tratti la
storia dell’umanità portando ad esiti diversi. La prima è quella seguita dalle
potenze imperiali e coloniali (non solo europee, ma prevalentemente europee).
La seconda è quella emersa dalle macerie lasciate dal secondo conflitto
mondiale con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), la
nascita dell’Onu con la creazione della Corte internazionale di giustizia e
molte agenzie specializzate (come l’Organizzazione mondiale della sanità, il
Programma alimentare mondiale, l’Unesco, l’Unicef, ecc.). L’idea di un diritto
internazionale condiviso e rispettato dagli stati ha portato ad importantissimi
trattati, convenzioni e accordi, tra cui il Trattato di non proliferazione
delle armi nucleare (TNP, firmato nel 1960) e vari accordi contro gli
inquinamenti, per la salvaguardia dei mari, dell’atmosfera, della biodiversità.
In Europa lo spirito di convivenza pacifica tra i “blocchi” occidentali e
dell’Est portò agli accordi di Helsinki (1975) con la costituzione della
Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione tra tutti gli stati europei, gli
Usa e l’Urss.
Tutta questa già fragile e incompleta impalcatura istituzionale sta da
tempo traballando. L’Onu, inerte, umiliata e scavalcata dai veti incrociati
delle grandi potenze nei momenti più acuti delle crisi internazionali
(Palestina, Jugoslavia, Iraq, Libia e altrove) è oggi presa di mira esplicitamente
dal nuovo corso della amministrazione degli Stati Uniti. Il
nazionalismo suprematista e sciovinista di Trump sta inaspettatamente demolendo
anche i legami storici esistenti tra gli stati del blocco atlantico. Il
messaggio che viene da Washington è tanto brutale quanto coerente con
l’ideologia iperliberista, competitiva e mercatista delle destre:
ognuno pensi per sé, ognuno si faccia i business suoi,
se ne è capace.
Tutto ciò ha, da un lato, il merito di far cadere i veli ipocriti con cui
venivano coperte operazioni di potere gestite dalla Nato (“guerre umanitarie”,
“missioni di pace”, rispetto dei principi democratici, ecc.), dall’altro però
dà il via libera a un Risiko globale dove ciò che conta è solo la forza
economica e militare che ogni stato, solo o alleato con altri, saprà
mettere sul campo di battaglia. Prima commerciale, poi militare. Il risultato
sarà tutt’altro che rappacificante. Altro che premio Nobel! Le relazioni
internazionali tra gli stati si acuiranno, la spesa per armamenti ed eserciti
crescerà ancora di più, dispotismo e militarismo prenderanno il sopravvento
all’interno dei singoli paesi. In generale sta crescendo l’idea – anche
nell’opinione pubblica – che non sia più possibile regolare pacificamente le
relazioni tra i popoli e gli stati. Il pendolo della storia che oscilla tra
pace e guerra sta di nuovo pericolosamente muovendosi dalla parte della guerra.
Quasi fosse un destino inevitabile. Poco importa sapere contro chi va fatta,
poiché qualunque “altro” può rappresentare una minaccia. La “cultura
della difesa” è propinata dagli stati maggiori dell’esercito nelle scuole. Le
università e i centri di ricerca pubblici lavorano senza distinzioni e senza
vergogna per lo sviluppo delle tecnologie “duali” (leggi anche Maledetti i costruttori di morte). Come il nucleare. I
principi del pacifismo vengono derisi, la non interferenza negli affari interni
degli altri paesi svillaneggiata, la cooperazione internazionale abolita per
decreto.
Come opporsi a questa deriva guerrafondaia? Come fare a
risollevare le ragioni e le pratiche della pace vera?
Per riuscirci servirebbe domandarci – con pazienza e rigore – quali sono
oggi i principali motivi di attrito tra gli stati (le “determinanti materiali
dei conflitti militari”, per dirla con Emiliano Brancaccio, Le
condizioni economiche per la pace, Mimesis, 2024) e, poi, quali sono i
mezzi per risolverli senza far ricorso alle armi?
Questa è la faglia politica “contro-egemonica” che segna la distinzione tra
la barbarie e la civiltà, tra il dispotismo e la democrazia, o, se volgiamo
dare ancora un senso alle vecchie parole, tra la destra e la sinistra.
La prima causa di conflitto è sicuramente la competizione per l’uso delle
risorse del pianeta, inteso sia come accesso alle materie prime, sia come distruzione delle
condizioni di vita sulla Terra. L’enorme sete di energia e di materie naturali
di un sistema industriale mondiale ipertrofico condanna intere regioni del Sud
globale al ruolo di “zone di sacrificio”. Rapporti commerciali iniqui, ragioni
di scambio capestro e la corruzione dei governi locali completano la endemica
marginalità cui è condannata la gran parte delle popolazioni del pianeta. A
questo aggiungiamo i cambiamenti climatici che rendono inabitabili le
fasce costiere e le aree tropicali. Tutto ciò sta generando mostruose
urbanizzazioni e migrazioni bibliche all’interno dei continenti africano,
latino-americano e asiatico, ma anche – in piccola proporzione – verso i paesi
del Nord globale. Nel breve arco di un ventennio saremo dieci miliardi: un
miliardo abiterà nell’Occidente e tutti gli altri nel resto del mondo. Una
questione che non potrà essere gestita dagli xeno-guerrieri che crescono nelle
curve degli stadi e siedono nelle aule dei parlamenti.
La seconda causa capace di innescare conflitti tra gli stati è
l’oppressione operata in misure diverse dai governi di molti Paesi ai danni
delle minoranze interne (religiose, etniche, politiche) oltre che delle persone
del genere femminile, ingabbiate in ordinamenti statali autoritari e mono-identitari (leggi
anche Femminismi e nonviolenza). Movimenti che sollecitano il giusto
sostegno internazionale alle lotte di liberazione e di indipendenza. Mandela in
Sud Africa, le Giunte del buon governo in Chiapas, le comunità dei popoli
indigeni andini e oggi, meravigliosamente, i curdi ci indicano la
strada da seguire e il modello ideale di ordinamento democratico per rifondare
dal basso una cooperazione internazionale multilaterale e multiculturale: il
municipalismo confederale (Abdullah Öcalan, Gli eredi di
Gilgamesh. Dai sumeri alla civiltà democratica, Edizioni Punto Rosso,
2011).
Non mi illudo certo che sia facile trovare soluzioni a problemi così vasti
e complessi. Ma averne la consapevolezza è già un buon inizio e, soprattutto, è
necessario entrare nell’ordine di idee che sia possibile dare risposte a
ciascuna di queste questioni con mezzi pacifici, diplomatici, democratici,
nonviolenti. Ci conforta sapere che comunque è vero il contrario: nessuna
soluzione verrà da campagne militari, bombardamenti, fortificazioni delle
frontiere, deportazioni e campi di concentramento.
Forse, in teoria, potrebbe nascere del bene dal crollo
dell’alleanza imperiale occidentale a guida statunitense. La
de-globalizzazione è una sfida anche per quelli di noi che hanno immaginato una
riterritorializzazione (Alberto Magnaghi, Il principio territoriale,
Bollati Boringhieri, 2020) dei sistemi di sostentamento e delle istituzioni di
autogoverno delle comunità locali (leggi anche Riscoprire il territorio). Il ridimensionamento delle ambizioni
e del raggio d’azione delle vecchie potenze coloniali potrebbe, forse,
diminuire l’appetito dei “divoratori del mondo” (Malcom Ferdinand, Un’ecologia
decoloniale. Pensare l’ecologia dal mondo caraibico, TAMU, 2024),
l’abbandono di modalità d’azione predatorie da parte delle grandi imprese
transnazionali, l’alleggerimento e il riequilibrio del carico antropico sui
sistemi vitali terrestri. Insomma, un bagno di modestia, un’apertura alle
ragioni degli altri, il rispetto e la condivisione e la presa in cura dei beni
comuni naturali.
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