di Vanni Santoni
László Krasznahorkai, più volte candidato al Nobel, è
considerato il massimo scrittore ungherese vivente e uno dei maggiori al mondo.
È stato ospite della fiera “Testo”, occasione in cui, grazie al lavoro
d’interprete di Dóra Várnai, è stata realizzata quest’intervista, di cui è
uscita una versione ridotta sul “Corriere fiorentino” del 27 febbraio 2025.
Krasznahorkai, cominciamo dall’inizio: quando ha
deciso di mettersi a scrivere?
È successo durante la castrazione di un maiale. In
quel periodo non volevo fare nulla e diventare nulla, tanto meno mettermi a
scrivere e diventare uno scrittore. Quando avevo diciannove anni mi ero
lasciato alle spalle la mia famiglia borghese, iniziando a vagabondare
nell’Ungheria comunista. Ogni due o tre mesi cambiavo sia il mio luogo di
lavoro sia la mia residenza: dovevo rendermi irreperibile per sfuggire al
servizio militare comunista, non volevo essere costretto a fare il soldato. Fu
così che mi ritrovai in una enorme stalla di vacche a fare il guardiano
notturno. Abitavo in mezzo alla puszta, la grande pianura ungherese, e una
mattina all’alba mi dissero di non andare a letto, perché avrei dovuto dare una
mano in cortile a castrare dei maiali. Arrivò un tizio dall’aria spaventosa, di
poche parole, con un lungo impermeabile addosso. In silenzio tracannò il solito
bicchiere regolamentare di pálinka, dopo di che si inginocchiò tra il
contadino-padrone e le zampe posteriori degli sfortunati porcellini che io gli
avevo portato, e con un bisturi affilatissimo si mise al lavoro. Provavo una
gran pena sia a sentire gli strilli acuti dei maialini sia a guardare quello
che stava accadendo, per cui piano piano alzai gli occhi verso il soffitto del
capannone. Tutto a un tratto su quel soffitto vidi comparire i primi raggi del
Sole che albeggiava. Era un Sole marrone. Rientrato in casa decisi di scrivere
un libro. Quel libro divenne Satantango. A quel punto io nn volevo
scriverne altri, non volevo diventare uno scrittore, come ho già detto:
all’epoca io non volevo proprio niente. Solo che poi il manoscritto cominciò a
circolare, in buona parte grazie a Péter Esterházy, e alla fine venne anche pubblicato.
E come se non bastasse, nel 1985, per colpa di Béla Tarr, dovetti andare a
rileggermelo, e “vidi che non era cosa buona”. In un primo momento ci restai
molto male, ma poi decisi di riprovarci ancora una volta. E da allora continuo
a provarci. Ma sempre senza successo. Nessuno dei miei romanzi è il libro che
mi ero prefissato di scrivere. Nel frattempo però hanno iniziato a chiamarmi
scrittore, e così non c’è stato più modo di arrestare la discesa lungo questa
china.
In Italia
l’abbiamo scoperta grazie alla traduzione di Satantango, seguita
alla vittoria del Man Booker Prize international. Per noi lettori era (ed è)
freschissimo, ma per lei è pur sempre un libro di quarant’anni fa…
Satantango è un testo molto distante da me, oggi. Il che
significa soltanto che oggi lo leggerei – se lo rileggessi, cosa che non faccio
– più o meno come un lettore qualsiasi. All’epoca in cui scrissi quel romanzo
vivevo in mezzo a persone molto povere, che pur percependomi come un estraneo,
alla fin fine mi avevano accettato. Satantango è stato scritto
in un’epoca, tra il 1980 e il 1985, in cui la povertà esisteva ancora. Oggi non
esiste più. La povertà, che possedeva una propria cultura, è stata soppiantata
dalla miseria. E la miseria non ha cultura, è pura privazione. In altre parole,
il mio rapporto con questo romanzo è come quello che si ha con un ricordo:
chissà fino a che punto corrisponde al vero.
Pure, da esso nacque il suo sodalizio con Béla Tarr…
Ebbene sì. Diciamo intanto che il cinema è un genere
crudele, forse il più crudele di tutti. Ai suoi albori veniva chiamato “la
settima arte”, ma oggigiorno sembra aver preso ben altre direzioni. Il cinema
che facevamo Tarr e io era ancora definibile settima arte, all’epoca tale
denominazione aveva ancora senso. Non a caso, Tarr in quei primi tempi non
aveva ottenuto molto successo con le sue opere, perché il vento del cambiamento
hollywoodiano aveva già iniziato a soffiare forte. Il successo gli arrivò solo
con Satantango, dopo il 1994, a film ultimato, con nostra grande sorpresa. Ma
arrivò giustamente: sia il film sia Tarr se lo meritavano. In seguito abbiamo
lavorato insieme per circa vent’anni, abbiamo ideato tutto insieme, io gli davo
i titoli, le atmosfere, i paesaggi, la pioggia, i personaggi, i soggetti, i
nomi, le sceneggiature, e così via, gli ho dato tutto, e lo stesso faceva
Mihály Víg, gli dava tutto, ora come attore principale, ora come compositore
delle musiche, e lo stesso faceva Ágnes Hranitzky, gli dava tutto e come
assistente alla regia e come montatrice, e anche il direttore della fotografia
Gábor Medvigy gli dava tutto, e potrei continuare l’elenco dei collaboratori
all’infinito, dagli scenografi fino al barista, che rivestiva un ruolo di
straordinaria importanza durante le riprese. Il cinema, anche in quanto settima
arte, è un lavoro collettivo, il regista arriva, raccoglie intorno a sé i
collaboratori, li deruba, li depreda, e poi va a sfilare sul tappeto rosso. Chi
non riesce a sopportare questo stato di cose è meglio che non si metta ad aiutare
un regista. Bisogna accettare il principio che su una nave c’è un solo
capitano. D’altra parte, lavorare con Béla Tarr significava anche coltivare un
rapporto d’amicizia. E nel mio caso questa amicizia dura ancora.
Il suo ultimo libro uscito in Italia, Avanti
va il mondo, è una raccolta di racconti. Come si muove tra le due forme?
Mi muovo con difficoltà, perché nel mio caso il
romanzo e il racconto sono due forme molto diverse di prosa. Il romanzo traduce
in realtà un mondo intero, mentre il racconto segue un’unica traccia, di solito
con un unico protagonista al suo centro, in uno spazio circoscritto, in un arco
di tempo circoscritto. In genere mi capita di scrivere un racconto quando vengo
colpito da un impulso importante, che però non deve interferire con la stesura
del romanzo in corso. In tal caso, per qualche giorno, stringendo i denti,
metto da parte il romanzo, e butto giù velocemente il racconto. Per
liberarmene.
Lei è famoso, tra le altre cose, per le sue frasi
lunghissime. Herscht 07769 è addirittura composto da una sola
frase.
Le parole e l’espressione musicale per me provengono
dalla stessa fonte. Nei miei romanzi, quindi, la melodia, il ritmo, e
soprattutto la velocità la fanno da padroni. Sono loro a decidere tutto.
D’altra parte, provi a pensare a che cosa succede quando vogliamo dire qualcosa
di veramente, ma veramente, ma davvero molto molto importante, come per esempio
una dichiarazione d’amore che ci siamo sforzati di reprimere e soffocare per vent’anni,
ed ecco che tutto a un tratto invece le parole erompono da noi come la lava da
un vulcano, in questi casi nessuno userà delle belle frasette corte e ben
curate, ma farà proprio come un vulcano in eruzione, quando c’è un’unica
potente forza al lavoro: non farà pause. Allo stesso modo io metto per iscritto
un romanzo solo se quel romanzo vuole raccontare qualcosa di veramente, ma
veramente, ma davvero molto molto importante. Secondo me è la frase breve a
essere artificiale, è una gran bella invenzione, ma è artificiale, l’abbiamo
creata noi, mentre il discorso letterario che porto avanti io è in realtà
un’unica frase ininterrotta, alla fine della quale il punto fermo sarà messo
dal Signore. Se vorrà farlo.
Nei suoi romanzi ricorrono modulazioni e variazioni su
alcuni temi, in un modo che può ricordare Bernhard e tutta una letteratura di
lingua tedesca che partiva da un’idea molto musicale dell’arte della prosa…
Prima di tutto, se si parla di letteratura in lingua
tedesca, è bene dire che senza Franz Kafka io non avrei mai pensato di mettermi
a scrivere. Dopo l’episodio della castrazione dei maiali di cui ho parlato
prima, nella mia decisione di scrivere un libro come Satantango Kafka ha avuto
un ruolo primario. Un ruolo decisivo. C’era lui nella mia testa quella mattina,
e l’intera scena della castrazione sembrava proprio un racconto infinito di
Kafka. Anche l’arte della prosa di Thomas Bernhard è estremamente importante
nella mia vita, il suo modo di parlare e di scrivere mi ha sconvolto, perché dal
momento in cui l’ho letto ho sentito che quello che stavo facendo non era senza
parentele. Una volta – eravamo a Ohlsdorf – arrivai anche a dirglielo, questo,
al che lui fece una smorfia con tutto il volto, come se quella mia confessione
gli risultasse una tortura insopportabile, dopo di che passammo velocemente a
parlare di qualcosa d’altro. Mi ricordo anche di che cosa: della morte per
impiccagione.
La verità però è che sono stato influenzato da tutti, da ogni grande artista.
Mi permetta di aggiungere un nome, di una persona che voi non potete conoscere,
né vi è data la possibilità di conoscerlo. Non perché fosse ungherese, ma
perché il disgraziato era un poeta. Mi riferisco ad Attila József. C’è stato un
periodo durante la mia adolescenza in cui per mesi e mesi non leggevo altro che
lui, ancora e ancora. La sua è una poesia meravigliosa. È un vero peccato che
esista solo per gli ungheresi. È intraducibile.
Un tema ricorrente nella sua narrativa è l’attesa, per
lo più vana, di un salvatore. Perché continuiamo a sperare che qualcuno ci
salvi?
Cos’altro potremmo fare? Noi non siamo in grado di
salvarci. Le contingenze alle quali siamo esposti, dalle quali dipendiamo, tra
cui la morte, ci appaiono troppo pesanti, troppo smisurate, perché non
rientrano nella nostra visione causale del mondo. Quando riflettiamo sulla
nostra esistenza, ci fermiamo ai limiti della comprensibilità, quando ci
poniamo delle domande, queste non possono che essere sbagliate per il semplice
fatto che formuliamo domande, mentre invece dovremmo rimanere in silenzio, fare
ciò che facciamo, e basta. Tanto accade comunque ciò che accade, mentre per
quanto riguarda la nostra salvezza, la forza della nostra immaginazione è
enorme. Da molto, ma molto, ma davvero moltissimo tempo non aspettiamo più dei
profeti, perché ciò di cui abbiamo bisogno sono i falsi profeti. Abbiamo
bisogno che ci mentano dicendo che abbiamo motivo di sperare. Di questo abbiamo
bisogno. Tanto lo sappiamo benissimo di non avere alcun motivo di speranza. Che
ci mentano e ci dicano che andrà meglio, che sarà tutto più luminoso, che sarà
più lungo ciò che è breve, che sarà più lento ciò che è veloce. Preghiamo Dio e
temiamo il Male. Non ci lasciamo mai alle spalle l’infanzia. Oltre tutto, da
adulti, non siamo altro che bambini malvagi, depravati, miserabili, perdenti, o
amaramente vittoriosi.
Si è definito un melancolico. Ma più la si legge, più
emerge anche una certa ironia.
Direi piuttosto che sono triste. Sono pieno di
compassione. Anche quando il lettore percepisce dell’ironia nei miei romanzi, è
un’ironia piena di compassione, di empatia.
Qual è il
suo metodo di scrittura?
Non la organizzo. E non la chiamo mai lavoro. Il mio
cervello lavora fin da quando sono nato. Sono sensibile, e anche se ho imparato
a non darlo a vedere, sono estremamente concentrato. Sono un artista
ventiquattro ore al giorno. Succede qualcosa intorno a me, e anche se si tratta
di un evento, un personaggio, un’azione, o un mero stato all’apparenza
insignificante, ne vengo attratto come da una calamita. All’improvviso tutto il
resto della mia vita passa in secondo piano. Riesco a vedere solo quell’unico,
a volte minuscolo, punto. E mi ci concentro con tutto me stesso, ci sprofondo
dentro. Poi dalla nebbia cominciano a emergere alcune parole. A quel punto so
che sto seguendo la traccia giusta. Continuo poi a custodire nella mia testa
quelle poche parole, che a mano a mano diventano una frase, o più frasi, e
infine le scrivo, le scrivo, ma inutilmente. Sono destinato a fallire con le
mie parole. Forse con il mio silenzio sarei meno destinato a fallire. Ma non ho
un gran carattere, e la forza magica delle parole prevale sempre sul mio buon
senso, secondo il quale c’è un’unica cosa che dovrei fare con le parole.
Tacerle.
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