Supponiamo che oggi abbia
affittato un tram, di cui sono stato nominato guidatore, per fare un percorso
attraverso la Letteratura del nostro secolo. In questo percorso farò delle
fermate a mio piacimento, imbarcando solo i passeggeri che mi vanno a genio. Altre
volte, spesso, tirerò diritto, senza curarmi di chi sta aspettando alla
fermata. Riceverò improperi e maledizioni, me ne rendo conto, però la compagnia
dei trasporti che mi ha consegnato il tram mi ha dato anche un berretto con una
tesa di plastica che porta la dicitura “Scrittore”, e a questo punto, forte di
questo privilegio, fingo di essere convinto che possa avere un certo interesse,
per voi che siete i miei passeggeri, sapere come uno scrittore giudica il
secolo in cui vive. Partenza Se io fossi uno scrittore come Georges Perec
potrei tranquillamente esaurire il mio discorso con una lunga lista. Perec ha
scritto effettivamente un bellissimo testo che è una semplice lista, si chiama
J’aime, je n’aime pas (Mi piace, non mi piace), e in questa lista ha rivelato
la sua estetica. Però, pensandoci bene, forse risulterebbe difficile liquidare
il XX secolo con una lista a base di mi piace e non mi piace. Si tratta di un
secolo troppo complesso che insieme piace e dispiace. È il secolo delle
contraddizioni, dei contrasti, degli entusiasmi e delle disillusioni. È anche
il secolo delle grandi utopie sociali e delle grandi ideologie umanitarie e
allo stesso tempo è il secolo dei grandi disastri.
I fermata: manifesto
parigino
Il XX secolo, per quanto riguarda la Letteratura, comincia con un manifesto, un
manifesto che fu pubblicato nel 1909 su Le Figaro di Parigi, firmato da Filippo
Tommaso Marinetti. Si tratta del manifesto del Futurismo. Potrei dire subito
che è un manifesto che non mi piace, però preferisco fare altre osservazioni.
La prima osservazione che si impone, a mio avviso, è che il Futurismo nasce
come teoria, però dietro questa sua teoria si intravede in trasparenza il
desiderio di imporsi come attività pratica, come effettivamente successe.
Voglio dire che nel Futurismo si verifica un processo di estetizzazione che si
riferisce ad ambiti che non appartengono all’arte ma che appartengono piuttosto
alla vita, e per meglio dire alla vita di tutti i giorni: alla politica, alla
moda e perfino alla cucina. Detto in breve: il Futurismo si conforma e si
presenta non solo come un’ideologia onnicomprensiva, non solo come una forma di
vedere il mondo, ma anche come una forma di viverlo. Vale a dire: per la prima
volta un’avanguardia artistica realizza uno slittamento dalla teoria alla
praxis e pretende di intervenire sulla realtà. Però, allo stesso tempo, e mi
sembra un aspetto molto importante, il Futurismo si presenta come un’ideologia
che non offre punti di divergenza con l’epoca in cui attua. Al contrario,
realizza una celebrazione della civiltà industriale, magnifica gli aspetti
della modernità e li dilata fino ad assumerli come nuovi miti. Fra i molti
aspetti della realtà che il Futurismo mette in risalto in maniera da farli
diventare nuovi miti, direi che la Macchina gode di uno statuto privilegiato:
si potrebbe fare una piccola storia del XX secolo basata sull’approvazione
della Macchina da parte di alcuni e sulla sua condanna da parte di altri. E
questi altri sono coloro per i quali essa significa un nuovo e terribile Moloch
sui cui altari si immola l’uomo contemporaneo e che vedono in questa Macchina
un nuovo mostro. E vorrei citare per lo meno Italo Svevo, il Pirandello di
Serafino Gubbio e il Kafka della Colonia penale, tenendo fuori una gran parte
dell’Espressionismo tedesco.
II fermata: un altro
manifesto
Però non è stato il Futurismo l’unica avanguardia che si è imposta l’obiettivo
di passare dalla teoria alla pratica, cioè di intervenire nel mondo sociale e
nella vita. Abbiamo anche il Surrealismo. Certo, con ideologia diversa e con un
segno politico diverso. Vorrei citare Edoardo Sanguineti, che ha affermato che
il Surrealismo non solo tende a una estetizzazione del mondo, ma persino alla
distruzione della categoria dell’estetica in nome di un cambio della relazione
dell’uomo con se stesso, dell’uomo con il mondo, attraverso una prassi
surrealista la cui ambizione è effettivamente essere rivoluzionaria. Però, se
come dicevo prima, il progetto surrealista ha un segno diverso e politicamente
differente dal Futurismo, in cambio è identica l’intenzione o l’illusione; vale
a dire: passare dalla teoria alla pratica. Cioè abbandonare i confini dell’arte
e della letteratura e intervenire nella vita. Ometto per essere breve altri
movimenti di avanguardia che hanno segnato la prima metà di questo secolo e che
come il Futurismo e il Surrealismo hanno avuto la pretesa di attuare nella
praxis. Mi interessa soltanto mettere in risalto che il nostro secolo è nato
con questa grande utopia delle avanguardie storiche: la convinzione di poter
intervenire direttamente sulla realtà.
III fermata: Auschwitz
Ebbene, a mio avviso questa utopia crollerà miseramente con un evento che
determina un taglio storico e che mi sembra una linea divisoria alla metà del
XX secolo: la Seconda guerra mondiale. La Seconda guerra mondiale cancella
nelle avanguardie l’illusione dell’artista di poter intervenire nella realtà,
uccide la grande utopia degli intellettuali e degli scrittori, allontana in maniera
radicale l’idea che l’artista possegga non solo una incidenza sulla prassi, ma
direi un ruolo e una legittimità propria. La domanda che sorge dopo la Seconda
guerra mondiale è la seguente: è possibile scrivere ancora dopo Auschwitz?
Tuttavia, ponendo a questo punto della mia conversazione una simile domanda, un
simile interrogativo, rischierei di lasciare da parte tutta una letteratura che
perfino nei momenti più drammatici del XX secolo si è espressa senza farsi
domande e senza porsi il problema di intervenire sulla realtà, ma direi con il
preciso intento di fornire una serie di testimonianze, di cronache, di
descrizioni e di evocazioni: le grandi pagine degli scrittori isolati che hanno
osservato i grandi avvenimenti del nostro secolo: Bulgakov, Malraux, Babel,
Pasternak, Orwell. E direi che ponendomi questa domanda rischierei anche di
lasciare da parte quella letteratura di testimonianza che alla domanda che
ponevo prima, e che pone Adorno, “È possibile scrivere ancora dopo Auschwitz?”,
ha optato giustamente di scrivere su Auschwitz. Mi riferisco soprattutto a un
grande scrittore italiano, Primo Levi, e alla sua grande e dolorosa prova:
guardare con occhi lucidi l’epoca in cui viviamo, testimoniare, usare la
letteratura come memoria, una memoria che perduri ostinatamente, una memoria
lunga che si opponga alla memoria breve dei mezzi di comunicazione di massa che
caratterizzano l’epoca in cui viviamo...
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