Stava scendendo la
sera, e la perdita graduale di luce mi faceva vedere quella donna sempre più
solitaria, più isolata e più condannata ad aspettare invano. La persona che le
aveva dato appuntamento non sarebbe venuta, Se ne stava al centro della strada,
non si appoggiava al muro come fanno di solito quelli che attendono per non
rallentare il passaggio di quelli che non aspettano e passano, e perciò aveva
problemi a schivare i passanti, qualcuno le disse qualcosa, lei rispose
stizzita e lo minacciò con la borsa enorme.
A
un tratto sollevò lo sguardo, verso il terzo piano dove mi trovavo io, e mi
sembrò che fermasse i suoi occhi su di me per la prima volta. Scrutò, come se
fosse miope o portasse lenti a contatto sporche, stringeva un poco gli occhi
per vedere meglio, mi sembrò che stesse guardando proprio me. Ma io non
conoscevo nessuno a Siviglia, anzi, era la prima volta che andavo a Siviglia,
nel mio viaggio di nozze con la mia moglie così recente, dietro alle mie spalle
malata, c’era da sperare che non fosse niente. Sentii un mormorio venire dal
letto, ma non girai la testa perché era un lamento che veniva dal sonno, si
impara a distinguere subito il suono addormentato di colui con cui si dorme. La
donna aveva fatto qualche passo, adesso nella mia direzione, stava attraversando
la strada, schivando le auto senza andare a cercare un semaforo, come se
volesse avvicinarsi in fretta per accertarsi, per vedermi meglio affacciato al
mio balcone. Tuttavia camminava con difficoltà e con lentezza, come se non
fosse abituata a quei tacchi o se le sue gambe così vistose non fossero fatte
per loro, o le facesse perdere l’equilibrio la borsa o fosse in preda a un
capogiro. Camminava come aveva camminato mia moglie quando si era sentita male,
entrando in camera, io l’avevo aiutata a spogliarsi e a infilarsi nel letto,
l’avevo coperta. La donna della strada finì di attraversare, adesso era più
vicina ma ancora distante, separata dall’albergo dallo spiazzo che lo separava
dal traffico. Continuava a tenere lo sguardo fisso in alto, guardava verso di
me o alla mia altezza, l’altezza del palazzo in cui io mi trovavo. E allora
fece un gesto con il braccio, un gesto che non era di saluto né di
avvicinamento, intendo dire di avvicinamento a un estraneo, ma di
appropriazione e di riconoscimento, come se fossi io la persona che aveva
aspettato e il suo appuntamento fosse con me. Era come se con quel gesto del
braccio, coronato da un mulinello veloce delle dita, volesse afferrarmi e
dicesse: “Tu vieni qua”, o “Sei mio”. Allo stesso tempo gridò qualcosa che non
riuscii a sentire, e dal movimento delle labbra capii soltanto la prima parola,
che era “Ehi!”, detta con indignazione, come il resto della frase che non era
arrivata sino a me. Continuò a venire avanti, adesso si toccò il retro della
gonna con più ragione, perché sembrava che chi doveva giudicare la sua figura
ormai fosse di fronte a lei, l’atteso poteva apprezzare adesso come le stava
quella gonna. E allora potei sentire quel che stava dicendo: “Ehi! Ma che cosa
ci fai lì?” Il grido era più udibile adesso, e vidi meglio la donna. Forse
aveva più di trent’anni, gli occhi sebbene chiusi di continuo mi sembrarono
chiari, grigi o color prugna, le labbra grosse, il naso un po’ largo, le narici
veementi per la rabbia, doveva avere aspettato per molto tempo, molto più tempo
di quello trascorso da quando l’avevo individuata. Camminava traballante e
inciampò e cadde sullo spiazzo, macchiandosi subito la gonna bianca e perdendo
una delle scarpe. Si rialzò con fatica, senza voler toccare il pavimento con il
piede scalzo, come se temesse di sporcarsi anche la pianta adesso che la
persona del suo incontro era arrivata, adesso che doveva avere i piedi puliti
nel caso glieli avesse visti l’uomo con cui s’era data appuntamento. Riuscì a
infilarsi la scarpa senza appoggiare il piede a terra, si passò una mano sulla
gonna e gridò: “Ma che cosa ci fai lì? Perché non mi hai detto che eri già
salito? Non lo vedi che t’aspetto da un’ora?” (lo disse con chiaro accento
sivigliano, con il seseo). E mentre lo diceva, fece di nuovo il gesto
dell’afferrare, un colpo secco del braccio nudo in aria e il roteare delle dita
rapide che lo accompagnava. Era come se mi stesse dicendo “Sei mio” o “Io ti
ammazzo”, e con il suo movimento potesse prendermi e poi trascinarmi, un artiglio.
Questa volta gridò così forte ed era ormai tanto vicina che temetti potesse
svegliare mia moglie nel letto.
– Che cosa succede? – disse mia moglie debolmente.
Mi girai, s’era messa a sedere sul letto, con occhi spaventati, come quelli di una malata che si sveglia e non vede ancora niente né sa dove si trova né perché si sente così confusa. La luce era spenta. In quel momento era una malata.
– Niente, torna a dormire, – risposi.
Ma non le andai vicino per accarezzarle i capelli o per rassicurarla, come avrei fatto in qualunque altra situazione, perché non mi sarei potuto allontanare dal balcone, e avrei potuto a malapena distogliere per un attimo lo sguardo da quella donna che era convinta di aver preso un impegno con me. Adesso mi vedeva bene, ed era indiscutibile che fossi io la persona con cui aveva fissato un appuntamento importante, la persona che l’aveva fatta soffrire nell'attesa e l’aveva offesa con la mia protratta assenza. “non l’hai visto che ti stavo aspettando lì da un’ora? perché non mi hai detto niente!”, urlava furiosa adesso, ferma davanti al mio albergo e sotto il mio balcone. “Mi sentirai! Io ti ammazzo!”, gridò. E di nuovo fece il gesto con il braccio e con le dita, il gesto che mi afferrava.
– Ma che cosa succede? – domandò di nuovo mia moglie, sconcertata, dal letto.
In quel momento mi feci indietro e socchiusi la portafinestra del balcone, ma prima di farlo potei vedere che la donna della strada, con l’enorme borsa antiquata e le scarpe con i tacchi a spillo e le gambe robuste e il procedere traballante, scompariva dal mio campo visivo perché ormai stava entrando in albergo, pronta a salire alla mia ricerca perché l’appuntamento avesse luogo. Provai un senso di vuoto nel pensare a che cosa avrei potuto dire a mia moglie malata per spiegare l’intrusione che era sul punto di verificarsi. Eravamo in viaggio di nozze, e durante quel viaggio non si vuole l’intrusione di un estraneo, anche se io non dovevo essere un estraneo, credo, per chi ormai stava salendo le scale. Provai un senso di vuoto e chiusi il balcone. Mi preparai ad aprire la porta.
– Che cosa succede? – disse mia moglie debolmente.
Mi girai, s’era messa a sedere sul letto, con occhi spaventati, come quelli di una malata che si sveglia e non vede ancora niente né sa dove si trova né perché si sente così confusa. La luce era spenta. In quel momento era una malata.
– Niente, torna a dormire, – risposi.
Ma non le andai vicino per accarezzarle i capelli o per rassicurarla, come avrei fatto in qualunque altra situazione, perché non mi sarei potuto allontanare dal balcone, e avrei potuto a malapena distogliere per un attimo lo sguardo da quella donna che era convinta di aver preso un impegno con me. Adesso mi vedeva bene, ed era indiscutibile che fossi io la persona con cui aveva fissato un appuntamento importante, la persona che l’aveva fatta soffrire nell'attesa e l’aveva offesa con la mia protratta assenza. “non l’hai visto che ti stavo aspettando lì da un’ora? perché non mi hai detto niente!”, urlava furiosa adesso, ferma davanti al mio albergo e sotto il mio balcone. “Mi sentirai! Io ti ammazzo!”, gridò. E di nuovo fece il gesto con il braccio e con le dita, il gesto che mi afferrava.
– Ma che cosa succede? – domandò di nuovo mia moglie, sconcertata, dal letto.
In quel momento mi feci indietro e socchiusi la portafinestra del balcone, ma prima di farlo potei vedere che la donna della strada, con l’enorme borsa antiquata e le scarpe con i tacchi a spillo e le gambe robuste e il procedere traballante, scompariva dal mio campo visivo perché ormai stava entrando in albergo, pronta a salire alla mia ricerca perché l’appuntamento avesse luogo. Provai un senso di vuoto nel pensare a che cosa avrei potuto dire a mia moglie malata per spiegare l’intrusione che era sul punto di verificarsi. Eravamo in viaggio di nozze, e durante quel viaggio non si vuole l’intrusione di un estraneo, anche se io non dovevo essere un estraneo, credo, per chi ormai stava salendo le scale. Provai un senso di vuoto e chiusi il balcone. Mi preparai ad aprire la porta.
Un racconto straordinario: grazie!
RispondiEliminadavvero perfetto, quando lo leggo aspetto che qualcuno suoni alla (mia) porta
RispondiElimina