Cultura non è possedere un magazzino ben
fornito di notizie, ma la capacità che la nostra mente ha di comprendere
la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha
cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione immanente
con tutti gli altri esseri (..) Basta vivere da uomini, cioè cercare di
spiegare a se stesso il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi
aperti, curiosi su tutto e su tutti, sforzandosi di capire ogni giorno di più l’organismo
di cui siamo parte; penetrare la vita con tutte le nostre forze di
consapevolezza, di passione, di volontà; non addormentarsi, non impigrire mai;
dare alla vita il suo giusto valore, in modo da essere pronti, secondo la
necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato.
La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
sabato 30 aprile 2016
venerdì 29 aprile 2016
C'è chi - Wislawa Szymborska
C'è chi
meglio degli altri realizza la sua vita.
E' tutto in
ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni
cosa ha metodi e risposte.
E' lesto a
indovinare il chi il come il dove
e a quale
scopo.
Appone il
timbro a verità assolute,
getta i
fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone
ignote
dentro
appositi schedari.
Pensa quel
tanto che serve,
non un
attimo di più,
perché
dietro quell'attimo sta in agguato il dubbio.
E quando è
licenziato dalla vita,
lascia la
postazione
dalla porta
prescritta.
A volte un
po' lo invidio
- per
fortuna mi passa.
giovedì 28 aprile 2016
Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini - Yasmina Khadra
un perfetto romanzo in cui tutti i nodi vengono al pettine, in un mondo corrotto, che qui è l'Algeria, ma potrebbe essere dovunque, nessuno si senta escluso.
romanzo noir, politico, poliziesco, dove coraggio, vendetta, vigliaccheria, eroismo,tradimento, amicizia, servilismo, senso del dovere, corruzione, verità e menzogna, vita e morte, si confrontano e si confondono in ogni momento.
Algeri è lo sfondo di un'indagine che non guarda in faccia nessuno, e questo non si fa.
tutto il mondo è paese, quando un potente è indagato è un complotto verso di lui o verso lo Stato, e le due cose coincidono nella mentalità proprietaria degli intoccabili.
Yasmina Khadra sa come si scrive e appassiona il lettore ogni volta.
il dio della letteratura lo conservi - franz
romanzo noir, politico, poliziesco, dove coraggio, vendetta, vigliaccheria, eroismo,tradimento, amicizia, servilismo, senso del dovere, corruzione, verità e menzogna, vita e morte, si confrontano e si confondono in ogni momento.
Algeri è lo sfondo di un'indagine che non guarda in faccia nessuno, e questo non si fa.
tutto il mondo è paese, quando un potente è indagato è un complotto verso di lui o verso lo Stato, e le due cose coincidono nella mentalità proprietaria degli intoccabili.
Yasmina Khadra sa come si scrive e appassiona il lettore ogni volta.
il dio della letteratura lo conservi - franz
Khadra non è
tuttavia un autore che scrive storie fini a se stesse, tutto ha un preciso
significato. A partire dal prologo introduttivo al libro, che riporto
integralmente.
“Ci sono quelli
che di un barlume fanno una torcia e di una fiaccola un sole, rendendo grazie
per tutta la vita a chi li onora per una sera; e ci sono quelli che gridano al
fuoco appena intravedono una parvenza di luce in fondo al tunnel, trascinando
in basso ogni mano che si tende verso di loro.
Questi ultimi in Algeria vengono chiamati “Beni Kelboun”.
Geneticamente nefasti, i Beni Kelboun hanno una loro trinità personale:
mentono per natura,
truffano per principio,
nuocciono per vocazione.
Questa è la loro storia.”
Questi ultimi in Algeria vengono chiamati “Beni Kelboun”.
Geneticamente nefasti, i Beni Kelboun hanno una loro trinità personale:
mentono per natura,
truffano per principio,
nuocciono per vocazione.
Questa è la loro storia.”
La storia che
racconta Khadra è, tout court,
la storia che viviamo quotidianamente anche noi. C’è il degrado, certo, la
sconfitta amara e terribile, ma il riscatto è sempre all’orizzonte, ed è tra
l'altro sempre possibile, come dimostra il comportamento di uno dei personaggi
meno centrali ma che si svela determinante e inaspettatamente decisivo. Ci
vuole solo un atto di coraggio, oltre a scelte coraggiose che solo gli spiriti
liberi possono permettersi.
Non aggiungo
altro. Provate solo a leggere il libro, perché vi stupirà. A partire dal
titolo, Cosa aspettano
le scimmie a diventare uomini molto esemplificativo. Io non vi
anticipo nulla della storia narrata. Prendete dunque il romanzo, e capirete.
…La religione salafita dei fondamentalisti, secondo Yasmina Khadra,
ha contaminato tutte le istituzioni algerine, si tratta di un salafismo
“predatore”, carrierista che cresce coabitando con il potere.
Quando nel 2001 Yasmina Khadra, faceva presente che non erano i
militari ad uccidere in Algeria, come diceva la tesi accreditata in tutto
l’Occidente, ma i terroristi islamici, fu accusato di essere un uomo del
regime.
Quello che l’autore scrisse, allora, nel libro “Cosa sognano i lupi”
(Feltrinelli, 2001), era un avviso a tutto il mondo di come stavano andando le
cose e di come sarebbero poi peggiorate. Quando in Algeria vennero assassinati
i più grandi filosofi e scrittori, il mondo lo ignorò, fece finta di nulla, lo
si considerò un problema locale.
Yasmina Khadra non vede religione nel terrorismo e fa il paragone con
la mafia italiana che frequenta chiese e processioni. Non è fede, non è religione,
è solo criminalità.
Una criminalità che cresce dove impera la corruzione, dove regna
l’ignoranza, dove la scuola non funziona bene, dove non c’è lavoro e la gente è
disperata; tanto da credere alla soluzione più semplice (e a loro
comprensibile) che le venga prospettata…
…Un libro sul potere, sulla sua
usurpazione senza vergogna e senza limiti, quasi spettasse di diritto decidere
della vita altrui, fino a determinare le sorti di un intero Paese.
Sullo sfondo Algeri, la bellissima
città bianca che ha fatto sognare i poeti, che ha fatto innamorare
intellettuali di tutto il mondo, sembra sconfitta dalle tenebre create apposta
da chi la sfrutta, da chi si è autoproclamato suo salvatore e padrone. Ci sono
i “cattivi” e ci sono gli onesti, ci sono i vigliacchi, i leccapiedi, i
servili, i complici, e ci sono gli eroi…
mercoledì 27 aprile 2016
Migranti e accoglienza, gli errori del Corriere della Sera - Duccio Facchini
Il Corriere
della Sera è tornato ad occuparsi dell’accoglienza italiana dei
migranti. L’ha fatto martedì 26 aprile attraverso un lungo articolo a pagina
cinque richiamato addirittura dalla prima, poco sotto la vignetta di Giannelli.
“Noi e i migranti”, dall’inviato a Briatico -Vibo Valentia- Federico
Fubini.
La prima
frase del sommario dà l’idea del taglio complessivo: “Vitto e alloggio
senza lavorare né studiare: è l’assistenzialismo dei centri di accoglienza”.
In realtà, l’autore del reportage ne ha visto solo uno, gestito da
un’associazione e definito “hotel sul mare”. Lì riferisce di aver incontrato un
ragazzo (presentato come nullafacente) che “si dichiara cittadino del Mali” e
“dice di avere diciannove anni”. “Porge una debole stretta di mano” con il
“tablet sottobraccio”. Il presunto maliano “non ha mai fatto lo sforzo di
imparare una parola d’italiano” e non vuole lavorare -su questo Fubini propone
“lavoretti per la comunità locale” ad hoc, “magari un euro l’ora”-, a
dimostrazione della tesi di fondo dell’articolo: “questo Paese sta
riproducendo con i migranti le peggiori tare dell’assistenzialismo degli anni
70 e 80”.
Il pezzo
contiene una lunga serie di errori che abbiamo rivisto insieme a Gianfranco
Schiavone, vice
presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI)
e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di
Trieste.
“Evidenzio
due punti -ragiona a voce alta Schiavone, che si dice ‘indignato’
dall’articolo-. Il primo è che questo signore sostanzialmente parla di
assistenzialismo dei centri di accoglienza, di un modello fallito, dopo la
visita di un solo centro. Dunque l’articolo presentato come inchiesta non ha
nulla dell'inchiesta da un punto di vista giornalistico. Secondo, che
all’interno di questa presunta inchiesta il giornalista si lascia andare a
dichiarazioni che non sono altro che manifesti ideologici non sostenuti da dati
oggettivi”.
Ad esempio?
“Ad un certo punto scrive: ‘Quasi nessuno di loro (gli ospiti del centro
accoglienza, ndr) viene da guerre o persecuzioni’. Come ha fatto ad accertarlo,
stante il fatto che non sarebbe suo compito? Avrebbe dovuto dar conto al
lettore delle presenze, delle domande presentate, dei ricorsi e degli
accoglimenti. Invece non c'è nessun dato che riguarda la condizione degli
ospiti che vivono nel centro”.
Peraltro il
Paese del malcapitato appassionato di tablet è proprio il Mali,
rispetto al quale il Tribunale di Milano nel dicembre 2015 ha riconosciuto “una
situazione di pericolo grave per l’incolumità delle persone derivante da
violenza indiscriminata ancora presente in loco” e quindi riconosciuto
il diritto alla protezione sussidiaria proprio ad un cittadino maliano….
Procurad'e Moderare Barones Sa Tirannia - Francesco Ignazio Mannu
Procurad'e Moderare Barones Sa Tirannia - Francesco Ignazio Mannu
1. Procurade e moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe' in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
ln su pobulu a mancare
2. Mirade ch'est azzendende
Contra de ois su fogu;
Mirade chi non est giogu
Chi sa cosa andat a veras;
Mirade chi sas aeras
Minettana temporale;
Zente cunsizzada male,
Iscultade sa 'oghe mia.
3. No apprettedas s 'isprone
A su poveru ronzinu,
Si no in mesu caminu
S'arrempellat appuradu;
Mizzi ch'es tantu cansadu
E non 'nde podet piusu;
Finalmente a fundu in susu
S'imbastu 'nd 'hat a bettare.
4. Su pobulu chi in profundu
Letargu fit sepultadu
Finalmente despertadu
S'abbizzat ch 'est in cadena,
Ch'istat suffrende sa pena
De s'indolenzia antiga:
Feudu, legge inimiga
A bona filosofia!
5. Che ch'esseret una inza,
Una tanca, unu cunzadu,
Sas biddas hana donadu
De regalu o a bendissione;
Comente unu cumone
De bestias berveghinas
Sos homines et feminas
Han bendidu cun sa cria
6. Pro pagas mizzas de liras,
Et tale olta pro niente,
Isclavas eternamente
Tantas pobulassiones,
E migliares de persones
Servint a unu tirannu.
Poveru genere humanu,
Povera sarda zenia!
7. Deghe o doighi familias
S'han partidu sa Sardigna,
De una menera indigna
Si 'nde sunt fattas pobiddas;
Divididu s'han sas biddas
In sa zega antichidade,
Però sa presente edade
Lu pensat rimediare.
8. Naschet su Sardu soggettu
A milli cumandamentos,
Tributos e pagamentos
Chi faghet a su segnore,
In bestiamen et laore
In dinari e in natura,
E pagat pro sa pastura,
E pagat pro laorare.
9. Meda innantis de sos feudos
Esistiana sas biddas,
Et issas fe ni pobiddas
De saltos e biddattones.
Comente a bois, Barones,
Sa cosa anzena est passada?
Cuddu chi bos l'hat dada
Non bos la podiat dare.
10. No est mai presumibile
Chi voluntariamente
Hapat sa povera zente
Zedidu a tale derettu;
Su titulu ergo est infettu
De s'infeudassione
E i sas biddas reione
Tenene de l'impugnare
11. Sas tassas in su prinzipiu
Esigiazis limitadas,
Dae pustis sunt istadas
Ogni die aumentende,
A misura chi creschende
Sezis andados in fastu,
A misura chi in su gastu
Lassezis s 'economia.
12. Non bos balet allegare
S'antiga possessione
Cun minettas de presone,
Cun gastigos e cun penas,
Cun zippos e cun cadenas
Sos poveros ignorantes
Derettos esorbitantes
Hazis forzadu a pagare
13. A su mancu s 'impleerent
In mantenner sa giustissia
Castighende sa malissia
De sos malos de su logu,
A su mancu disaogu
Sos bonos poterant tenner,
Poterant andare e benner
Seguros per i sa via.
14. Est cussu s'unicu fine
De dogni tassa e derettu,
Chi seguru et chi chiettu
Sutta sa legge si vivat,
De custu fine nos privat
Su barone pro avarissia;
In sos gastos de giustissia
Faghet solu economia
15. Su primu chi si presenta
Si nominat offissiale,
Fattat bene o fattat male
Bastat non chirchet salariu,
Procuradore o notariu,
O camareri o lacaju,
Siat murru o siat baju,
Est bonu pro guvernare.
16. Bastat chi prestet sa manu
Pro fagher crescher sa r’nta,
Bastat si fetat cuntenta
Sa buscia de su Segnore;
Chi aggiuet a su fattore
A crobare prontamente
Missu o attera zante
Chi l'iscat esecutare
17. A boltas, de podattariu,
Guvernat su cappellanu,
Sas biddas cun una manu
Cun s'attera sa dispensa.
Feudatariu, pensa, pensa
Chi sos vassallos non tenes
Solu pro crescher sos benes,
Solu pro los iscorzare.
18. Su patrimoniu, sa vida
Pro difender su villanu
Cun sas armas a sa manu
Cheret ch 'istet notte e die;
Già ch 'hat a esser gasie
Proite tantu tributu?
Si non si nd'hat haer fruttu
Est locura su pagare.
19. Si su barone non faghet
S'obbligassione sua,
Vassallu, de parte tua
A nudda ses obbligadu;
Sos derettos ch'hat crobadu
In tantos annos passodos
Sunu dinaris furados
Et ti los devet torrare.
20. Sas r’ntas servini solu
Pro mantenner cicisbeas,
Pro carrozzas e livreas,
Pro inutiles servissios,
Pro alimentare sos vissios,
Pro giogare a sa bassetta,
E pro poder sa braghetta
Fora de domo isfogare,
21. Pro poder tenner piattos
Bindighi e vinti in sa mesa,
Pro chi potat sa marchesa
Sempre andare in portantina;
S'iscarpa istrinta mischina,
La faghet andare a toppu,
Sas pedras punghene troppu
E non podet camminare
22. Pro una littera solu
Su vassallu, poverinu,
Faghet dies de caminu
A pe', senz 'esser pagadu,
Mesu iscurzu e ispozzadu
Espostu a dogni inclemenzia;
Eppuru tenet passienzia,
Eppuru devet cagliare.
23. Ecco comente s 'impleat
De su poveru su suore!
Comente, Eternu Segnore,
Suffrides tanta ingiustissia?
Bois, Divina Giustissia,
Remediade sas cosas,
Bois, da ispinas, rosas
Solu podides bogare.
24. Trabagliade trabagliade
O poveros de sas biddas,
Pro mantenner' in zittade
Tantos caddos de istalla,
A bois lassant sa palla
Issos regoglin' su ranu,
Et pensant sero e manzanu
Solamente a ingrassare.
25. Su segnor feudatariu
A sas undighi si pesat.
Dae su lettu a sa mesa,
Dae sa mesa a su giogu.
Et pastis pro disaogu
Andat a cicisbeare;
Giompidu a iscurigare
Teatru, ballu, allegria
26. Cantu differentemente,
su vassallu passat s'ora!
Innantis de s'aurora
Già est bessidu in campagna;
Bentu o nie in sa muntagna.
In su paris sole ardente.
Oh! poverittu, comente
Lu podet agguantare!.
27. Cun su zappu e cun s'aradu
Penat tota sa die,
A ora de mesudie
Si zibat de solu pane.
Mezzus paschidu est su cane
De su Barone, in zittade,
S'est de cudda calidade
Chi in falda solent portare.
28. Timende chi si reforment
Disordines tantu mannos,
Cun manizzos et ingannos
Sas Cortes han impedidu;
Et isperdere han cherfidu
Sos patrizios pius zelantes,
Nende chi fint petulantes
Et contra sa monarchia
29. Ai cuddos ch’in favore
De sa patria han peroradu,
Chi sa ispada hana ogadu
Pro sa causa comune,
O a su tuju sa fune
Cheriant ponner meschinos.
O comente a Giacobinos
Los cheriant massacrare.
30. Però su chelu hat difesu
Sos bonos visibilmente,
Atterradu bat su potente,
Ei s’umile esaltadu,
Deus, chi s’est declaradu
Pro custa patria nostra,
De ogn’insidia bostra
Isse nos hat a salvare.
31. Perfidu feudatariu!
Pro interesse privadu
Protettore declaradu
Ses de su piemontesu.
Cun issu ti fist intesu
Cun meda fazilidade:
Isse papada in zittade
E tue in bidda a porfia.
32. Fit pro sos piemontesos
Sa Sardigna una cucagna;
Che in sas Indias s 'Ispagna
Issos s 'incontrant inoghe;
Nos alzaiat sa oghe
Finzas unu camareri,
O plebeu o cavaglieri
Si deviat umiliare...
33. Issos dae custa terra
Ch’hana ogadu migliones,
Beniant senza calzones
E si nd’handaiant gallonados;
Mai ch’esserent istados
Chi ch’hana postu su fogu
Malaittu cuddu logu
Chi criat tale zenìa
34. Issos inoghe incontr’na
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fint sos impleos,
Pro issos sint sos onores,
Sas dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
Et a su sardu restada
Una fune a s’impiccare!
35. Sos disculos nos mand’na
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione
Cun impleu e cun patente;
In Moscovia tale zente
Si mandat a sa Siberia
Pro chi morzat de miseria,
Però non pro guvernare
36. Intantu in s’insula nostra
Numerosa gioventude
De talentu e de virtude
Oz’osa la lass’na:
E si algun ‘nd’imple’na
Chircaiant su pius tontu
Pro chi lis torrat a contu
cun zente zega a trattare.
37. Si in impleos subalternos
Algunu sardu avanz’na,
In regalos non bastada
Su mesu de su salariu,
Mandare fit nezessariu
Caddos de casta a Turinu
Et bonas cassas de binu,
Cannonau e malvasia.
38. De dare a su piemontesu
Sa prata nostra ei s'oro
Est de su guvernu insoro
Massimu fundamentale,
Su regnu andet bene o male
No lis importat niente,
Antis creen incumbeniente
Lassarelu prosperare.
39. S'isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare.
40. De custu flagellu, in parte,
Deus nos hat liberadu.
Sos sardos ch'hana ogadu
Custu dannosu inimigu,
E tue li ses amigu,
O sardu barone indignu,
E tue ses in s'impignu
De 'nde lu fagher torrare
41. Pro custu, iscaradamente,
Preigas pro su Piemonte,
Falzu chi portas in fronte
Su marcu de traitore;
Fizzas tuas tant'honore
Faghent a su furisteri,
Mancari siat basseri
Bastat chi sardu no siat.
42. S'accas 'andas a Turinu
Inie basare des
A su minustru sos pes
E a atter su... giù m 'intendes;
Pro ottenner su chi pretendes
Bendes sa patria tua,
E procuras forsis a cua
Sos sardos iscreditare
43. Sa buscia lassas inie,
Et in premiu 'nde torras
Una rughitta in pettorra
Una giae in su traseri;
Pro fagher su quarteri
Sa domo has arruinodu,
E titolu has acchistadu
De traitore e ispia.
44. Su chelu non faghet sempre
Sa malissia triunfare,
Su mundu det reformare
Sas cosas ch 'andana male,
Su sistema feudale
Non podet durare meda?
Custu bender pro moneda
Sos pobulos det sensare.
45. S'homine chi s 'impostura
Haiat già degradadu
Paret chi a s'antigu gradu
Alzare cherfat de nou;
Paret chi su rangu sou
Pretendat s'humanidade;
Sardos mios, ischidade
E sighide custa ghia.
46. Custa, pobulos, est s'hora
D'estirpare sos abusos!
A terra sos malos usos,
A terra su dispotismu;
Gherra, gherra a s'egoismu,
Et gherra a sos oppressores;
Custos tirannos minores
Est prezisu humiliare.
47. Si no, chalchi die a mossu
Bo 'nde segade' su didu.
Como ch'est su filu ordidu
A bois toccat a tessere,
Mizzi chi poi det essere
Tardu s 'arrepentimentu;
Cando si tenet su bentu
Est prezisu bentulare.
da qui (a seguire qualche traduzione in italiano)
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martedì 26 aprile 2016
Il Burundi è a un passo dal genocidio - Gwynne Dyer
La buona notizia è che le violenze in Burundi non sono ancora sfociate in
una guerra civile come quella che ha ucciso trecentomila persone tra il 1993 e
il 2005, né tantomeno un genocidio come quello che ne uccise ottocentomila nel
vicino Ruanda nel 1994. La cattiva notizia è che questo potrebbe succedere
presto.
È difficile dire qualcosa di positivo sull’ex presidente della Fifa Sepp
Blatter. Ma l’Africa gli sarebbe stata molto riconoscente se fosse riuscito a
convincere il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza a non presentarsi per un
terzo mandato e ad accettare invece il ruolo di “ambasciatore del calcio” per
la Fifa.
Poco tempo fa, quando questa storia è emersa nell’autobiografia di Blatter,
il ministro degli esteri svizzero che aveva avuto quest’idea ha spiegato che
“l’obiettivo era contribuire a una soluzione pacifica che evitasse l’attuale
crisi in Burundi”.
La cosa avrebbe potuto persino funzionare. Nkurunziza è un appassionato di
calcio e ha già messo da parte abbastanza denaro per la sua pensione. Ma ha
deciso di restare al potere e presentarsi per un terzo mandato, rimettendo il
Burundi in marcia verso l’inferno.
I presidenti africani hanno due gravi difetti. Il primo è che sono convinti
di essere insostituibili: nel 2000 quasi due terzi dei paesi africani
prevedevano un massimo di due mandati presidenziali nelle loro costituzioni, ma
da allora in dieci di questi stati i presidenti hanno cercato di abolire tale
limite. L’ultimo in ordine di tempo è stato il Ruanda, il cui presidente Paul
Kagame potrebbe restare in carica fino al 2034.
Ma la scusa di Nkurunziza è stata particolarmente patetica. Era diventato
presidente alla fine della guerra civile, nel 2005, quando la pace era ancora
precaria. Non c’era tempo per organizzare delle elezioni, ed è quindi stato
eletto presidente tramite un voto parlamentare.
Così l’anno scorso Nkurunziza ha cominciato a sostenere che il suo primo
mandato non doveva essere considerato perché era stato scelto dal parlamento e
non dal popolo. Anche il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, al settimo
mandato, ha trovato la cosa divertente. “Dici che il primo mandato non conta,
ma sei comunque rimasto in carica per cinque anni!”, ha dichiarato durante un
vertice dell’Unione africana a giugno.
La Corte costituzionale del Burundi però ha accettato la rivendicazione di
Nkurunziza, anche perché contraddirlo sarebbe stato pericoloso. In seguito uno
dei giudici ha lasciato il paese e ha rivelato che lui e i suoi colleghi erano
stati tutti minacciati. I partiti d’opposizione hanno boicottato le elezioni
dello scorso luglio, e già allora il livello di violenza aveva cominciato a
salire rapidamente.
Le violenze sono cominciate dopo un tentativo di colpo di stato per
impedire le elezioni farsa. Il conto dei morti è attualmente intorno ai
quattrocento. Le vittime note sono perlopiù attivisti politici e comuni
cittadini assassinati dalla polizia nella capitale Bujumbura. Il vero numero è
probabilmente molto più alto. È raro che gli omicidi nelle aree rurali vengano
denunciati, ma nel 2015 almeno 250mila persone sono fuggite dal paese e vivono
attualmente in campi profughi nei paesi vicini.
Fino a poco tempo fa l’unica consolazione era che non si trattava di uno
scontro tribale. Sia il genocidio del Ruanda sia la guerra civile del Burundi
hanno opposto la maggioranza hutu (85 per cento della popolazione) alla
minoranza tutsi, un tempo dominante. Dai tempi della guerra civile, tuttavia,
l’esercito del Burundi è equamente diviso tra i due gruppi etnici, e i gruppi
d’opposizione comprendono sia hutu sia tutsi.
Purtroppo l’altro grave difetto dei presidenti africani, è che se
appartengano al gruppo dominante (come spesso accade) quando sono in difficoltà
la loro soluzione predefinita è rispolverare le alleanze tribali. Ed è proprio
quello che sta facendo Nkurunziza. I tutsi vengono epurati dall’esercito, e i
sostenitori hutu del presidente stanno cominciando a usare la stessa retorica
che si sentiva prima del genocidio in Ruanda.
Révérien Ndikuriyo, il presidente del senato del Burundi, ha definito gli
oppositori del regime “scarafaggi”, lo stesso termine usato per riferirsi ai
tutsi dagli estremisti hutu in Ruanda. Ha persino invitato i sostenitori del
governo a “mettersi al lavoro” (kora), la stessa parola d’ordine usata
in Ruanda nel 1994.
Nkurunziza sta cercando di trasformare uno scontro politico che rischiava
di perdere in un conflitto etnico che potrebbe vincere. Il prezzo da pagare
sarebbe però un nuovo genocidio. Il futuro di tutto un paese potrebbe essere
sacrificato alla sua ambizione personale.
L’Unione africana si è offerta d’inviare cinquemila soldati per sedare le
violenze, ma ha fatto marcia indietro quando Nkurunziza si è opposto. Ci sono
19mila caschi blu delle Nazioni Unite appena al di là del confine con la
Repubblica democratica del Congo, ma non c’è la volontà politica di impiegarli.
Finora i partiti d’opposizione (che naturalmente sono perlopiù hutu) stanno
resistendo ai tentativi di Nkurunziza di usare i tutsi come capro espiatorio.
Ma nel paese più povero del mondo molti hutu potrebbero sfruttare le bugie del
regime per impadronirsi della terra dei loro vicini tutsi. Il prossimo
genocidio africano potrebbe essere questione di giorni.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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domenica 24 aprile 2016
sabato 23 aprile 2016
venerdì 22 aprile 2016
giovedì 21 aprile 2016
Breivik ha perso, vincendo - Riccardo Dal Ferro
Ieri sui social di tutta Italia è
scoppiata l’indignazione.
La sentenza della Corte norvegese che risarcirà il detenuto Anders Breivik per maltrattamenti e violazione dei diritti umani ha fatto scalpore tra gli opinionisti. Sembra incredibile infatti che l’assassino di settantasette ragazzi innocenti possa vincere una causa per violazione dei diritti umani.
“E dei diritti di quei 77 ragazzi?” si legge su Twitter.
“Faccio volentieri a meno della civiltà norvegese” scrive un altro su Facebook.
Ma come sempre, l’idiozia parla prima della ragione.
Ciò che emerge da questa vicenda, dalla quale avremmo così tanto da imparare, è solo una cosa: ha vinto il detenuto Breivik, e in questo modo ha perso l’ideologia Breivik.
Basterebbe leggere un po’ Cesare Beccaria per capire quanto lontana la legge dovrebbe essere dalle logiche di vendetta. Hobbes ha perso da tempo (a parte in alcuni anfratti degli Stati Uniti e altri paesi barbari) e ha lasciato il posto al diritto razionale, quello che non si sobbarca della vendetta del popolo, l’homo homini lupus, ma quello di fronte al quale chiunque, sia esso un ladro di cioccolatini, un burocrate o un pluriomicida, viene giudicato in maniera eguale.
Certo, so che in Italia questo è un concetto difficile da mandare giù, anche se il nostro Paese è quello da cui è nato, perlomeno in forma filosofica.
Ciò che è accaduto deve far riflettere perché si tratta della vittoria della civiltà sulla barbarie: la civiltà giuridica che schiaccia con raffinatezza e charme la barbarie ideologica propugnata da Breivik che, in un ultimo gesto di disperato simbolismo, tende il saluto nazista al cielo di fronte al silenzio indifferente dell’aula.
Questa sentenza rimarca di nuovo la forza indiscriminata del diritto razionale e lo fa con la pacatezza di un riconoscimento: persino al detenuto odiato Breivik, che è un uomo e non un diavolo (“Diritti umani a uno che non è un umano?” si legge su Twitter), viene riconosciuto ciò che lui stesso ha tolto alle vittime di quella strage.
Questa sentenza sarebbe la pietra tombale su ogni ideologia simile, se non ci fossero gli imbecilli italiani che al posto di accendere il cervello vomitano idiozie sul web, solo perché hanno ancora le dita per farlo. Ma credo di non volerle tagliare quelle dita, proprio perché il mio continuare dritto per la mia strada al motto di “Evviva la Norvegia” sia sufficientemente umiliante per questi opinionisti della scempiaggine.
“Non sono d’accordo con quello che dici ma ti lascerò le dita per twittare, idiota” sembra la frase con cui concludere questo pezzo. E invece non lo farò, rinfocolando polemiche, e concluderò con un lapidario: congratulazioni, detenuto Breivik.
Giustizia è fatta, in tutti i sensi.
La sentenza della Corte norvegese che risarcirà il detenuto Anders Breivik per maltrattamenti e violazione dei diritti umani ha fatto scalpore tra gli opinionisti. Sembra incredibile infatti che l’assassino di settantasette ragazzi innocenti possa vincere una causa per violazione dei diritti umani.
“E dei diritti di quei 77 ragazzi?” si legge su Twitter.
“Faccio volentieri a meno della civiltà norvegese” scrive un altro su Facebook.
Ma come sempre, l’idiozia parla prima della ragione.
Ciò che emerge da questa vicenda, dalla quale avremmo così tanto da imparare, è solo una cosa: ha vinto il detenuto Breivik, e in questo modo ha perso l’ideologia Breivik.
Basterebbe leggere un po’ Cesare Beccaria per capire quanto lontana la legge dovrebbe essere dalle logiche di vendetta. Hobbes ha perso da tempo (a parte in alcuni anfratti degli Stati Uniti e altri paesi barbari) e ha lasciato il posto al diritto razionale, quello che non si sobbarca della vendetta del popolo, l’homo homini lupus, ma quello di fronte al quale chiunque, sia esso un ladro di cioccolatini, un burocrate o un pluriomicida, viene giudicato in maniera eguale.
Certo, so che in Italia questo è un concetto difficile da mandare giù, anche se il nostro Paese è quello da cui è nato, perlomeno in forma filosofica.
Ciò che è accaduto deve far riflettere perché si tratta della vittoria della civiltà sulla barbarie: la civiltà giuridica che schiaccia con raffinatezza e charme la barbarie ideologica propugnata da Breivik che, in un ultimo gesto di disperato simbolismo, tende il saluto nazista al cielo di fronte al silenzio indifferente dell’aula.
Questa sentenza rimarca di nuovo la forza indiscriminata del diritto razionale e lo fa con la pacatezza di un riconoscimento: persino al detenuto odiato Breivik, che è un uomo e non un diavolo (“Diritti umani a uno che non è un umano?” si legge su Twitter), viene riconosciuto ciò che lui stesso ha tolto alle vittime di quella strage.
Questa sentenza sarebbe la pietra tombale su ogni ideologia simile, se non ci fossero gli imbecilli italiani che al posto di accendere il cervello vomitano idiozie sul web, solo perché hanno ancora le dita per farlo. Ma credo di non volerle tagliare quelle dita, proprio perché il mio continuare dritto per la mia strada al motto di “Evviva la Norvegia” sia sufficientemente umiliante per questi opinionisti della scempiaggine.
“Non sono d’accordo con quello che dici ma ti lascerò le dita per twittare, idiota” sembra la frase con cui concludere questo pezzo. E invece non lo farò, rinfocolando polemiche, e concluderò con un lapidario: congratulazioni, detenuto Breivik.
Giustizia è fatta, in tutti i sensi.
la sincerità (secondo bortocal)
ad
essere sinceri, la sincerità e` una forma di disadattamento sociale.
la
persona abitualmente schietta e sincera dimostra con ciò stesso uno spirito
insopportabilmente egoista.
preferisce
infatti l’immagine della propria coerenza ai suoi occhi che la piacevolezza dei
rapporti sociali, dove gli altri sono felicemente lusingati dalle menzogne
positive che raccontiamo sul loro conto e perfino da quelle negative sul conto
degli altri.
domenica 17 aprile 2016
sabato 16 aprile 2016
venerdì 15 aprile 2016
Si fa presto a dire paradiso fiscale - Andrea Baranes
Clienti
provenienti da 204 (duecentoquattro) Paesi del mondo. Secondo Wikipedia, i
Paesi membri dell’Onu sono 193. Il che significa che lo studio Mossack
Fonseca è più rappresentativo delle Nazioni Unite.
11,5 milioni di documenti, che vedono coinvolte 215.000
società. Confindustria, la principale
organizzazione di rappresentanza delle imprese in Italia ne raggruppa poco meno di 150.000. Migliaia, se non decine
di migliaia
di intermediari finanziari, oltre 500 banche, 150 tra capi di Stato e
leader politici.
Stiamo parlando di uno studio legale. Uno. Che sarà anche stato importante, ma a
Panama quanti saranno gli avvocati? E i commercialisti? I notai, i
consulenti, gli studi specializzati? Attenzione poi, Panama
è solo una delle decine di giurisdizioni considerate un paradiso fiscale. La
“black list” dell’Agenzia delle Entrate italiana ne segnala oltre cinquanta,
praticamente in ogni continente e a ogni latitudine. E teniamo conto che
per evidenti motivi diplomatici il Delaware negli Usa, la City di Londra o
l’Olanda, solo per fare alcuni esempi, non sono inclusi in questa lista, anche
se molti ricercatori li considerano tra i più importanti paradisi fiscali
del pianeta. E sono posti in cui gli studi di avvocati e consulenti non
mancano di certo.
È vero che da anni le banche centrali inondano di soldi i mercati
finanziari. Una quantità sterminata di denaro che non finisce in consumi e
investimenti ma rimane incastrata nei circuiti della finanza, e che
naturalmente prima o poi trova rifugio nei porti sicuri e discreti di queste
giurisdizioni. Vero anche
che le
diseguaglianze non fanno che crescere e il
famoso “1 per cento” diventa sempre più ricco, per non parlare della
crema, di quel 1 per cento dell’1 per cento che è il vero target di ogni
consulente finanziario che si rispetti. Fatte salve queste dovute
considerazioni, deve comunque rimanere una concorrenza spietata per
attrarre il banchiere, il mafioso e il dittatore di turno.
Anche perché non
parliamo solo di grandi studi di avvocati con moquette di alpaca e poltrone in pelle
umana. Basta farsi un giro su internet per vedere checon
poche centinaia di dollari chiunque può aprirsi la propria società di
comodo. Un sito a caso tra le centinaia che si trovano
in rete segnala che creare una società alle Isole Vergini Britanniche o ad
Anguilla costa intorno ai 1.000 euro l’anno, anche meno per approdare alle
Seychelles o in Belize. Panama, come Gibilterra o le Bahamas sembra poco
più cara, ma è comunque una destinazione ormai alla portata di ogni
bravo calciatore e criminale degno di nota.
Con poche centinaia di euro in più, oltre alla
società si può anche aprire un conto corrente in una di queste giurisdizioni, o
in altre, a Saint Vincent, in Lettonia o a Hong Kong. Prezzi di
assoluta convenienza anche per avere per la propria società un direttore
designato, ovvero un prestanome “utilizzato per garantire il
massimo livello di confidenzialità. Il nome del direttore apparirà
sui documenti dell’impresa, in ogni contratto professionale e nei registri
commerciali della giurisdizione. Un altro vantaggio legato al servizio di direttore
designato consiste nel piazzare la questione “del controllo e della gestione” al di fuori
di una giurisdizione con fiscalità importante.
a concorrenza non è
unicamente tra gli studi, ma anche tra le diverse giurisdizioni. Si
fa presto a definirsi “paradiso fiscale”, ma per attrarre i capitali di
capitani di industria e trafficanti di droga occorre offrire condizioni
sempre migliori, e
specializzarsi in poche attività in cui battere la concorrenza degli altri
paradisi fiscali. È così che ogni territorio si concentra su poche ben
definite operazioni, chi puntando su un fisco nullo, chi sul completo
anonimato, chi sulla creazione di scatole cinesi.
Occorre trovare la propria nicchia di mercato in cui essere all’avanguardia.
Essere il più paradiso di tutti tra più Paesi di quanti ne conta l’Onu.
Poi essere il più bravo tra stuoli di consulenti a completa disposizione.
Superare la spietata concorrenza delle società su internet, che offrono
ogni genere di servizi a prezzi stracciati. E proprio quando
pensi di avercela fatta, sul più bello una fuga di notizie da 11,5 milioni
di documenti mette a rischio tutto. Altro
che paradisi – fiscali o meno – lavorare in questo settore deve essere un
vero inferno.
giovedì 14 aprile 2016
Cesoie – Erri De Luca
Medici
Senza Frontiere pensa di offrire ai profughi delle cesoie contro i reticolati
che li respingono. Sono strumenti di prevenzione infortuni, perché scavalcano
ugualmente, ferendosi. Le cesoie sono democratiche, permettono a tutti il
passaggio, non solo agli atleti. La specie umana forse proviene dal mare, ma
diversamente dai pesci non si fa ostacolare né irretire da barriere.
Il 17 aprile, referendum contro le trivellazioni petrolifere marine a vista
spiaggia, è utensile democratico simile alle cesoie. Serve per tagliare le reti
delle concessioni a prezzi stracciati, recidere i reticolati degli interessi
loschi tra pubblici poteri e privati petrolieri. Sette Regioni d’Italia
hanno messo in mano ai cittadini un buon paio di cesoie per liberare il mare
dai suoi guastatori. Tagliare concessioni che si rinnovano per inerzia anche
dopo scadute, tagliare la strafottenza con cui si lasciano 64 piattaforme
esaurite, a marcire in mare. Tagliare l’arroganza che dichiara strategica la
svendita di beni primari: mare, acqua, pubblica salute. Le cesoie stanno
diventando simbolo di riscatto, presto saliranno sulle bandiere e sui simboli
dei movimenti nuovi. Sventoleranno libertà.
Cosa si conta domenica prossima – Alessandro Gilioli
Astenersi
dal voto in democrazia è pieno diritto.
Ci si
astiene per i più svariati e spesso fondati motivi. Non solo l'impedimento
fisico al voto (tipo se ci si trova lontani dal Comune di residenza o se si è
malati) ma anche altri. Ci si astiene ad esempio per incertezza. Per
disinteresse. Perché "per me pari sono". Per mandare un messaggio di
rabbia o sfiducia ai rappresentanti - che peraltro di solito se ne fottono e il
giorno dopo stanno a litigare sui resti, altro che astensione.
Comunque, da
giovane scrutatore, anch'io trovai una volta nella scheda la famosa fetta di
prosciutto con la scritta "mangiatevi anche questa". Un modo lecito,
per quanto inutile, di esprimere il proprio dissenso. In effetti, ridendo, uno
scrutatore un po' goliardico se la mangiò, dopo una breve ispezione olfattiva.
Di solito
questo astensionismo - per impedimento fisico o per consapevole decisione -
viaggia tra il 20 e il 30 per cento. Un po' di più, di recente, per via della
crisi della rappresentanza, della disaffezione verso i partiti. Così
ultimamente è attorno al 40 per cento. È quella che viene chiamata
"astensione fisiologica". Propria cioè di chi o non può andare alle
urne o deliberatamente sceglie di non scegliere.
Al
referendum del 17 aprile, così come a quello sulla fecondazione assistita del
2005, c'è invece un altro tipo di astensione.
È
l'astensione di chi, se giocasse lealmente, voterebbe No. Invece ha paura che
votando No non vincerebbe. Perché potrebbe essere in minoranza. Quindi assomma
la propria astensione a quella fisiologica di cui sopra, sperando di vincere
così.
Curioso no?
In democrazia di solito vince chi è maggioranza tra quanti scelgono di
scegliere. In questo caso non è detto che accada, invece: proprio come nel
2005, quando i vescovi vinsero assommarono il No di una minoranza - i cattolici
più integralisti contrari alla fecondazione assistita - all'astensione
fisiologica. E vinsero. Anche se la maggioranza di chi aveva un'opinione sul
merito li avrebbe fatti perdere.
Fu una
sconfitta, per i referendari, sì. Ma fu soprattutto una sconfitta per la
democrazia. Perché fu deformata: da una parte si contarono i
favorevoli alla procreazione assistita; dall'altra, i contrari più l'astensione
fisiologica. Da soli, i contrari non ce l'avrebbero fatta.
Chi il 17
aprile è per il No e invece non va alle urne, non è propriamente un
astensionista. È più un giocatore di frodo. Un ciclista che si dopa mentre gli
altri no. Uno che vince un concorso perché ha lo zio in commissione. Uno che
con gli specchi vede le carte dell'avversario a poker.
Nel mondo
anglosassone, dove una cosa così sarebbe motivo tale di vergogna da non dirlo
nemmeno in famiglia, si definirebbe semplicemente unfair. Niente di
più, niente di diverso.
Da noi
invece c'è chi se ne vanta, senza un briciolo di vergogna, né di stima di sé.
Dopo tutto
questo, credo che il 17 aprile forse non si voti nemmeno più sulla durata delle
concessioni alle trivelle: questione di rilevanza non epocale, con tutto il
rispetto dei referendari. Si vota soprattutto per contarsi fra giocatori di
frodo e no. Tra deformatori della democrazia e no.
Il 17 aprile
ci si conta sulla nostra lealtà, sulla nostra onestà nel confrontarci e
contarci. Sul nostro rispetto di noi stessi e del giocare leali in democrazia.
Sullepratiche, quindi, prima ancora che sui contenuti. In buona
sostanza, tra chi pensa che il fine giustifichi ogni mezzo e chi crede invece
siano i mezzi a qualificare il fine.
Ah, fra
l'altro. Ricordo il primo referendum che ho vissuto da ragazzo, nel 1974. Era
quello sul divorzio. La consultazione era proposta dai cattolici integralisti,
per abolirlo. I laici - noi laici - eravamo quindi per il No. Ma a nessuno
della nostra parte - Berlinguer, Nenni, La Malfa, gente così - venne in mente
l'arzigogolo bizantino di assommare l'astensione fisiologica ai No, boicottando
la conta reale tra favorevoli e contrari al divorzio. Proprio a nessuno. Si
andò invece tutti lealmente a votare, rischiando molto. Era la democrazia. È la
democrazia.
da
qui
mercoledì 13 aprile 2016
Regeni come Cucchi, l'Italia è come l'Egitto – Emiliano Fittipaldi
Il presidente della giunta militare che governa l'Egitto, il generale
Al-Sisi, è un dittatore dal pugno di ferro. Al Cairo sono considerati un
insopportabile lacciuolo al potere, e gli oppositori del regime vengono sistematicamente
oppressi, a volte torturati, spesso uccisi: di molti di loro non si sa più
nulla. Desaparecidos. Il caso del ricercatore Giulio Regeni rientra
probabilmente in questa tragica casistica: sono tanti gli indizi che portano a
considerare il suo barbaro omicidio come un'azione della polizia egiziana, o di
qualche squadrone della morte ad essa collegata.
Doveroso che l'Italia chieda la verità, doveroso che i partiti politici
facciano pressioni sul governo egiziano, manifestando indignazione per le bugie
e per i depistaggi che le istituzioni stanno allestendo per bloccare
l'inchiesta. Ma, sfortunatamente, sul tema l'Italia non può dare lezioni a
nessuno. Nemmeno all'Egitto di Al-Sisi.
Di casi Regeni, di ragazzi morti ammazzati mentre erano sotto tutela dello
Stato, ne sono infatti piene le cronache degli ultimi anni. Si tende a
dimenticarlo, ma Federico Aldrovandi, ammazzato undici anni fa durante un
controllo di polizia, non ha ancora avuto giustizia: i quattro poliziotti
imputati sono stati condannati dai tre a sei mesi di carcere per "eccesso
colposo in nell'uso legittimo delle armi". Uno di loro è uscito dopo
appena un mese di galera, per via dello svuota carceri. Due di loro sono da
poco rientrati in servizio. La vicenda è stata definita da Amnesty
International «un lungo e tormentato percorso di ricerca della verità e della
giustizia. Solidarietà e vicinanza ai familiari di Federico Aldrovandi, che in
questi anni hanno dovuto fronteggiare assenza di collaborazione da parte delle
istituzioni italiane e depistaggi dell'inchiesta».
Se 11 anni di indagini su Aldrovandi hanno prodotto poco o nulla, anche la
morte di Stefano Cucchi resta ancora avvolta nel mistero. Dopo sette anni di
inchieste e depistaggi, omertà e menzogne delle forze dell'ordine e dello
Stato, dopo assoluzioni e pene lievi, nel 2015 la Cassazione ha ordinato una
nuova inchiesta su cinque medici rei di non aver dato maggior attenzione agli
stati patologici di Cucchi, «preesistenti e concomitanti con il politraumatismo
per il quale fu ricoverato». Solo grazie all'insistenza della sorella di
Cucchi, Ilaria, alla fine dell'anno passato la procura di Roma ha aperto un
nuovo fasciolo sul pestaggio, che punta dritto alle responsabilità eventuali
dei carabinieri che arrestarono Cucchi nel 2009.
Ad oggi, nulla si sa su eventuali nuovi sviluppi. Ma è un fatto che, a
sette anni dall'uccisione di Cucchi, molte istituzioni e importanti politici di
centro-destra affermano ancora che Stefano si è spento perché drogato, perché
malato, o «perché caduto dalle scale».
Se l'Italia chiede verità per Giulio Regeni, le nostre istituzioni hanno
chiuso per anni gli occhi davanti al decesso di Giuseppe Uva, operaio fermato
dai carabinieri nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008 e morto dopo
poche ore all'ospedale di Varese. Il processo sui presunti responsabili è
ancora in corso, ma lo scorso gennaio il procuratore capo Daniela Borgonovo ha
chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati, sei agenti e due militari
dell’Arma accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità contro
arrestati. «Non ci sono prove di comportamenti illegali», ha detto. «Era un
clochard sporco e puzzolente», ha commentato a marzo l'avvocato della difesa.
Anche Riccardo Magherini e Francesco Mastrogiovanni sono morti mentre erano
affidati allo Stato italiano. Per il primo sono indagati in nove, per omicidio
"colposo", il secondo è deceduto durante un ricovero in un reparto
psichiatrico: il processo è in corte d'appello. Regeni è stato ammazzato in
circostanze violente e misteriose, mentre al G8 di Genova poliziotti e
dirigenti hanno manganellato e torturato alla luce del sole, senza vergogna e
senza paura: i pochi agenti processati hanno avuto pene ridicole, altri
torturatori hanno fatto persino carriera. Il capo della polizia nel 2001 era
Giovanni De Gennaro: Renzi l'ha confermato presidente di Finmeccanica.
«Chi, trovandosi in questo momento in questo Paese, abbia commesso atti di
tortura può, nella grande maggioranza dei casi, dormire sonni tranquilli», ha
detto Antonio Marchesi di Amnesty International venti giorni dopo il
ritrovamento del corpo di Regeni. «Fino a che non ci sarà un reato di tortura,
punito severamente e con un termine di prescrizione lungo, le cose sono
destinate a rimanere così". Non parlava dell'Egitto, ma dell'Italia.
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Disattenzione - Wislawa Szymborska
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.
martedì 12 aprile 2016
finalmente l’Italia ha un presidente - bortocal
e non parlo del fantasma trasparente che sta al
Quirinale.
parlo del Presidente della Corte Costituzionale che,
nel silenzio assordante di quell’inquilino portato lì dal geniale Bersani (che
vittoria!), ha ricordato poche cose essenziali.
che, per prima cosa, la fanno finita col
machiavellismo da strapazzo di coloro che puntano a vincere i referendum non
nel leale confronto delle opinioni, ma alleandosi a coloro che si
disinteressano della vita pubblica.
. . .
è bastato al nostro Presidente Grossi leggere l’art.
48 della Costituzione, ad esempio:
c. 2 Il voto è personale ed eguale, libero e
segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
commento di Grossi:
Partecipare al voto significa essere pienamente
cittadini.
Fa parte della carta d’identità del buon cittadino.
. . .
capito? è un dovere civico votare.
sempre.
la Costituzione non dice che votare ai referendum non
è un dovere civico.
o che si può scegliere a quali consultazioni votare e
a quali no.
. . .
per questo un Presidente del Consiglio che invita il
popolo a NON VOTARE è uno scandalo.
perché` ha giurato fedeltà` alla Costituzione.
e un vero Presidente dovrebbe richiamarlo, se invita
il popolo a non rispettare la Costituzione.
. . .
meno male che, se Mattarella neppure ci pensa,
provvede Grossi.
Al referendum di domenica prossima sulle trivelle
è giusto votare, perché «la partecipazione al voto fa parte della carta
d’identità del buon cittadino». Così ha
risposto il presidente della Corte
costituzionale, Paolo Grossi, durante la conferenza stampa annuale al Palazzo
della Consulta. La domanda riguardava la legittimità degli appelli
astensionisti, che sono giunti nei giorni scorsi anche dal presidente del
Consiglio. Grossi ha dato una risposta che, nella sostanza, non si discosta
affatto da quanto stabilisce la Carta della Repubblica all’articolo 48 secondo
comma: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è
dovere civico». Un dovere di ogni buon cittadino, appunto. Poi, precisa Grossi,
una volta nella cabina elettorale «ognuno è libero di esprimere il proprio
convincimento. Ma credo che al voto si debba partecipare, in quanto il
referendum è per noi, è per ciascuno di noi…
da
quiieri Crozza prendeva in giro Renzi per il non voto al referendum del 17 aprile (qui)
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