Yara
Bakheet, di 4 anni e Aya Abu Mutalq, di 5, sono tra i 20 pazienti morti
quest’anno poiché i loro permessi di uscita non sono arrivati in tempo
A
gennaio la bimba di 4 anni Yara Bakheet si ammalò. Vomitò spesso nel corso di
un’intera settimana e si disidratò, e dopo una serie di esami all’ospedale
europeo di Khan Yunis a Gaza, i medici dissero alla madre, la ventottenne Aisha
Hassouna, che sua figlia soffriva di insufficienza cardiaca.
Le
venne fissato un appuntamento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme est dove,
così dissero alla madre, vi erano i mezzi adeguati per curare sua figlia.
Gli
esami medici, il foglio di appuntamento e l’impegno al pagamento, unitamente
alla richiesta di un permesso per Yara e suo padre di uscire da Gaza, furono
inoltrati all’Amministrazione israeliana di Coordinamento e Collegamento , che
concede i permessi di uscita in base al parere del servizio di sicurezza Shin
Bet.
La
madre ha raccontato ad un ricercatore dell’associazione per i diritti umani
B’Tselem che la prima richiesta venne respinta. Yara mancò l’appuntamento. Ne
fu fissato uno nuovo per il 16 febbraio. La famiglia ripercorse l’intera
trafila burocratica: documenti, copie, appuntamento, impegno di pagamento,
modulo di richiesta ed un viaggio all’ufficio palestinese di collegamento, che
inviò i documenti ai dirigenti e funzionari israeliani.
Questa
volta, per assicurarsi che la domanda di permesso non fosse respinta a causa
dell’identità dell’adulto accompagnatore, fu deciso che l’accompagnatore
sarebbe stata la nonna della mamma, di 72 anni. La domanda venne accettata e le
due persone partirono per Gerusalemme.
La
bisnonna a sua volta soffriva di pressione alta e diabete. Peggio ancora, la
piccola Yara non la conosceva bene e rifiutò il suo aiuto all’ospedale. La
bambina pensò di essere stata abbandonata dai genitori e per tutto il tempo in
cui rimase all’ospedale Al-Makassed, dove le era stato applicato un catetere,
rifiutò di parlare con i genitori al telefono. “Mi sembrava che mi si chiudesse
il cuore per il desiderio di sentire la sua voce”, disse Hassouna, la mamma.
Yara
tornò a casa sciupata e rimase arrabbiata con sua madre che non le era stata
accanto. La sua condizione diventava sempre più evidente quando Lara, la sua
gemella, era nelle vicinanze. Dopo cure e degenze in ospedale nella Striscia di
Gaza, si decise di mandare Yara di nuovo a Al-Makassed. Fu preso un
appuntamento per il 2 giugno ed i documenti e certificati furono nuovamente
inoltrati all’ufficio israeliano di collegamento.
Una
settimana prima dell’appuntamento, la famiglia ricevette sul cellulare un
messaggio che diceva che la richiesta era ancora sotto esame. L’appuntamento fu
perso. Passarono i giorni, la condizione di Yara peggiorò e quando incominciò a
sentire mancanza di fiato e soffocamento, fu portata un’altra volta
all’ospedale europeo. Fu preso un altro appuntamento a Al-Makassed per il 20
luglio, per inserire un pacemaker, che a Gaza non era disponibile. Ma Yara morì
all’ospedale europeo il 13 luglio.
Yara
è una dei 20 pazienti gravemente ammalati che sono morti quest’anno a Gaza
poiché la loro richiesta per un permesso israeliano di uscita per ricevere cure
non è stato concesso in tempo. Un nuovo rapporto di B’Tselem, che sarà
pubblicato questa settimana, si occupa di questo crescente fenomeno di ritardi
ingiustificati nell’emissione di permessi di uscita per cure mediche.
I
pazienti non hanno ricevuto dinieghi ufficiali, ma solo il messaggio “Stiamo
valutando la vostra domanda.” I funzionari israeliani di collegamento inviano
questo messaggio agli impiegati dell’ufficio palestinese di collegamento, che
invia un messaggio alla famiglia, a volte la sera prima dell’appuntamento.
E’
difficile stabilire se e quando una morte sia causata direttamente da un
ritardo nell’emissione di un permesso di uscita per cure mediche. Però è chiaro
che l’indecisione, le aspettative e la delusione, la costante incertezza, la
tensione e la necessità di affrontare l’intera logorante procedura burocratica
nuovamente ogni volta, non sono cose salutari.
Peggioramento
negli ultimi quattro anni.
A
giugno, quando Yara avrebbe dovuto andare a Gerusalemme per farsi inserire un
pacemaker, 1920 pazienti avevano inoltrato richieste per permessi di uscita da
Gaza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che furono approvate 951
richieste, 20 furono respinte (meno dell’1%) e 949 (49,4%) rimasero senza
risposta fino alla data prevista del ricovero in ospedale o della terapia. Di
queste ultime, 222 erano richieste per minori di 18 anni e 113 per persone
ultrasessantenni.
A
settembre, il 42% delle 1858 richieste di permessi per cure mediche rimasero
nel limbo. Di esse, 140 erano per minori di 18 anni e 99 per persone di oltre
60 anni.
E’
stata una chiara tendenza nel corso dello scorso anno, sulla quale il 9
novembre Haaretz ha riferito: le domande di permessi di uscita per qualunque
scopo vengono rinviate senza risposta per settimane e mesi. Nel settembre di
quest’anno il loro numero è arrivato a 16.000.
La
percentuale di richieste inevase per permessi di uscita per cure mediche è
quasi triplicata negli ultimi quattro anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale
della Sanità, citata nel rapporto di B’Tselem, nel 2014 il 15,4% delle
richieste rimasero inevase; nel 2015 la percentuale era del 17,6%. A settembre
2017, vi erano 8555 richieste rimaste inevase, che rappresentano il 43,7% di un
totale di quasi 20.000 richieste.
“Ragioni
di sicurezza” fu la spiegazione per il rigetto del 2,9% delle richieste, mentre
circa il 53% fu approvato. Circa tre quarti delle richieste era per cure
mediche in ospedali palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est.
Lo
Shin Bet ha affermato in risposta: “L’anno scorso abbiamo visto un aumento
della pratica attraverso cui le organizzazioni terroriste, capeggiate da Hamas,
sfruttano l’uscita degli abitanti di Gaza (anche per motivi medici) per
promuovere attività terroristiche, incluso il trasferimento di esplosivi e di
denaro per i terroristi e altri mezzi di favoreggiamento.
“Lo
scorso aprile, due palestinesi a cui era stato consentito di entrare in Israele
perché uno di loro potesse ricevere cure per il cancro, sono stati fermati al
valico di Erez. Nel loro bagaglio sono state trovate provette per uso medico,
all’interno delle quali era stato nascosto esplosivo che era evidentemente
destinato ad un attacco di Hamas in Israele.
“Dato
il grave pericolo costituito da queste attività, vengono effettuati rigidi
controlli di sicurezza su chiunque faccia richiesta di uscire da Gaza.
Ovviamente questi controlli prendono del tempo e si fanno costanti sforzi per
ridurre questi tempi e dare priorità alle procedure per tutte le richieste, con
particolare attenzione a quelle di carattere umanitario inoltrate da chi
intende entrare in Israele per ricevere cure mediche salva-vita.”
Circa
il 20% delle richieste rimaste inevase nel 2017 si riferivano a bambini e
adolescenti minori di 18 anni e circa l’8% (725) a persone di oltre 60 anni.
Una
di queste ultime è Fatma Biyoumi, di 67 anni, che soffre di una grave patologia
al sangue. Dopo esami e terapie a Gaza, le hanno fissato appuntamenti per il 24
ottobre e il 4 novembre all’ospedale An-Najah di Nablus. Non avendo ricevuto
risposte, ha mancato gli appuntamenti. E’ stato fissato un altro appuntamento,
questa volta per un giorno di agosto all’ospedale Augusta Victoria di
Gerusalemme, e la risposta è rimasta “in fase di valutazione”, benché
l’associazione non profit israeliana “Medici per i diritti umani” l’avesse
assistita nelle sue richieste per un permesso di uscita.
Un
altro appuntamento è stato fissato per il 17 dicembre, e Biyoumi e la sua famiglia
vivono in una situazione di continua attesa: la richiesta verrà accettata,
oppure verrà approvata all’ultimo istante, in modo da aumentare l’incertezza, e
ci sarà abbastanza tempo per organizzarsi?
Nella
sua dichiarazione ad Haaretz di giovedì, lo Shin Bet ha detto che Biyoumi “è
stata convocata per essere interrogata, dopodiché sarà possibile concludere la
procedura per la sua valutazione di sicurezza.” Ci risulta che Biyouni sia
stata interrogata dallo Shin Bet al valico di Erez mercoledì.
Huwaida,
di 48 anni, malata di tumore al sangue, ha un appuntamento per il 6 dicembre,
dopo aver ricevuto la risposta “in corso di valutazione” a tutte le sue
precedenti richieste: per terapie il 13 agosto, l’11 settembre, il 24
settembre, il 9 ottobre, il 29 ottobre, l’8 novembre e il 22 novembre. Anche
lei è stata aiutata da “Medici per i diritti umani” e anche lei sta vivendo in
ansia per il timore di un’altra delusione.
Lo
Shin Bet ha detto ad Haaretz che “dopo che è stata interrogata ed il suo caso
esaminato, è stata inviata una risposta all’ufficio di collegamento che dice
che non vi sono ostacoli legati alla sicurezza per l’approvazione della sua
richiesta.”
Delusione
il giorno prima
Aya
Abu Mutlaq aveva 5 anni quando è morta. Soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale
ed era curata a Gaza. Nell’ottobre 2016 si decise di mandarla a farsi curare
all’ospedale Al-Makassed. Fu inoltrata richiesta per un permesso per lei e suo
padre, perché sua madre aveva partorito solo due mesi prima. L’appuntamento era
per il 4 febbraio e il 3 febbraio la famiglia ricevette un messaggio che diceva
che la richiesta era ancora in fase di valutazione. L’appuntamento fu rinviato
al 16 marzo. Di nuovo, un giorno prima dell’appuntamento, arrivò un messaggio
che diceva che gli israeliani stavano ancora valutando la richiesta.
La
condizione della bambina peggiorò. Venne fissato un nuovo appuntamento per il
27 aprile, ma lei morì il 17 aprile. Suo padre era uscito tre volte da Gaza in
passato, per Ramallah e Gerusalemme – per essere curato ad un problema al
ginocchio. Non riusciva a capire perché all’improvviso, quando sua figlia aveva
avuto bisogno che lui la accompagnasse, la richiesta sia stata rinviata finché
lei morì.
Secondo
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa la metà delle persone che fanno
richiesta di accompagnare pazienti non ottengono i permessi di uscita – cosa
che spesso rimanda le cure al paziente. In base a nuove procedure presso il
Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [occupati], il tempo
richiesto dall’ufficio di collegamento per occuparsi delle domande di permessi
di uscita è aumentato significativamente – fino a 70 giorni, esclusi i weekend
e le festività ebraiche. Per le situazioni sanitarie (ma non quelle di vita o
morte) il tempo massimo previsto è di 23 giorni.
Un
attento monitoraggio di “Medici per i diritti umani” dei casi di nove pazienti
donne affette da tumore dimostra che l’ufficio di collegamento non rispetta i
limiti di tempo stabiliti. Negli ultimi mesi, otto delle nove donne non si sono
presentate agli appuntamenti per le terapie mediche perché le loro richieste di
permesso erano “in fase di valutazione”.
Ma,
secondo lo Shin Bet, “un esame dei casi citati nell’inchiesta di Haaretz” – che
si è occupata di 11 pazienti morti e di parecchi altri che hanno atteso
l’approvazione della richiesta per diversi mesi – “ ha rivelato che la maggior
parte delle loro richieste di ingresso in Israele è stata approvata, ed alcuni
hanno già usufruito dei loro permessi per entrare in Israele e ricevere cure
mediche.”
Il
29 novembre Ghada Majadala e Mor Efrat, dell’organizzazione israeliana di
medici, hanno inviato una lettera urgente al Generalmaggiore Yoav Mordechai,
capo del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (occupati), ed
a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Sanità
(israeliano). Nel documento, che si incentra sulle nove donne affette da
tumore, Majadala ed Efrat hanno sottolineato che le cure oncologiche
disponibili a Gaza non sono adeguate.
Negli
ultimi mesi si è verificato un calo nello stock di farmaci utilizzati insieme
alla chemioterapia, hanno scritto, ed è difficile operare per asportare i
tumori per la carenza di carburante e di elettricità. Inoltre a Gaza non
esistono trattamenti di radioterapia o con iodio radioattivo, né esiste
l’attrezzatura per seguire l’andamento della malattia. In più, sia la lettera
di Majadala ed Efrat, sia il rapporto di B’Tselem affermano che l’Autorità
Nazionale Palestinese sta attualmente conducendo una politica di riduzione del
numero di pazienti mandati a curarsi fuori Gaza.
Nella
loro lettera, di cui è stata mandata copia all’Associazione Medici Israeliani e
al Comitato etico degli infermieri, Majadala ed Efrat hanno scritto che le
attese provocano non solo sofferenza, ma anche esaurimento per le battaglie
burocratiche. “ Una mancata risposta impedisce ai pazienti di far valere il
proprio diritto ad appellarsi contro il rifiuto, se esso venisse comunicato”,
hanno scritto. “Non dare risposte per mesi dimostra una politica di disprezzo
per la sofferenza dei pazienti.”
(Traduzione
di Cristiana Cavagna)
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