No, non ci stanno invadendo: l’Italia resta una delle destinazioni meno
ambite. Non ci rubano ricchezza: con la differenza tra contributi versati e
percepiti si pagano le pensioni di 600mila italiani. E siccome siamo un Paese
sempre più anziano, per salvare il nostro welfare ne servirebbero di più
«Sono un rifugiato, ma non l’ho scelto io. Preferirei stare nel mio Paese».
Aweis è nato in Somalia, da qualche anno vive a Roma. In Africa era una giovane
promessa del calcio, aveva una vita da privilegiato. «Stavo bene, con la mia
famiglia e i miei amici. Giocavo a pallone ed ero proprietario di alcuni negozi
di musica. Un’esistenza migliore di quella che ho oggi in Italia». Poi è dovuto fuggire. Un giorno in Somalia è
arrivato Al Shabaab, un gruppo terroristico di matrice islamica. «Sono come
l’Isis», racconta Aweis. «Hanno vietato il calcio e non hanno più permesso di
ascoltare musica. Volevano che lavorassi con loro, ma mi sono rifiutato. E così
hanno deciso di uccidermi». Una mattina un commando di una decina di persone si
presenta casa sua, lo cercano. Per fortuna Aweis è fuori. Si limitano devastare
il suo appartamento. «Mi madre mi ha chiamato e mi
ha detto: “figlio mio, non tornare più a casa”». La lunga
odissea del ragazzo inizia in questo momento. Prima si nasconde in un villaggio
somalo, poi prova a rifugiarsi in Kenya. Qui rimane tre mesi, ma senza lavoro
né documenti è costretto a scappare ancora. Prova in Uganda, poi in Sudan,
ovunque gli stessi problemi. Alla fine, per disperazione, cerca la strada
dell’Europa. La rotta verso nord lo porta in Libia, dove il suo dramma si
trasforma in un incubo. «Sono quasi morto, non basterebbe un giorno per
raccontare quello che ho vissuto». Dopo alcuni mesi
trattenuto dai libici, il viaggio nel Mediterraneo diventa l’unica salvezza. I
soldi per salire sul gommone, le incognite della traversata. «C’erano
uomini, donne, anche un bambino. Eravamo tutti pronti a rischiare la vita. Non
avevamo scelta: attraversando il mare in quelle condizioni sapevamo che
probabilmente non ce l’avremmo fatta, ma rimanendo in Libia avevamo la certezza
di morire». L’arrivo in Europa, la fuga in Olanda. Arrestato come clandestino
Aweis viene riportato a Roma. «Oggi ho trovato un lavoro - racconta - dormo a
casa mia, pago l’affitto. Ho degli amici, sto bene, ma vorrei riabbracciare la
mia famiglia». Il giovane somalo parla piano, scandisce le parole. «Lo so che
siamo ospiti nel vostro Paese - continua - A volte diamo fastidio, l'Italia ha
già i suoi problemi. Ma sono qui solo perché sono obbligato, se dipendesse da
me sarei già tornato in Patria».
È una storia sorprendente, lontana mille miglia da troppi stereotipi. Aweis
è stato chiamato a raccontare la sua vicenda anche per questo. Un incontro organizzato a Roma da alcune associazioni per
riflettere sul fenomeno migratorio da una diversa prospettiva. C’è la
fondazione Italianieuropei e l’associazione romana di studi e solidarietà. Si
ragiona sui problemi, ma anche sui vantaggi economici e sociali portati
all’Italia dai migranti. La serata ha un titolo paradossale: “E se davvero tornassero tutti a casa loro?”. «È una
provocazione ed è un bene che rimanga tale» sorride Padre Giovanni La Manna,
alla guida dell’associazione Elpis e già presidente del centro Astalli. «Sulle
migrazioni vale la pena riflettere, conoscere a fondo di cosa si sta
parlando». La percezione degli italiani è spesso
sbagliata, quasi sempre c’è poca consapevolezza dell’argomento.
La realtà rischia di essere molto diversa da come viene rappresentata. «Forse
perché in Italia si parla tanto dei migranti - spiega Leonardo Becchetti,
docente di Economia politica all'università di Roma Tor Vergata - ma non parlano
mai i migranti». Questioni economiche e sociali lasciano spazio a una verità
sorprendente: «In Italia avremmo bisogno di molti più migranti di quelli che
già ci sono». L’immagine distorta del fenomeno viene corretta da alcuni
dati. Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Non è proprio così. Anche
perché con i 5 miliardi di differenza tra i contributi versati e percepiti dai
migranti regolari, l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. E allora perché
vengono tutti nel nostro Paese? Ecco un’altra inesattezza. Il fenomeno
migratorio è molto ridotto rispetto alla percezione che abbiamo. Secondo
l’Unhcr, dal 2008 al 2015 sono arrivati in Europa, via mare, 875mila migranti.
Sono lo 0,17 per cento della popolazione europea. Senza considerare, racconta
Becchetti, che l’Italia è una delle ultime mete scelte da chi scappa. Per i
profughi siriani, ad esempio, rappresenta solo la quindicesima destinazione.
Nessuna invasione, insomma. Del resto tra i dieci paesi con più profughi,
l’unica realtà europea è Malta. Ai primi posti ci sono Libano, Giordania e
diversi paesi africani.
Soprattutto, non c’è alcuna catastrofe demografica in
vista. Il nostro è un Paese in declino. Nel 2015 il saldo
negativo tra nati e morti ha portato alla scomparsa di 140mila italiani. Eppure
questo dato non è stato neppure lontanamente riequilibrato dall’arrivo di
immigrati (nonostante il 2015 sia stato uno degli anni in cui si sono
registrati più sbarchi sulle nostre coste). Il professor Alessandro Rosina è
docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano. Dati alla mano, anche
lui inquadra alcune verità poco conosciute sulle migrazioni. Anzitutto è
necessario avere un’idea globale del fenomeno. Negli ultimi anni il trend sta
rallentando, eppure la popolazione mondiale continua a crescere. Su questo
pianeta non siamo mai stati così numerosi. Eravamo 1,6 miliardi di persone
all’inizio del secolo scorso, agli inizi del 2000 siamo arrivati a 6,1
miliardi. A metà del nostro secolo arriveremo a 9,5 miliardi. Intanto la
popolazione invecchia. Nel mondo non ci sono mai stati
così tanti anziani. Né si è mai registrato un numero così alto di stranieri: ormai
250 milioni di persone vivono in un’area diversa dal proprio paese d’origine.
Eppure, ecco la sorpresa, non è l’Africa il continente con maggiore mobilità
internazionale, ma l’Asia. Del resto i flussi migratori, contrariamente a
quanto si crede, nella maggior parte dei casi non partono dai paesi più poveri,
ma da quelli con un certo grado di sviluppo economico e sociale. Senza
considerare che spesso si consumano all’interno degli stessi territori.
All'interno
del quadro globale di trasformazioni c’è l’Italia. Uno dei paesi più anziani
del mondo, dove la denatalità sta raggiungendo livelli sempre più preoccupanti.
«Siamo in una fase di riduzione demografica - spiega Rosina - Un declino,
nonostante l’afflusso dell’immigrazione». Le prospettive a breve termine sono
inquietanti. Mentre continua ad aumentare la popolazione anziana inattiva, da
qui al 2031 perderemo 1,4 milioni di giovani under35. Ma anche 4,2 milioni di
persone tra i 25 e i 54 anni. Forza lavoro che scompare, rendendo sempre più
insostenibile il nostro welfare: dalle pensioni alla sanità pubblica. «Ormai -
insiste Rosina - siamo davanti a squilibri demografici che faremo fatica a gestire
e metteranno in crisi la capacità di crescere del nostro Paese». E allora, che fare? Ancora una volta diventa necessario affrontare
il fenomeno con realismo. Chiudere le frontiere non è una
soluzione praticabile, porterebbe a un sicuro declino economico e demografico.
Ma anche accogliere tutti i migranti che chiedono di entrare in Italia è
impossibile. Le disuguaglianze e le tensioni sociali derivate sarebbero
insostenibili, portando a un’uguale situazione di declino. Ecco allora una
terza strada. «Capire e gestire il fenomeno» spiega Rosina. L’accoglienza è
necessaria, ma deve avere un limite nella capacità di integrazione. «Se
vogliamo continuare a crescere, l’unica soluzione è questa».
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