Nessun conflitto della storia recente insegna meglio di quello tra israeliani e palestinesi quanto il linguaggio sia importante. Lo ricorda, in questa importante intervista, rilasciata in occasione dell’uscita del suo nuovo imperdibile libro, The Biggest Prison on Earth: A History of the Occupied Territories, Ilan Pappe, il più rigoroso storico israeliano della madre di tutte le guerre mediorientali. Il modo in cui si definisce una situazione, spiega, incide sulla possibilità di cambiarla. Per questo non gli piace parlare di “occupazione dei territori”, parola che contiene un’idea di falsa provvisorietà, preferisce utilizzare i concetti di colonialismo, pulizia etnica e regime di apartheid. Ne deriva che non un’ipotetica quanto illusoria fine dell’occupazione ma una vera de-colonizzazione è la sola possibile soluzione di una tragedia che sembra infinita, segnata com’è da decenni da un ipocrita e surreale “processo di pace” che non è mai cominciato ma permette ad Israele di moltiplicare il territorio colonizzato con la complicità delle istituzioni internazionali e dei governi formalmente neutrali. Intanto, però, ignorata dai grandi media, attenti solo a raccontare le azioni “diplomatiche” dei poteri istituiti, la resistenza palestinese dal basso è ancora viva
La guerra
dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi ha portato
all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Israele ha
spacciato la storia di questa guerra come se fosse stata accidentale. Ma nuovi documenti storici e verbali
d’archivio dimostrano che Israele l’aspettava da tempo.
Nel 1963
elementi dell’amministrazione militare, legale e civile israeliana
frequentarono un corso presso l’università ebraica di Gerusalemme per stendere
un piano complessivo per gestire i territori che Israele avrebbe occupato
quattro anni dopo e per controllare un milione e mezzo di palestinesi che ci
vivevano.
La ragione
stava nella fallimentare gestione israeliana dei palestinesi a Gaza durante la
breve occupazione nel periodo della crisi di Suez del 1956 [in cui l’esercito
israeliano, affiancando inglesi e francesi, combatté contro l’Egitto di Nasser,
che aveva nazionalizzato il canale, ndt.].
Nel maggio
1967, settimane prima della guerra, i governatori militari israeliani
ricevettero istruzioni legali e militari su come controllare le città ed i
villaggi palestinesi. Israele
avrebbe proceduto a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni
sotto governo e controllo militare.
Insediamenti,
posti di blocco e punizioni collettive fecero parte di questo piano, come
dimostra lo storico israeliano Ilan Pappe in “The biggest prison on earth: a
history of the occupied territories” (“La più
grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati”), una
descrizione in profondità dell’occupazione israeliana.
Pubblicato
nel cinquantesimo anniversario della guerra del 1967, il libro è stato
selezionato per il “Palestine Book Award 2017”, organizzato da Middle East
Monitor e proclamato a Londra. il 24 novembre Pappe ha parlato con Middle East
Eye del libro e di ciò che esso rivela.
Middle East Eye: Quanto questo libro si basa sul suo
saggio precedente, “The ethnic cleansing
of Palestine” (“La pulizia etnica in Palestina”) sulla guerra del 1948?
Ilan Pappe: È decisamente un proseguimento del mio precedente
libro “The ethnic cleansing”, che descrive gli eventi del
1948. Io vedo l’intero progetto sionista come uno
schema, non solo come un singolo evento. Una struttura di colonialismo
di insediamento attraverso cui un movimento di coloni si insedia in una
nazione. Fin quando la colonizzazione non è
completa e la popolazione indigena resiste con un movimento di liberazione
nazionale, ognuno dei periodi di cui mi occupo non è che una fase all’interno
della stessa struttura.
Benché “La più grande prigione” sia un libro di storia, siamo
tuttora all’interno dello stesso capitolo storico. Quindi a questo riguardo
probabilmente ci sarà in seguito un terzo libro che tratterà degli eventi del
XXI secolo, di come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione
viene attuata nella nuova era e di come i palestinesi vi resistono.
MEE: Lei parla della pulizia etnica che ebbe luogo
nel giugno 1967. Che cosa accadde allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza? In che modo essa si differenziò dalla pulizia etnica della
guerra del 1948?
I.P. Nel 1948 c’era un piano molto chiaro per
cercare di espellere quanti più palestinesi possibile dalla maggior parte
possibile della Palestina. Il progetto colonialista di insediamento credeva di avere la forza di
creare uno spazio ebraico in Palestina che fosse totalmente privo di
palestinesi. Non ha funzionato così bene, ma è stato quasi
vincente, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di
quello che diventò lo Stato di Israele divennero rifugiati.
Come
dimostro nel libro, vi erano alcuni politici israeliani che pensavano che fosse
possibile fare nel 1967 ciò che era stato fatto nel 1948. Ma la grande
maggioranza di loro comprese che la guerra del 1967 fu molto breve, durò sei
giorni, e c’era già la televisione e parecchi di coloro che volevano espellere
erano già dei rifugiati del 1948.
Quindi io
penso che la strategia non fu di compiere una pulizia etnica nello stesso modo
in cui fu condotta nel 1948. Fu ciò che chiamerei una pulizia etnica progressiva. In alcuni
casi espulsero masse di persone da certe zone quali Gerico, la Città Vecchia di
Gerusalemme e i dintorni di Qalqilya. Ma nella
maggior parte dei casi decisero che un governo militare ed un blocco che
rinchiudesse i palestinesi all’interno delle proprie aree sarebbe stato tanto
vantaggioso quanto espellerli.
Dal 1967
fino ad oggi c’è stata una pulizia etnica molto lenta, che probabilmente copre
un periodo di 50 anni ed è così lenta che a volte può colpire una sola persona
in un giorno. Ma se si guarda l’intero panorama dal 1967 ad oggi, stiamo
parlando di centinaia di migliaia di palestinesi che non hanno il permesso di
tornare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.
MEE: Lei distingue tra due modelli militari
utilizzati da Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il
modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce
questi due modelli? E si tratta di termini militari?
IP: Uso questi termini come metafora per spiegare i due modelli che Israele offre ai
palestinesi nei territori occupati. Insisto ad usarli perché ritengo che la
soluzione dei due Stati sia in realtà il modello di prigione aperta.
Gli israeliani controllano i territori occupati
direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare all’interno delle
città e dei villaggi palestinesi con alta densità di popolazione. Hanno separato la Striscia di Gaza
[dalla Cisgiordania, ndt.] nel 2005 e stanno ancora suddividendo la
Cisgiordania in parti. Esistono una Cisgiordania ebrea ed una Cisgiordania
palestinese, che non è più una zona dotata di contiguità territoriale.
A Gaza gli
israeliani sono i guardiani che tengono chiusi i palestinesi dal mondo esterno,
ma non interferiscono con ciò che essi fanno all’interno.
La
Cisgiordania è come una prigione a cielo aperto in cui si mandano piccoli
criminali a cui si consente più tempo per uscire e lavorare all’esterno. E non
c’è un regime duro all’interno, ma è sempre una prigione. Persino il presidente
Mahmoud Abbas, se si sposta dall’area B [sotto controllo amministrativo
dell’ANP e controllo militare israeliano, ndt.] all’area C [sotto totale
controllo israeliano, ndt.], ha bisogno che gli israeliani gli aprano il
cancello. E secondo me è
veramente emblematico il fatto che il presidente non possa spostarsi senza che
il carceriere israeliano apra la gabbia.
Ovviamente
c’è una continua reazione palestinese a tutto questo. I palestinesi non
rimangono passivi e non lo accettano. Abbiamo
assistito alla Prima e alla Seconda Intifada, e forse ne vedremo una terza. Gli
israeliani dicono ai palestinesi, secondo una mentalità da gestione carceraria,
‘se voi resistete noi vi toglieremo tutti i vostri privilegi, come facciamo in
carcere. Non potrete lavorare all’esterno. Non potrete muovervi liberamente e
subirete punizioni collettive.’ E’ questo il genere di versione repressiva, la
punizione collettiva come rappresaglia.
MEE: La comunità internazionale condanna timidamente
la costruzione o l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati.
Non considera questo come elemento centrale del sistema coloniale israeliano,
come lei descrive nel suo libro. Come hanno avuto inizio le colonie israeliane
e questo è avvenuto su basi razionali o religiose?
IP: Dopo il 1967 c’erano due mappe di insediamenti o colonizzazione.
C’era una mappa strategica ideata dalla sinistra israeliana. Il padre di questa
mappa fu il defunto Yigal Allon, il grande stratega, che lavorò con Moshe Dayan
nel 1967 al piano per controllare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Si
basavano su un principio strategico, non troppo ideologico, benché ritenessero
che la Cisgiordania appartenesse ad Israele.
Erano più
interessati ad assicurare che gli ebrei non si insediassero in zone arabe
densamente popolate. Dicevano che dovunque
i palestinesi non vivessero in forti concentrazioni, là noi potevamo insediarci.
Quindi iniziarono con la Valle del Giordano, poiché là vi erano piccoli
villaggi, ma non c’era una densità di popolazione come in altre aree.
Il problema per loro fu che, nello stesso momento in
cui elaboravano la loro mappa strategica, emerse un nuovo movimento religioso
messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionalista di ebrei che
rifiutavano di insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi
secondo la mappa biblica. La loro idea era che la Bibbia è un testo che dice
esattamente dove si trovano le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa
prevedesse che gli ebrei dovessero insediarsi nel centro di Nablus, Hebron e
Betlemme, nel bel mezzo delle aree palestinesi.
Inizialmente
il governo israeliano cercò di controllare questo movimento biblico in modo che
gli insediamenti si facessero in modo più strategico. Ma parecchi giornalisti israeliani hanno
rivelato che Shimon Peres, ministro della Difesa nei primi anni ’70, decise di
consentire gli insediamenti biblici. I palestinesi della Cisgiordania furono
sottoposti a due piani di colonizzazione, quello strategico e quello biblico.
La comunità
internazionale sa che secondo il diritto internazionale non conta che le colonie
siano strategiche o bibliche, sono tutte illegali.
Ma
purtroppo dal 1967 la comunità internazionale ha
accettato la formula israeliana, che recita: “Le colonie sono illegali, ma sono
provvisorie, una volta che vi sia la pace noi garantiremo che tutto sia legale.
Ma finché non vi è pace noi abbiamo bisogno delle colonie poiché siamo ancora
in guerra con i palestinesi.”
MEE: Lei sostiene che ‘occupazione’ non è il termine
adeguato per descrivere la realtà in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza.
E in un dialogo con Noam Chomsky, ‘On Palestine’, lei critica il termine
‘processo di pace’. Questo è discutibile. Perché questi termini non sono
adeguati?
IP: Penso che il linguaggio sia molto
importante. Il modo in cui si definisce una situazione incide sulla possibilità
di cambiarla.
Abbiamo descritto la situazione in Cisgiordania,
nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele con un vocabolario e dei termini
errati. Occupazione significa sempre una situazione temporanea.
La soluzione
per l’occupazione è la fine dell’occupazione, il ritiro dell’esercito invasore
a casa sua, ma non è questa la situazione né in Cisgiordania né nella Striscia
di Gaza. Questa è colonizzazione, ritengo, benché suoni come un termine
anacronistico nel XXI secolo, penso che dovremmo
comprendere che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha iniziato a
colonizzarla alla fine del XIX secolo e continua ancora oggi.
C’è un regime di insediamento coloniale che
controlla l’intera Palestina in modi differenti. Nella Striscia di Gaza il
controllo è dall’esterno. In Cisgiordania il controllo è differenziato nelle
aree A, B e C. Esistono
politiche differenti verso i palestinesi nei campi profughi, dove ai rifugiati
non è permesso di ritornare a casa. Non permettere alle persone espulse di
ritornare è un altro modo di mantenere la colonizzazione. È sempre parte della
stessa ideologia.
Perciò penso che i termini ‘processo di pace’ e
‘occupazione’, quando vengono usati insieme, creino la falsa impressione che
tutto ciò che serve è che l’esercito israeliano esca dalla Cisgiordania e dalla
Striscia di Gaza e che vi sia una pace tra Israele e la futura Palestina.
Ora,
l’esercito israeliano non è presente nella Striscia di Gaza né nell’area A. Lo
è anche poco nell’area B, dove non ha bisogno di esserci. Ma non c’è pace. C’è
una situazione che è molto peggiore di quella precedente agli accordi di Oslo
del 1993.
Il
cosiddetto processo di pace ha consentito ad Israele di aumentare le colonie,
ma questa volta con il sostegno internazionale. Quindi suggerisco di parlare di
decolonizzazione, non di pace. Suggerisco di parlare di cambiare il regime
giuridico che governa la vita degli israeliani e dei palestinesi.
Penso che dovremmo parlare di uno Stato di
apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo scoprire che cosa
sostituisce l’apartheid. Ed abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo
per sostituire l’apartheid è un sistema democratico. Una persona, un voto, o
almeno uno Stato bi-nazionale. Penso che sia questo il tipo di terminologia che
dovremmo incominciare ad usare, perché se continuiamo ad usare le vecchie
parole continueremo a sprecare tempo e sforzi e non cambieremo la realtà sul
terreno.
MEE: Cosa riserva il futuro al governo militare
israeliano sui palestinesi? Assisteremo ad un movimento di disobbedienza civile
come quello di luglio a Gerusalemme?
IP: Penso che vedremo
disobbedienza civile non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi
i palestinesi all’interno di Israele. La società non accetterà per sempre
questa realtà. Non so quali mezzi utilizzerà. Possiamo vedere che cosa succede
quando non c’è una chiara strategia dall’alto e gli individui decidono di fare
la propria guerra di liberazione.
C’è stato
qualcosa di veramente impressionante nel caso di Gerusalemme, quando nessuno
credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a
ritirare le misure di sicurezza imposte ad Haram al-Sharif [si riferisce all’imposizione di metal detector sulla Spianata
delle Moschee, terzo luogo sacro dell’Islam, che comprende la moschea di Al
Aqsa e la Cupola della Roccia, ndt.]. Penso che possa essere questo
il modello. Una resistenza popolare per il futuro
che non si limiti ad un solo luogo, ma avvenga in luoghi differenti.
La resistenza popolare continua senza sosta in
Palestina. I media non ne danno notizia. Ma ogni giorno il popolo protesta
contro il muro dell’apartheid, contro l’esproprio delle terre, le persone fanno
lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza
palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto resta in sospeso.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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