uno di quei libri nei quali lasciarsi portare dall'autrice.
la protagonista è un'esule a Ginevra, lontano da casa.
è una donna indipendente, forte, ma non sempre regge le difficoltà della vita, ha perso un occhio, la vecchia vita di Istanbul non viene mai dimenticata.
essere esule, migrante, donna la isolano sempre in fondo alla società, e serve una forza interiore enorme per resistere e andare avanti.
per la protagonista forza e resistenza sono la scrittura, i ricordi, che sono tanti, le speranze, sempre poche.
vuoiti bene, cogli questo mandarino dolce e aspro che regala Aslı Erdoğan.
ps1: in Turchia la galera ha accolto Asli, segno che le sue parole non sono innocue.
ps2: penso che questo libro sarebbe piaciuto a Julio Cortázar
la protagonista è un'esule a Ginevra, lontano da casa.
è una donna indipendente, forte, ma non sempre regge le difficoltà della vita, ha perso un occhio, la vecchia vita di Istanbul non viene mai dimenticata.
essere esule, migrante, donna la isolano sempre in fondo alla società, e serve una forza interiore enorme per resistere e andare avanti.
per la protagonista forza e resistenza sono la scrittura, i ricordi, che sono tanti, le speranze, sempre poche.
vuoiti bene, cogli questo mandarino dolce e aspro che regala Aslı Erdoğan.
ps1: in Turchia la galera ha accolto Asli, segno che le sue parole non sono innocue.
ps2: penso che questo libro sarebbe piaciuto a Julio Cortázar
Estratto (pp. 13-14)
Da bambina – in realtà è comico sentirlo, ma anch’io un
tempo sono stata una bambina – mi domandavo se il mondo
apparisse diverso agli occhi castani. I miei occhi sono
blu-grigi, piuttosto grigi che blu. Gli eroi dei best seller
d’amore e di spionaggio, dallo sguardo duro e penetrante,
“che sanno dominarsi”, hanno gli occhi grigi in ogni caso.
Statisticamente parlando, anche nei romanzi polizieschi si
può forse considerare che gli assassini abbiano in maggioranza
gli occhi grigi; il grigio è presentato come il colore
del sospetto, del mistero, di un cervello dal pensiero incessantemente
mortale. Ormai sono cresciuta abbastanza,
almeno da sapere che se vedo il mondo diversamente dagli
altri, il motivo non sta nel colore degli occhi. Crescendo si
sono trasformati da blu a grigio. Bambina dagli occhi blu,
ora una donna dagli occhi di fumo; come quelli degli eroi
dei romanzi gialli, soprattutto occhi pieni di dubbio.
C’è un altro punto a proposito della mia infanzia che
è necessario sottolineare apertamente; ovvero, che già a
quell’età mi portavo dietro un barlume di follia. Non sono
di quelli che non sopportando le disillusioni del nostro
vecchio mondo fertile e complesso si rifugiano nella consolazione
durevole dei tormenti della follia, insomma di
quelli che diventano folli dopo. La mia follia non potendo
essere inserita in categorie di tipo oggettivo o scientifico,
non è classificabile. I pazzi aristocratici, prima di vendere
la propria follia, fanno ricerche di mercato e di immagine,
impazziscono a forza, considerando la follia una condizione
essenziale per la creazione… Per quanto mi riguarda, sono
tra coloro che non hanno avuto il coraggio di attraversare
un campo minato, pur girandoci intorno ogni tanto.
La follia non è una storia che racconterò. Non è neanche una storia.
Ormai non sono più una bambina, ma non ho ancora
imparato come gli occhi degli altri guardino il mondo. Se
non che l’occhio destro, l’occhio sano, rispetto ad altri occhi
che non hanno perduto il loro pari, è molto più sapiente,
espressivo quantomeno, come un vecchio fucile esperto.
Si potrebbe persino dire che sia troppo sapiente, si appropria
della realtà dell’altro occhio – che è, con un calcolo
superficiale, la metà del reale.
“Edipo re aveva un occhio di troppo”. Così pare abbia
detto Hölderlin quando era ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Negli ultimi mesi la domanda che mi assilla la
mente è questa: Edipo aveva un occhio di troppo, prima
o dopo che gli venisse trafitto? Non posso commentare
questa misteriosa, eccezionale frase di Hölderlin, certo,
ma posso riconoscere che il mio occhio perduto, l’occhio
sinistro, ha risolto l’indovinello senza l’aiuto dei miti, della
memoria o dell’intelligenza, ha scoperto il segreto da solo.
“L’amore ha un occhio di troppo” dice il Mahâbhârata.
“L’amore ha un occhio di troppo”.
tempo sono stata una bambina – mi domandavo se il mondo
apparisse diverso agli occhi castani. I miei occhi sono
blu-grigi, piuttosto grigi che blu. Gli eroi dei best seller
d’amore e di spionaggio, dallo sguardo duro e penetrante,
“che sanno dominarsi”, hanno gli occhi grigi in ogni caso.
Statisticamente parlando, anche nei romanzi polizieschi si
può forse considerare che gli assassini abbiano in maggioranza
gli occhi grigi; il grigio è presentato come il colore
del sospetto, del mistero, di un cervello dal pensiero incessantemente
mortale. Ormai sono cresciuta abbastanza,
almeno da sapere che se vedo il mondo diversamente dagli
altri, il motivo non sta nel colore degli occhi. Crescendo si
sono trasformati da blu a grigio. Bambina dagli occhi blu,
ora una donna dagli occhi di fumo; come quelli degli eroi
dei romanzi gialli, soprattutto occhi pieni di dubbio.
C’è un altro punto a proposito della mia infanzia che
è necessario sottolineare apertamente; ovvero, che già a
quell’età mi portavo dietro un barlume di follia. Non sono
di quelli che non sopportando le disillusioni del nostro
vecchio mondo fertile e complesso si rifugiano nella consolazione
durevole dei tormenti della follia, insomma di
quelli che diventano folli dopo. La mia follia non potendo
essere inserita in categorie di tipo oggettivo o scientifico,
non è classificabile. I pazzi aristocratici, prima di vendere
la propria follia, fanno ricerche di mercato e di immagine,
impazziscono a forza, considerando la follia una condizione
essenziale per la creazione… Per quanto mi riguarda, sono
tra coloro che non hanno avuto il coraggio di attraversare
un campo minato, pur girandoci intorno ogni tanto.
La follia non è una storia che racconterò. Non è neanche una storia.
Ormai non sono più una bambina, ma non ho ancora
imparato come gli occhi degli altri guardino il mondo. Se
non che l’occhio destro, l’occhio sano, rispetto ad altri occhi
che non hanno perduto il loro pari, è molto più sapiente,
espressivo quantomeno, come un vecchio fucile esperto.
Si potrebbe persino dire che sia troppo sapiente, si appropria
della realtà dell’altro occhio – che è, con un calcolo
superficiale, la metà del reale.
“Edipo re aveva un occhio di troppo”. Così pare abbia
detto Hölderlin quando era ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Negli ultimi mesi la domanda che mi assilla la
mente è questa: Edipo aveva un occhio di troppo, prima
o dopo che gli venisse trafitto? Non posso commentare
questa misteriosa, eccezionale frase di Hölderlin, certo,
ma posso riconoscere che il mio occhio perduto, l’occhio
sinistro, ha risolto l’indovinello senza l’aiuto dei miti, della
memoria o dell’intelligenza, ha scoperto il segreto da solo.
“L’amore ha un occhio di troppo” dice il Mahâbhârata.
“L’amore ha un occhio di troppo”.
(Riproduzione riservata)
…L’autrice Asli Erdoğan racconta
l’anelito alla libertà e alla conoscenza di sé della protagonista indugiando
sui punti più oscuri: il divorante senso di solitudine, i soffocanti confini
interiori, l’aspra precarietà dei contatti con il prossimo (anche i più
passionali, come la relazione con Sergio) sembrano nemici in costante agguato
in un luogo estraneo (la Svizzera); ma forse sono solo spettri, atti a
ricordarle che ogni neutralità è illusoria, e che la migrazione costante è
forse lo stato più alto, più esatto del vivere umano.
Ed è fortissima la sensazione che lo
sforzo di raggiungere un’indipendenza che coincida con la conoscenza di sé e
del mondo non solo valga la pena, ma che addirittura sia la sola cosa da fare,
la sola cosa che dia un senso alla vita che ci troviamo a vivere, e che l’unico
obbligo conseguente alla piena libertà sia quello di essere ciò che realmente
siamo. Nel bene e nel male.
In questo radicale percorso di
autoconoscenza, sguardo e parola sono fondamentali. Nella fattispecie, lo sguardo
è limitato e inaffidabile (la protagonista è cieca da un occhio) e la parola si
rivela incapace di esprimere l’interezza e la complessità di quello che
vorrebbe dire. Questo porta a un continuo esame di sé, a una sofferenza che non
viene lenita dall’autonomia ma che anzi la forgia, con il rischio costante però
dell’incomunicabilità e dell’isolamento…
…Da
bambina, la protagonista li aveva azzurri,nella seconda fase della propria vita, da adulta, grigi.
Ma la condizione di ciclope sarà
quella che la renderà capace di cogliere nuove prospettive e inediti dettagli. Senza il dono della cecità totale, che rese Tiresia indovino e Omero cantore, tuttavia, la donna si muove nel
parziale e nell’incompleto. È embrione che galleggia nel vuoto a cui prima accennavo.
Fa paura una creatura femminile
senza un occhio: è una diversa, una
liminare, una emarginata, una denuncia di ciò che non è “normale”, una profezia di ciò che potrebbe accadere. Fa paura perché la donna, se non strega, per
cultura, è espressione dell’armonia.
La scrittura ha un occhio di
troppo, si potrebbe affermare,
perché “mentre scrivo mi trasformo in un altro essere, un occhio, e
fintanto che non sono che uno sguardo, conquisto un’altra realtà”.
Ma anche l’amore lo ha. E, se ricorderete il titolo omonimo, ossia “Il Mandarino Meraviglioso”,
e la trama, ritenuta licenziosa e violenta, dell’opera di Melchior Lengyel, musicata da Bela Bartok, lo capirete.
A voi l’onore della lettura.
…La
buona letteratura è un gioco di equilibri, e l’operazione di Asli Erdoğan è
anche una magia narrativa che
bilancia magistralmente l’intimismo, l’intropezione e la filosofica ricerca di
sè cari al miglior Tabucchi (Notturno Indiano, Il filo
dell’orizzonte), con considerazioni altrettanto urgenti su un mondo
spesso dimenticato – quello degli altri, degli stranieri, degli ultimi.
La ricerca di se stessi e della propria
identità è legata a doppio filo non solo con l’atto del guardare e del
narrare, ma anche con quello del camminare.
Le riflessioni della protagonista seguono i suoi passi, nascono dai suoi
spostamenti. Il Mandarino Meraviglioso è un vero e proprio romanzo che cammina. La
Ginevra calpestata dalla protagonista perde presto la sua solidità di città
storicamente esistente per diventare scenario onirico, vaggio di conoscenza.
La narrazione e il cammino sono sorelle da quando Russeau scrisse La fantasticherie del passeggiatore solitario, forse anche prima – da Dante e il suo “Nel mezzo del cammin“. Forse da sempre. Paolo Rumiz spiega bene questa atavica parentela quando dice che «chiunque passeggia con regolarità sa che il ritmo genera canto. A seconda della velocità, della falcata, del respiro e del nostro stato di forma, il passo sveglia in noi un motivo musicale. Produce metrica. Piedi spondei, dattili, giambici, trochei e altre meraviglie. La poesia nasce dal cammino. Un sedentario difficilmente saprà poetare o cantare».
La narrazione e il cammino sono sorelle da quando Russeau scrisse La fantasticherie del passeggiatore solitario, forse anche prima – da Dante e il suo “Nel mezzo del cammin“. Forse da sempre. Paolo Rumiz spiega bene questa atavica parentela quando dice che «chiunque passeggia con regolarità sa che il ritmo genera canto. A seconda della velocità, della falcata, del respiro e del nostro stato di forma, il passo sveglia in noi un motivo musicale. Produce metrica. Piedi spondei, dattili, giambici, trochei e altre meraviglie. La poesia nasce dal cammino. Un sedentario difficilmente saprà poetare o cantare».
E allora liberate Asli Erdoğan, lasciatela
libera di guardare, camminare e scrivere, perchè abbiamo tanto bisogno dei suoi
occhi, dei suoi passi e delle sue parole.
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