L’appello drammatico proviene direttamente dal
padre. Seyran Demir, una prigioniera politica seriamente ammalata, è
attualmente in pericolo di vita. Ancora nel 2006 le era stato diagnosticato un
tumore osseo. Grazie alle cure e ai trattamenti nel 2009 aveva conosciuto un
miglioramento significativo ma la sua situazione è tornata fatalmente ad
aggravarsi dopo un primo arresto nel 2013.
Reclusa
a Mus, segregata in cella di tipo F, il suo peso in soli 40 giorni era passato
da 56 a 30 kg. Rilasciata nel 2014, veniva nuovamente fermata nel novembre
2015. In custodia cautelare ha subìto maltrattamenti e torture sessuali da
parte della polizia. Nuovamente arrestata, è stata sottoposta a carcerazione di
tipo E a Urfa, in isolamento per 26 giorni. Successivamente veniva rinchiusa
nella prigione Karatas di Adana mentre le sue condizioni fisiche e psichiche
peggioravano sensibilmente. Trasferita nel carcere chiuso (tipo C) di Tarsus,
ha potuto telefonare alla famiglia raccontando quanto era avvenuto durante
l’ultimo trasferimento, quando nonostante le sue condizioni era stata
«torturata e picchiata». In seguito «dal giorno del mio arrivo le guardie e i
soldati mi hanno costantemente insultata e sottoposta a pressioni psicologiche».
Nadir
Demir, il padre della prigioniera, ha denunciato come sua figlia sia ormai
morente. Quando è stata portata in ospedale le sono state rifiutate le cure
«perché è una prigioniera politica». Inoltre «c’è un’ernia nel suo collo, ha
problemi a respirare e ci sono cisti che si formano intorno ai denti. Ora in
bocca le sono rimasti solo due denti, così deve assumere cibo liquido».
Al
momento dell’arresto, Demir era ancora sottoposta alle cure antitumorali. Le
testimonianze contro di lei ufficialmente sono ancora segrete ma il padre ha
spiegato in conferenza stampa che «hanno arrestato mia figlia senza alcuna
prova. Tutti sanno chi è questa persona che chiamano testimone segreto. Mia
figlia ci aveva già detto che costui le avrebbe fatto del male. Con la
testimonianza di questa persona, mia figlia è stata arrestata e tenuta in
carcere per 4 anni pur essendo malata». Ha poi aggiunto: «Non c’è insulto, non
c’è tortura o repressione che mia figlia non abbia sperimentato negli anni che
ha passato in carcere. Che tipo di Paese è questo? Hanno fatto tutto ciò che
potevano a una persona che affronta la morte. Ora basta, devono lasciarla
andare in modo che fuori possa continuare le cure».
E
senza dimenticare coloro che versano nella medesima condizione, il padre ha
così concluso: «Dobbiamo agire per prigioniere e prigionieri malati prima che
sia troppo tardi, così non moriranno in carcere». Un appello a cui dovrebbe
associarsi chiunque abbia a cuore il rispetto dei diritti umani.
da qui
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