Gli
insegnanti? “Professionisti della scuola di vecchia data”, chiamati ad
aderire ad una riforma fondata “sul cambiamento delle stesse sinapsi
cerebrali che presiedono i loro comportamenti routinari, le emozioni, il
giudizio su di sé, sulla propria capacità di azione e di interazione con
l’altro”. Così li definisce un rapporto di valutazione commissionato dal MIUR a
Deloitte Consulting. Un rapporto che non esita a evocare scenari
orwelliani quando descrive l’intervento sulla scuola come una “potente distruzione
creatrice [..] alla Schumpeter o una rivoluzione del paradigma scientifico alla
Kuhn”, che per affermarsi dovrebbe “destrutturare in profondità non
solo le pratiche ordinarie delle persone e delle organizzazioni, ma, finanche,
le mappe cognitive interiorizzate degli attori“. Il punto è che, lungi dal
rappresentare un serbatoio neutro di risorse aggiuntive che la Comunità destina
agli Stati membri, la programmazione europea per la Scuola rappresenta un
potente strumento di policy change, dotato del suo sistema di
“parole d’ordine”: competenze, innovazione, qualità, valutazione, apprendimento
permanente. Ancor una volta, concetti ad alto tasso ideologico sono presentati
come discorsi educativi ineluttabili nella solita narrativa della necessità
dell’innovazione per la “salvezza” della nostra scuola.
“L’ europeanization è quel processo che consiste nella
costruzione, diffusione e istituzionalizzazione di regole formali e informali,
procedure, paradigmi politici, stili, “modi di fare le cose”, di condividere
beni e norme, definiti e consolidati nei processi politici europei e poi
incorporati nelle logiche dei discorsi domestici (nazionali e subnazionali),
nelle politiche strutturali e pubbliche.”
Così C. Radaelli[1] definisce
quel processo di progressivo orientamento e “adattamento” delle politiche
nazionali da parte delle dinamiche politico-economiche dell’Unione Europea.
Oggi si può parlare di un vero e proprio “spazio” europeo dell’educazione,
costruito da diversi attori sociali: decisori politici, tecnici, lobbies,
accademici, agenzie private, associazioni[2].
Un’area internazionale di elaborazione e di decisione in materia di istruzione
e ricerca scientifica, da collocare in una cornice ancora più ampia[3],
come recentemente ricordatoci dal rapporto dell’OCSE “Strategia per le competenze”. L’idea che
istituzioni sovranazionali siano legittimate ad orientare le politiche degli
Stati in termini di educazione è piuttosto recente: l’istruzione nei paesi europei
è sempre stata un affare nazionale, funzionale al consolidamento dell’identità
e della cultura di una comunità. Ogni sistema educativo ha avuto una sua
storia, legata all’evoluzione della sua politica, della sua geografia e
tradizioni, lingua e tessuto sociale. È a partire dagli anni 90 che istruzione
e ricerca pubbliche subiscono una vera e propria trasformazione, che ne
ridefinisce obiettivi ed organizzazione interna. Pur restando formalmente di
competenza nazionale, dal Trattato di Maastricht del 1992 in avanti, si
introduce per gradi una nuova “ortodossia” basata sulla comparazione dei
sistemi di istruzione. Un “governo senza governo”[4] che
dalla strategia di Lisbona del 2000 alla
Comunicazione Rethinking education del 2012, fino
all’attuale strategia ET2020 si muove su una stessa
linea argomentativa: l’educazione
deve essere ripensata in funzione di competenze che generino occupazione (employability),
produttività e competitività. L’Unione Europea è diventata così
l’attore più influente nella definizione di norme e standard educativi degli
Stati membri stabilendo pochi obiettivi universali e d’impatto comunicativo,
che riescono a indirizzare le politiche locali senza nemmeno il bisogno di
riformularle. Tra gli strumenti economici, politici e strategici con cui
l’Europa interviene in maniera indiretta, ma stringente, nei sistemi di
istruzione e formazione locali c’è quello della Programmazione Operativa Nazionale (PON).
La
Programmazione Operativa Nazionale
Con il PON
“Per la scuola – competenze e ambienti per l’apprendimento” si
inaugura nel 2015 una nuova stagione di finanziamenti europei, che coinvolge per la prima volta tutte le regioni
italiane. La programmazione 2014-2020 interessa 8.700 scuole, con una
dimensione finanziaria di circa 3 miliardi di euro. È strutturata attorno a 4
assi, ciascuno con propri obiettivi specifici, intimamente connessi al disegno
europeo ET2020, sopra menzionato. Dei 4 assi, 2 sono quelli che riguardano da
vicino l’attività didattica delle scuole[5]:
§ l’asse 1, “istruzione” investe su: competenze, apprendimento permanente,
maggiore apertura della formazione al mercato del lavoro, diffusione di
approcci didattici innovativi, assorbendo circa il 65% delle risorse;
§ l’asse 2, “infrastrutture per l’istruzione” interviene in maniera
trasversale, incidendo, tra le altre cose, sulla formazione del capitale umano,
attraverso la riqualificazione professionale e la formazione e assorbendo il
28% circa delle risorse.
Le principali esigenze nazionali che
l’Europa ha individuato[6] per
l’Italia nei prossimi anni sono scritte nelle raccomandazioni specifiche del
Consiglio (Luglio 2014): potenziamento della valutazione del nostro sistema
scolastico, lotta all’abbandono, ampliamento dei sistemi di apprendimento
basati sul lavoro e riconoscimento delle qualifiche delle competenze acquisite.
Oltre alla documentazione tecnica
ministeriale ed europea (Programma, Accordo di partenariato e Position paper),
una lettura più agile è offerta alle scuole dal libretto informativo con cui il MIUR ha
diffuso le iniziative. In esso si sintetizzano, con la grafica e i colori a cui
i recenti Piani della Buona Scuola ci hanno abituati, obiettivi e finalità del
nuovo ciclo di programmazione.
Grazie alle risorse europee – si scrive
– le scuole continueranno a combattere la loro battaglia contro la dispersione
scolastica, iniziata nei cicli precedenti, potendo ampliare gli orari di
apertura e diversificando le attività; formeranno adeguatamente i docenti alle
nuove sfide che la società impone; svolgeranno azioni per gli adulti volte a
potenziare l’apprendimento permanente, in un’ottica “di invecchiamento
attivo”[7].
Al centro della strategia i nostri studenti: più “preparati e competitivi”[8],
sia nelle basic skills (italiano e matematica, lingua
straniera e – new entry– digitale) che nelle soft skills (imparare
ad imparare, spirito di iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed
espressione culturale). Competitività[9] –
dunque – obiettivo educativo centrale, da attuare anche attraverso i percorsi
di alternanza scuola-lavoro, migliorando la “pertinenza del percorso
formativo rispetto al mercato del lavoro”[10].
Le
azioni proposte
A partire dal 2015 sono stati resi
pubblici una serie di avvisi attraverso i quali accedere ai finanziamenti,
riferiti a temi specifici. Tra i bandi che riguardano direttamente l’attività
didattica, al primo, sugli ambienti digitali multimedialie
flessibili per l’apprendimento, ha fatto seguito quello sull’inclusione
sociale, da realizzare con attività di tipo laboratoriale in funzione di
bisogni specifici, anche con il coinvolgimento delle famiglie, al di fuori
dell’attività ordinaria (vacanza, pomeriggio, estate). Nel gennaio scorso,
invece, è stato pubblicato un imponente avviso quadro che ha presentato, insieme,
i 10 bandi di finanziamento accessibili dalla primavera fino al luglio scorso.
Le tematiche sono tante e suonano ormai familiari: competenze di base, cittadinanza
e creatività digitale, educazione all’imprenditorialità, alternanza
scuola-lavoro ed altri ancora. Tutti gli avvisi hanno un denominatore
comune sia organizzativo che metodologico. Si svolgono per moduli extracurricolari – dunque non in attività ordinaria – con
un gruppo limitato di partecipanti[11] e richiedono tassativamente approcci innovativi. Una “dimensione
esperienziale [e…] ricomposizione tra il linguaggio della scuola e quello della
realtà socio-economica”[12].
Insegnanti e formatori – si chiarisce nelle varie azioni – devono strutturare
“situazioni di apprendimento” basate sulla soluzione di problemi concreti e “metodi
di lavoro utili per la vita e per lo sviluppo professionale”[13].
Situazioni extracurricolari che auspicabilmente e progressivamente dovranno
trasformarsi in prassi scolastiche quotidiane. Il MIUR è fervente sostenitore
di un “nuovo modo di fare scuola”, di pratiche che “la ricerca teorica e
quella sul campo hanno decretato essere
le più efficaci: metacognizione, project based-learning,
cooperative learning, learning by doing, flipped classroom, apprendimento
formale ed informale, digital storytelling, brain-storming, outdoor training,
teatro d’impresa, e-learning”[14].
Ancora una
volta[15],
senza nemmeno lo sforzo della costruzione di una bibliografia, si fanno
passare delle scelte metodologiche e didattiche, funzionali al
modello ed alla logica dominanti, per acquisizionidella comunità
scientifica. Concetti ad alto tasso ideologico sono presentati come discorsi
educativi ineluttabili nella solita narrativa della necessità dell’innovazione
per la “salvezza” della nostra scuola.
Buone
pratiche
In attesa della raccolta delle
esperienze prodotte dall’attuale programma, documenti interessanti da esaminare
sono le raccolte delle “buone pratiche” scolastiche di quello precedente,
rivolta alle sole regioni del Sud. Il MIUR rende disponibili una serie di
cataloghi di alcune esperienze realizzate. In quello riferito alla promozione e
sviluppo di competenze chiave degli studenti, prodotto nel quadro del progetto
VaLes dell’INVALSI, sono riportate 135 schede descrittive. Leggerne qualcuna può
essere significativo non tanto per dare un giudizio di merito di questo o quel percorso
(considerate le condizioni in cui le scuole meridionali spesso operano,
l’abnegazione nel promuovere attività aggiuntive è sicuramente encomiabile)
quanto per farsi un’idea dell’assoluta omologazione di pratiche e metodi
impiegati.
Nella sezione di rendicontazione: “Metodologie
didattiche, motivazioni della scelta, elementi di efficacia” oppure “Risultati
ottenuti” è quasi possibile sovrapporre da una scheda ad un’altra
contenuti, linguaggio, lessico e terminologie, ripetute come un mantra: “didattica
laboratoriale, flipped classroom, impiego di nuove tecnologie, apprendimento
cooperativo, contesto stimolante, consolidamento significativo delle
competenze, etc etc etc”. Decine e decine di esperienze reiterate, termini
anglofoni “appiccicati” a pratiche spesso remote, obiettivi perseguiti e
artigianalmente quantificati, questionari di gradimento somministrati.
Il quadro che ne esce è quello di una
Scuola “catturata” dalla morsa del discorso dominante.
Una sorta di
coercizione che si esprime più o meno in questi termini: io, Scuola pubblica,
per reperire risorse aggiuntive devo imparare a parlare in un
certo modo, esprimere le mie attività in un certo modo, guardare
al futuro come mi viene richiesto.
Concorrere alle risorse europee spesso
diventa un percorso di sopravvivenza necessario per reperire fondi che
sarebbero dovuti e indispensabili; e non per un ristretto gruppo di
allievi o per sporadiche attività pomeridiane, ma risorse strutturali e
ordinarie per l’intera popolazione scolastica. Eppure, nel rapporto di
valutazione indipendente (2007-2013), che il MIUR ha affidato[16] alla
società di consulenza privata Deloitte Consulting srl, si scrive, con
l’enfasi tipica di chi è fiero di aver contribuito ad una svolta per il Paese,
che i progetti PON hanno battuto la strada per quella che “punta ad essere
una modifica sostanziale di comportamenti collettivi ritenuti
limitativi e dannosi per un moderno sistema di istruzione”[17] e
“trasformato il sud in un gigantesco laboratorio territoriale” dove “si
è fatta innovazione”[18].
Nonostante il contributo del programma allo sviluppo del capitale umano della
scuola sia ancora in fieri, nel rapporto si sottolinea la “forza
di trascinamento verso il cambiamento” e la necessità di sedimentare i
risultati, di imprimere una direzione coerente, “osservarla e governarla”[19].
Senza imbarazzo, si parla di “distruzione
creatrice [..] alla Schumpeter”, di “rivoluzione del paradigma
scientificoalla Kuhn”[20] (!).
Insomma, una destrutturazione profonda della Scuola in termini di formazione e
organizzazione. A chiare lettere si raccomandano “meno enfasi alla
formazione disciplinare” e nuova cura alla costruzione delle giuste “mappe
cognitive” degli attori coinvolti nel processo di rinnovamento: gli insegnanti. Il documento li definisce
“professionisti della scuola di
vecchia data” ancora convinti –
poverini! – “che non solo il titolo
di studio serva, ma sia un valore” e trovatisi ad affrontare “un cambiamento delle stesse sinapsi cerebrali
che presiedono i loro comportamenti routinari”, per far fronte alle
esigenze formative dei “nativi digitali”.
Una prosa e una retorica così ridondanti
e sprezzanti, pagate a peso d’oro[21],
da far quasi rimpiangere l’antilingua burocratese delle circolari
ministeriali di vecchia memoria e che non necessitano di ulteriori commenti.
Un
nuovo paradigma educativo
Sembra evidente, a questo punto,
che lungi dal rappresentare un
serbatoio neutro di risorse aggiuntive che la Comunità destina agli Stati membri,
la programmazione europea per la Scuola rappresenti un potente strumento
di policy change, dotato
del suo sistema di “parole d’ordine”: competenze, innovazione, qualità,
valutazione, apprendimento permanente. Da esse sembrano dipendere
la credibilità, la tenuta e l’efficienza della Scuola e del paese dal punto di
vista sociale, economico e produttivo.
Un nuovo paradigma educativo, di cui
abbiamo già evidenziato l’invadenza e i limiti, è
veicolato dal denaro europeo con cui si irrora (anche) il nostro sistema scolastico.
Risorse a cui è impensabile rinunciare in regime di austerità e di cui la Buona
Scuola fa uso massiccio attraverso strumenti come il Piano di Formazione e il Piano Digitale, che portano avanti le loro
azioni anche sulla base dei finanziamenti europei. Lo stesso INVALSI[22] si
è servito di fondi comunitari – e continua a farlo – per consolidare il
suo ruolo di regia assoluta di qualsiasi processo di valutazione si compia in
seno all’ istruzione pubblica[23].
La strategia di comunicazione della
programmazione è imponente e orientarsi nella selva di documenti dedicati alla
sua disseminazione, implementazione e valutazione è impresa che richiede molta
buona volontà. Tuttavia, è importante trovare il filo che lega le varie azioni,
svestirle dal carattere “tecnico” di mere opportunità da cogliere.
Esse vanno inquadrate in un percorso di
cambiamento più ampio, che la Scuola sta attraversando in stretta connessione
con le evoluzioni della politica nazionale ed internazionale. In questo
senso, può essere utile partire dal rileggere la lettera Trichet-Draghi del 2011, inviata
all’allora governo Berlusconi. In essa, si chiedevano “una complessiva,
radicale strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi
pubblici locali.. una riforma della contrattazione salariale collettiva.. una
revisione delle norme che regolano il licenziamento dei dipendenti ..un uso
sistematico di indicatori di performance nei sistemi sanitario, giudiziario, di
istruzione”. Queste parole, lette oggi, anche alla luce del seguente Patto di bilancio e della legge costituzionale sul pareggio del
2012, acquistano una coerenza lampante, all’indomani di riforme come la legge
Fornero, quella della Pubblica Amministrazione, il Jobs Act e la Buona Scuola.
Il binomio educazione – lavoro, a nostro parere,
è la chiave di lettura del tracciato politico che stiamo
attraversando: una vera e propria ristrutturazione (smantellamento)
dell’esistente portata avanti in pochi anni con risolutezza e determinazione
inaudite.
Occupazione e istruzione si saldano
attraverso una serie di temi ricorrenti che la narrazione europea e
ministeriale ripropongono con tenacia.
Primo fra tutti: l’alternanza scuola-lavoro, che oltre
a realizzare un “incontro fisico” tra scuola e impresa, ha un fortissimo valore simbolico: l’idea che la frequentazione
del mondo lavorativo sia fonte di
“educazione morale”, attraverso un insegnamento “formativo” su ciò che conterà
davvero nella vita: la gestione di tempi, il rispetto delle consegne, la cura
delle relazioni, l’autodisciplina. Ma ancora:
§ l’enfasi sullo spirito di imprenditorialità, come
competenza da sviluppare fin dalla prima infanzia, necessaria a “partecipare
attivamente alla società, ad entrare” (o rientrare) “nel mercato
del lavoro [ ..] o anche avviare un’impresa”[24],
contribuisce a definire un immaginario
in cui l’educazione è condizione primaria ed essenziale di occupazione e
sviluppo;
§ i referenziali delle qualifiche EQF e dei livelli ISCED, o il quadro europeo di
riferimento linguistico (CEFR) – che di fatto trasforma la lingua
in strumento di servizio – sono adottati per facilitare e
organizzare le “uscite” dei vari apparati scolastici in funzione degli
obiettivi produttivi. Rinforzano una politica dell’identità europea riformulata in termini di qualifica o mancata-qualifica:
solo un soggetto opportunamente qualificato e formato può
appartenere ad una “società della conoscenza”;
§ la priorità assegnata
alle competenze scientifiche e
tecnologiche (le cosiddette STEM),
da coltivare fin dall’infanzia attraverso il coding e il
pensiero computazionale, proseguendo poi nelle Università, non è
finalizzata ad un’educazione scientifica il cui fine è in sé, ma
sempre in connessione con gli obiettivi di crescita e di produttività che le
sfide economiche richiedono. Una visione ben riassunta in un recente articolo
di Sarewitz[25],
secondo il quale la scienza ha
valore se produce progresso e sviluppo tecnologico, se non è “libero gioco
dell’intelletto”. Essa deve essere opportunamente indirizzata verso la
soluzione di problemi legati all’innovazione, in “diretta, aperta ed intima
relazione con la società attuale”;
§ l’apprendimento permanente, sia formale che informale (life-long
and life-wide learning) è costantemente invocato, non certo in funzione
della necessità di educare adulti e lavoratori come si intendeva negli anni 70,
ma come una sorta di “politica attiva per l’impiego”: un modo per risolvere, a
breve termine, i problemi (e i costi) di formazione delle imprese o per
aumentare temporaneamente la percentuale di adulti in occupazione. Il problema
occupazionale si trasforma in un problema educativo. Un cittadino disoccupato
diventa automaticamente un cittadino non adeguatamente formato. In questo
modo la crisi dello stato sociale
sposta la responsabilità del fallimento dalla politica alla Scuola –
Università, fino ad arrivare al singolo individuo. Da un lato, l’educazione non è
sufficientemente “di qualità” e gli insegnanti non sono aggiornati ed efficaci;
dall’altro, il cittadino è costantemente chiamato ad aggiornare (e far
certificare) le sue competenze, all’inseguimento delle richieste di un mercato
in continua evoluzione, pur di poter essere impiegato.
Non sembra eccessiva l’analisi di Marta Fana, quando scrive che si chiede alla Scuola di preparare i giovani
“precisi e perfetti per il prossimo annuncio”. La disoccupazione è
diventata una variabile dipendente. La Scuola e l’Università sono le principali
istituzioni responsabili della sua crescita.
La politica europea (e quella del nostro
paese) continua, con atteggiamento “difensivo”, a riproporre ostinatamente una
relazione di causa-effetto tra istruzione e lavoro, sulla scia di un percorso
iniziato oramai da quasi 20 anni, che si sta rivelando fallimentare. Risultato:
l’educazione continua a “rimpicciolirsi” e a “professionalizzarsi”, nonostante
si tenti di rivestirla di nuove tecnologie e metodologie didattiche o si
“infonda” spirito di imprenditorialità sui suoi attori (dirigenti, insegnanti e
oggi anche studenti) e l’occupazione, in particolar modo giovanile, non sembra
giovarne in alcun modo.
Europa:
vincolo o opportunità per l’educazione?
Una particolare narrativa europea
legittimata dalla mondializzazione, dall’urgenza della crisi, dall’esplosione
delle nuove tecnologie di comunicazione sembra imporre oggi in maniera
“deterministica” l’idea che l’educazione degli individui sia uno strumento
macro-economico di crescita e aumento della produttività prima di ogni
altra cosa. Sebbene l’educazione debba
indubbiamente confrontarsi con questioni inedite e controverse come
l’interculturalità e l’inclusione, la trasformazione degli spazi sociali e
delle modalità di accesso e produzione di contenuti, i nuovi modi di comunicare
e entrare in relazione, essa non
può essere semplicemente chiamata a rispondere e adattarsi a una nuova
“organizzazione del mondo”: deve poter contribuire a ridefinire e modificare la
realtà esistente. Non è democratica una società in cui gli scopi
educativi sono prestabiliti, monitorati e pacificamente catalogati in set di
competenze da certificare. È democratica quella società in cui gli obiettivi
dell’educazione sono oggetto di dibattito e di revisione costanti.
Oggi più che mai
l’integrazione europea, che in 20 anni ha riunito ben 27 paesi, sta vivendo un
momento storico cruciale. Rinnovati nazionalismi, tensioni e spinte populiste[26]mettono
in discussione quotidianamente l’alleanza e la legittimità comunitarie.
Aumentano insofferenza e fastidio per i vincoli imposti dagli “eurocrati” e
cresce la sensazione che sia necessario “riprendere
il controllo” della situazione. Il richiamo all’ idea di sovranità è la prima, istintiva
rivendicazione del diritto di gestire territorialmente e in maniera più o meno
indipendente questioni economiche, fiscali, sociali e anche educative.
Eppure, proprio dal riformulare le idee di educazione,
ricerca e sviluppo comuni, potrebbe liberarsi quel potenziale culturale ideale ed “eversivo” necessario alla costruzione di
un’identità europea nuova e più ambiziosa.
[1] C. Radaelli, “Europeanisation: solution or
problem?”, EIoP vol.8, 2004
[2] A. Novoa e M. Lawn “Fabricating Europe: the
formation of an educational space”, 2002, Kluwer academic publishers.
Review disponibile al link: https://www.researchgate.net/profile/Michele_Schmidt5/publication/298215368_Fabricating_Europe_The_formation_of_an_education_space_Review_of_Antonio_Novoa_and_Martin_Lawn/links/56e73a8b08ae85e780cfe73b/Fabricating-Europe-The-formation-of-an-education-space-Review-of-Antonio-Novoa-and-Martin-Lawn.pdf
[3] C. Laval e L. Weber, “Le nouvel ordre
educatif mondial”, Paris, Editions Nouveaux regards,2002.
[4]A. Novoa “Governing without governing – The
formation of a European educational space”, Routledge International
Handbook of the Sociology of education, 2010, pagg. 264-273.
[5] Dati e descrizioni complete reperibili in http://www.istruzione.it/allegati/2014/PON_14-20.pdf.
[6] Cfr. pag 9.
[7] Libretto informativo, pag. 21.
[8] ivi, pag 18.
[9] Siamo proprio certi che l’aggettivo
“competitivo” non sia una cattiva traduzione di “competent”? Poco male, in
fondo etimologia e significato profondo delle due qualificazioni sono tutt’uno.
[10] Ivi, pag. 19.
[11] In alcuni bandi si richiede un numero di 15/20
allievi per modulo, come nel caso del bando per l’inclusione sociale.
[12] Vedi Avviso Quadro, http://www.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/172146aa-ecd0-44b5-8f2e-6f356b246c55/prot950_17.pdf pag
18.
[13] Cfr. pag 19.
[14] Ivi, pag 19.
[15] Tipico dei documenti ministeriali o europei è
l’impiego di una retorica basata su asserzioni proposte come soluzioni a
problemi in realtà molto complessi. Enunciati di principio, come quelli
riguardanti le metodologie didattiche “giuste” da impiegare, diventano evidenze
addirittura “decretate” dalla comunità scientifica. Stessa enfasi si ritrova
nei documenti come il Piano Nazionale di Formazione o
il Piano Nazionale di Scuola Digitale.
[16] Vedi nota Prot. AOODGEFID/ 8198 del MIUR,
17/06/2015.
[17] http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/9f124f9d-1423-484b-bfdd-88dd4ecc367a/rapporto_deloitte_Rapporto_di_Valutazione_Complessiva_del_PON_15-02-16.pdf pag.
27.
[18] Cfr. pag. 260
[19] Cfr. pag. 268
[20] Cfr. pag. 269.
[21] 381.600
euro è l’importo, al netto di IVA, che la Deloitte Consulting si è
aggiudicata per il servizio di valutazione indipendente che ha prodotto il
documento citato, come risulta dal Rapporto Finale di esecuzione, pag.
154. https://archivio.pubblica.istruzione.it/fondistrutturali/secure/allegati/cds_2017/15_06_17_13.3_Rapporto_Finale_di_esecuzione_FSE_2007-2013.pdf
[22] Per avere un’idea del legame INVALSI-PON 07-13,
si veda lo stesso sito dell’ istituto http://www.invalsi.it/invalsi/index.php?page=pon0713,
in cui si elencano i progetti pilota (Vales, Qualità e merito..) che hanno
posto le basi del sistema di valutazione nazionale, oltre ad ulteriori progetti
disciplinari sulla didattica innovativa (come Matabel per la matematica)
relativi alla programmazione 2007-2013. Oppure si legga il rapporto di
valutazione ex ante dell’attuale ciclo 14-20, stilato da un comitato tecnico
interno all’Istituto, visibile al link http://www.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/2ae70751-24ea-452d-913d-39c92374d607/rapporto_valutazione_ex_ante_2014-2020.pdf
[23] Il ruolo dell’INVALSI nel sistema di valutazione
nazionale è accresciuto e irrobustito dal decreto attuativo nr 62 dell’aprile
2017, che attribuisce all’istituto il compito di “attestare” i livelli di
competenza dei singoli studenti in un curriculum personale da rilasciare a
ciascuno in uscita dal percorso di istruzione. Come quei livelli si
interpreteranno, leggeranno e impiegheranno in realtà esterne alle Scuole non è
chiarito. Possiamo solo immaginarlo.
[24]Framework europeo https://ec.europa.eu/jrc/en/publication/eur-scientific-and-technical-research-reports/entrecomp-entrepreneurship-competence-framework ,
2016, pag. 12.
[25] In risposta ad una visione della scienza
funzionale al solo progresso tecnologico, si legga ad es. il contributo di
Bizzarri et al. http://ojs.uniroma1.it/index.php/Organisms/article/view/13864 .
[26] Dalla Brexit alla crescita del Front National in
Francia, dalle spinte politiche sovraniste di Movimenti come Podemos, Lega o 5
Stelle in Spagna e Italia alla recente marcia neonazista in Polonia dell’11
novembre scorso.
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