Oltre 60mila detenuti politici, stragi efferate (come la «Tienanmen del Cairo», neanche un mese e mezzo dopo il colpo di stato: fino a un migliaio di manifestanti uccisi nello sgombero di due sit-in in altrettante piazze della capitale), la tortura e le sparizioni come parti integranti dell’azione giudiziaria, la normalizzazione dello stato d’emergenza con l’incorporamento di norme «straordinarie» nel codice penale. E ancora, soppressione degli spazi di libertà, processi ai dissidenti, terribili condizioni carcerarie.
E di nuovo: caccia ai giornalisti e ai difensori dei diritti umani,
congelamenti dei beni e divieti di viaggio. E infine, il sistema delle «porte
girevoli», che fa rientrare in cella persone appena scarcerate o in procinto di
esserlo, iscrivendole pretestuosamente a una nuova inchiesta.
L’Egitto, per le organizzazioni locali e internazionali che si occupano di
diritti umani, è questo e tanto altro ancora. Per la comunità internazionale è
invece un partner prezioso da trattare con indulgenza se non con vera e propria
riconoscenza. Petrolio in cambio di armi: un paradigma di cui l’Italia è stata
nel 2013 apripista e a seguire protagonista.
Per elencare le vittime della repressione di stato negli ultimi dieci anni
della storia egiziana occorrerebbe un’edizione speciale di questo quotidiano.
Allora, vorrei provare a raccontare cosa ha significato questo decennio per i
diritti umani con quattro storie.
Quella di Ahmed Douma percorre esattamente quegli anni. Douma ha contribuito
alla fondazione dei più importanti movimenti di protesta egiziani dell’inizio
di questo secolo, come Kefaya e la Coalizione dei giovani rivoluzionari. Sta
scontando il decimo di 15 anni di carcere. Arrestato nel dicembre 2013 per la
sua asserita presenza a una manifestazione contro la legge che impediva le
proteste, era stato condannato a tre anni. Nel febbraio 2015, a pena quasi
terminata, è stato iscritto a una nuova indagine per «i fatti del Consiglio dei
ministri» del dicembre 2011 (lo sgombero violentissimo di un sit-in in corso da
tre settimane di fronte alla sede del governo) e condannato all’ergastolo, con
successiva commutazione della pena a 15 anni. Le sue condizioni di salute sono
molto preoccupanti. In carcere, ha scritto un libro di poesie, Curly, di cui le
autorità egiziane hanno vietato stampa e distribuzione.
Di poesia parla, insieme a Douma, Alaa Abd el-Fattah nel suo Non siete stati ancora sconfitti, pubblicato in Italia da hopefulmonster. Figura tra le più iconiche del movimento egiziano per i diritti umani, ha trascorso buona parte degli ultimi dieci anni in carcere. Arrestato l’ultima volta nel settembre 2019, alla fine del 2021 è stato condannato a cinque anni di carcere per «diffusione di notizie false» (il reato “orwelliano” che colpisce chi dice la verità), insieme al suo avvocato Mohamed Baker, che di anni di carcere ne ha ricevuti quattro. Da aprile a novembre del 2022, Alaa ha intrapreso uno sciopero della fame e poi della sete per protestare contro l’ingiusta condanna, le inumane condizioni detentive e il rifiuto, da parte della direzione delle carceri, di garantirgli i diritti consolari di cittadino con passaporto britannico.
Il 24 gennaio 2015 Shaimaa al-Sabbagh si accingeva a prendere parte a una
commemorazione, indetta da un partito di sinistra, delle vittime della
rivoluzione del 25 gennaio che nel 2011 aveva spodestato Hosni Mubarak. Erano
30 persone in tutto, camminavano sul marciapiede per non ostruire la
circolazione stradale, dirette a piazza Tahrir: alcune reggevano lo striscione
del partito, altre avevano in mano cartelloni e fiori. Le forze di sicurezza,
senza preavviso, iniziarono a lanciare lacrimogeni e a sparare coi fucili da
caccia. Shaimaa fu colpita a morte dai pallini da caccia alla schiena e alla
testa, da una distanza di otto metri.
Ma la storia più dolorosa è quella di Sara Hegazi, che il 14 giugno 2020 si è
tolta la vita a Toronto, nell’esilio canadese in cui si era rifugiata sperando
di lasciarsi la tortura alle spalle. Il 22 settembre 2017, durante il concerto
della band Mashrou’ Leila al Cairo, Sara e altri spettatori danzarono
sventolando gioiosamente la bandiera arcobaleno. Per quella gioia, una
settimana dopo l’arrestarono. In una stazione di polizia le chiesero se fosse
vergine e perché non portasse il velo. Poi gli agenti annunciarono «è arrivata
una lesbica» e iniziò il massacro, cui presero parte poliziotti e anche donne
in stato d’arresto per reati comuni: insulti, violenza sessuale, pestaggi. Sara
fu posta sotto inchiesta per «promozione della devianza sessuale» e
«depravazione». Trascorse tre mesi in carcere: i primi nove giorni in
isolamento (durante i quali fu nuovamente stuprata e torturata), il resto del
tempo in una cella con due detenute cui era stato detto di non rivolgerle mai
la parola. Non le fu mai permesso di unirsi ad altre detenute durante l’ora
d’aria.
Poi il rilascio su cauzione, in attesa del processo. E infine, la richiesta
d’asilo al Canada. Dove, poco più di tre anni fa, si è accomiatata dalla vita
denunciando «la violenza che mi è stata fatta dallo stato, con la benedizione
di una società religiosa per sua stessa natura».
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