martedì 4 luglio 2023

Quattro storie per un decennio di repressione – Riccardo Noury

 

Oltre 60mila detenuti politici, stragi efferate (come la «Tienanmen del Cairo», neanche un mese e mezzo dopo il colpo di stato: fino a un migliaio di manifestanti uccisi nello sgombero di due sit-in in altrettante piazze della capitale), la tortura e le sparizioni come parti integranti dell’azione giudiziaria, la normalizzazione dello stato d’emergenza con l’incorporamento di norme «straordinarie» nel codice penale. E ancora, soppressione degli spazi di libertà, processi ai dissidenti, terribili condizioni carcerarie.

E di nuovo: caccia ai giornalisti e ai difensori dei diritti umani, congelamenti dei beni e divieti di viaggio. E infine, il sistema delle «porte girevoli», che fa rientrare in cella persone appena scarcerate o in procinto di esserlo, iscrivendole pretestuosamente a una nuova inchiesta.
L’Egitto, per le organizzazioni locali e internazionali che si occupano di diritti umani, è questo e tanto altro ancora. Per la comunità internazionale è invece un partner prezioso da trattare con indulgenza se non con vera e propria riconoscenza. Petrolio in cambio di armi: un paradigma di cui l’Italia è stata nel 2013 apripista e a seguire protagonista.
Per elencare le vittime della repressione di stato negli ultimi dieci anni della storia egiziana occorrerebbe un’edizione speciale di questo quotidiano. Allora, vorrei provare a raccontare cosa ha significato questo decennio per i diritti umani con quattro storie.
Quella di Ahmed Douma percorre esattamente quegli anni. Douma ha contribuito alla fondazione dei più importanti movimenti di protesta egiziani dell’inizio di questo secolo, come Kefaya e la Coalizione dei giovani rivoluzionari. Sta scontando il decimo di 15 anni di carcere. Arrestato nel dicembre 2013 per la sua asserita presenza a una manifestazione contro la legge che impediva le proteste, era stato condannato a tre anni. Nel febbraio 2015, a pena quasi terminata, è stato iscritto a una nuova indagine per «i fatti del Consiglio dei ministri» del dicembre 2011 (lo sgombero violentissimo di un sit-in in corso da tre settimane di fronte alla sede del governo) e condannato all’ergastolo, con successiva commutazione della pena a 15 anni. Le sue condizioni di salute sono molto preoccupanti. In carcere, ha scritto un libro di poesie, Curly, di cui le autorità egiziane hanno vietato stampa e distribuzione.

Di poesia parla, insieme a Douma, Alaa Abd el-Fattah nel suo Non siete stati ancora sconfitti, pubblicato in Italia da hopefulmonster. Figura tra le più iconiche del movimento egiziano per i diritti umani, ha trascorso buona parte degli ultimi dieci anni in carcere. Arrestato l’ultima volta nel settembre 2019, alla fine del 2021 è stato condannato a cinque anni di carcere per «diffusione di notizie false» (il reato “orwelliano” che colpisce chi dice la verità), insieme al suo avvocato Mohamed Baker, che di anni di carcere ne ha ricevuti quattro. Da aprile a novembre del 2022, Alaa ha intrapreso uno sciopero della fame e poi della sete per protestare contro l’ingiusta condanna, le inumane condizioni detentive e il rifiuto, da parte della direzione delle carceri, di garantirgli i diritti consolari di cittadino con passaporto britannico.

Il 24 gennaio 2015 Shaimaa al-Sabbagh si accingeva a prendere parte a una commemorazione, indetta da un partito di sinistra, delle vittime della rivoluzione del 25 gennaio che nel 2011 aveva spodestato Hosni Mubarak. Erano 30 persone in tutto, camminavano sul marciapiede per non ostruire la circolazione stradale, dirette a piazza Tahrir: alcune reggevano lo striscione del partito, altre avevano in mano cartelloni e fiori. Le forze di sicurezza, senza preavviso, iniziarono a lanciare lacrimogeni e a sparare coi fucili da caccia. Shaimaa fu colpita a morte dai pallini da caccia alla schiena e alla testa, da una distanza di otto metri.
Ma la storia più dolorosa è quella di Sara Hegazi, che il 14 giugno 2020 si è tolta la vita a Toronto, nell’esilio canadese in cui si era rifugiata sperando di lasciarsi la tortura alle spalle. Il 22 settembre 2017, durante il concerto della band Mashrou’ Leila al Cairo, Sara e altri spettatori danzarono sventolando gioiosamente la bandiera arcobaleno. Per quella gioia, una settimana dopo l’arrestarono. In una stazione di polizia le chiesero se fosse vergine e perché non portasse il velo. Poi gli agenti annunciarono «è arrivata una lesbica» e iniziò il massacro, cui presero parte poliziotti e anche donne in stato d’arresto per reati comuni: insulti, violenza sessuale, pestaggi. Sara fu posta sotto inchiesta per «promozione della devianza sessuale» e «depravazione». Trascorse tre mesi in carcere: i primi nove giorni in isolamento (durante i quali fu nuovamente stuprata e torturata), il resto del tempo in una cella con due detenute cui era stato detto di non rivolgerle mai la parola. Non le fu mai permesso di unirsi ad altre detenute durante l’ora d’aria.
Poi il rilascio su cauzione, in attesa del processo. E infine, la richiesta d’asilo al Canada. Dove, poco più di tre anni fa, si è accomiatata dalla vita denunciando «la violenza che mi è stata fatta dallo stato, con la benedizione di una società religiosa per sua stessa natura».

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