Restituire dignità alle persone disperse per sfatare molti miti e
stereotipi sulle migrazioni.
Il 14 giugno, oltre 700 persone sono naufragate al largo di Pylos, in
Grecia. L’imbarcazione era partita da Tobruk, in Libia, e a bordo erano
presenti principalmente persone (adulti e minori) provenienti, tra le altre
nazionalità, dalla Siria, dall’Afghanistan e dal Pakistan. Ci troviamo di
fronte all’ennesima strage nel Mediterraneo, ma la notizia è passata in sordina
facendo spazio a quella di un sommergibile dell’azienda Ocean Gate che, poco
tempo dopo, è imploso nelle profondità
dell’Oceano Atlantico, mentre era in trasferta per una visita
al relitto del Titanic.
Pur trattandosi di casi differenti, ciò che salta all’occhio dal punto di
vista prettamente mediatico è che pochissime testate si sono occupate di
ricostruire le storie delle vittime del naufragio, mentre molti riflettori sono
stati puntati sulle vite dell’equipaggio del sommergibile, ripercorrendo le
loro biografie e di come siano arrivati alla loro fortuna miliardaria. Se si
ripercorressero le storie di chi parte, le loro ragioni e le difficoltà
affrontate, oltre a restituire dignità alle persone disperse, riusciremmo a
sfatare molti miti e stereotipi sulle migrazioni: ebbene, mentre la notizia del
naufragio ha perso risonanza, ciò che continua ad andare avanti è il recupero
di testimonianze delle persone sopravvissute che fanno emergere la responsabilità della
Guardia Costiera greca nei mancati soccorsi.
Chi c’era a bordo dell’imbarcazione?
Tra le storie recuperate da diversi giornalisti freelance, emerge quella di
Thaer al-Rahhal (da qui Thaer), 39enne siriano, raccontata dai giornalisti
Alicia Madina e Walid Al Nofal per la testata giornalistica Syria Direct. Thaer
è tra le centinaia di persone disperse e, prima di partire, viveva nel campo
profughi di Zaatari, in Giordania, insieme alla moglie, Nermin Hassan al-Zamal
e il figlio Khaled, di 4 anni, tutti fuggiti da Daraa, in Siria. Come spiegano
i giornalisti Madina e Al Nofal che sono riusciti a mettersi in contatto con la
moglie, Thaer ha intrapreso il rischioso viaggio verso l’Europa nella speranza
di trovare lavoro per pagare le cure per la leucemia del figlio. Infatti: Inizialmente,
Khaled ha ricevuto cure presso il King Hussein Cancer Center di Amman [capitale
della Giordania]. Poi, “[il Centro oncologico] ha interrotto
il trattamento di mio figlio a causa della mancanza di copertura finanziaria”,
ha spiegato al-Zamal. La madre siriana ha affermato che l’UNHCR [Alto
Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite] ha detto alla
famiglia che non poteva coprire le cure mediche. “Lo hanno riportato al campo,
hanno interrotto le cure il 4 luglio 2022”. A causa del “finanziamento al
ribasso a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, purtroppo, un certo numero
di partner è stato costretto a limitare alcuni dei loro servizi o, peggio
ancora, a chiudere alcune operazioni”, afferma Meshal Elfayez, responsabile
delle comunicazioni presso l’UNHCR Giordania. “Sono necessari più fondi per
trovare soluzioni per i rifugiati”.
Thaer credeva quindi che l’unico modo per coprire le spese mediche fosse
cercare di raggiungere l’Europa: “La sua unica ragione per salire su quella
barca era pagare le cure di nostro figlio”, ha detto al-Zamal.
I due giornalisti proseguono con il racconto della storia di Sufyan, un
altro giovane siriano disperso di 17 anni, anche lui fuggito da Daraa e, in
particolare, dall’obbligo della leva militare. “La vita in Siria è
insopportabile, non c’è lavoro né stabilità e la gente vive nella paura“,
ha affermato suo zio, Muhammad al-Dnifat. E ancora: “Voleva solo andare a
vivere una vita normale come qualsiasi altro essere umano, il suo obiettivo era
partire per una vita migliore“.
John Psaropoulos, su Al Jazeera invece, descrive la storia dei
coniugi Kassem Abuzeed, residente ad Amburgo, in Germania, e Ezra Aboud:
[Abuzeed] aveva tentato senza riuscirci di portarla legalmente in
Germania, e aveva pagato 5.000 dollari ai facilitatori per trasportarla dal
campo profughi in Giordania dove viveva, attraverso il Nord Africa e il
Mediterraneo.
“Voglio parlare con i sopravvissuti per scoprire qualcosa, ma non ce lo
permettono“, ha affermato Abuzeed. Infatti, nel porto di Kalamata, dove è
stato allestito un campo profughi di emergenza temporaneo, molti giornalisti
hanno denunciato il comportamento delle autorità greche che inizialmente non
permettevano loro di parlare con le persone sopravvissute (in tutto 104).
Queste ultime infatti, come ha denunciato l’Aegean Boat
Report, sono state fin da subito rinchiuse e sorvegliate dal personale
militare:
La giornalista Helena Smith, per il Guardian, racconta la storia di due
fratelli: Mohammed, di 18 anni, e Fadi, di 29 anni. Quest’ultimo, di origine
siriana, era già residente nei Paesi Bassi e si era recato a Kalamata per avere
notizie del fratello minore. Fortunatamente, Mohammed è sopravvissuto al
naufragio, scrive Smith: Mohammed, che è cresciuto ad Aleppo [Siria] devastata
dalla guerra, con suo fratello, è tra i 104 passeggeri che, dopo aver pagato
più di $ 4.000 il viaggio […], ne è uscito vivo. “Voleva vivere un sogno”, ha
detto Fadi, che ha viaggiato in Europa – attraverso la Grecia – […] 10
anni prima. “Lo volevano tutti. Non posso credere di averlo trovato. Sono così
felice”.
All’appello mancano 400 persone, prevalentemente donne e
bambini pakistani, che sono state costrette, come riportano le giornaliste
Helena Smith, Shah Meer Baloch, Ruth Michaelson e Emma Graham-Harrison sempre
per il Guardian, a rimanere nella stiva dell’imbarcazione. Per loro non c’è stata
alcuna possibilità.
Le responsabilità della Guardia Costiera greca
Oltre alle tragiche storie personali di chi si trovava sull’imbarcazione,
emergono sempre più dettagli allarmanti inerenti al ruolo delle autorità
greche, alle loro dichiarazioni e ai mancati soccorsi. Innanzitutto, come è
stato fin da subito decostruito dai giornalisti
Giorgos Christides, Stavros Malichudis e Corina Petridi della testata
giornalistica indipendente greca Solomon, la Guardia Costiera greca era a
conoscenza del pericolo già da molte ore.
Infatti, scrivono i giornalisti: Nella propria cronologia degli
eventi, Watch the Med – Alarm Phone riporta di aver contattato le autorità alle
17:53 ora locale in Grecia. La mail alle autorità indica le coordinate del
peschereccio stracarico. Dichiara che a bordo ci sono 750 persone, comprese
donne e bambini, e include un numero di telefono per contattare direttamente i
passeggeri. Nell’email si legge: “Chiedono urgentemente aiuto”.
E ancora, gli stessi giornalisti di Solomon hanno contattato la Guardia
Costiera greca per avere spiegazioni:[…] Perché non è stata avviata
un’operazione di salvataggio quando hanno ricevuto la chiamata di soccorso dei
migranti tramite Alarm Phone? Date le circostanze, un “rifiuto di assistenza”
assolve la Guardia Costiera da responsabilità? Perché la Guardia Costiera non
ha effettuato almeno una semplice ispezione della nave (a fini di sicurezza e
di identificazione) visto che non batteva alcuna bandiera? Perché l’operazione
è stata lanciata solo dopo che la nave è affondata?
A queste domande, troviamo risposta in un altro importante reportage, scritto dai
giornalisti Matina Sevis-Gridneff e Karam Shoumail per il New York Times. Nel
reportage si legge infatti che mentre le autorità greche affermavano che
l’imbarcazione stava navigando verso l’Italia e che le persone migranti non
volevano essere soccorse, le immagini satellitari e i dati di tracciamento
ottenuti dal New York Times mostrano che la stessa è rimasta bloccata alla
deriva per sei ore e mezza.
Inoltre, ad aggravare ulteriormente la posizione della Guardia Costiera
greca è il numero crescente di sopravvissuti che afferma che a causare il
naufragio siano state le autorità greche stesse che, rimorchiando
l’imbarcazione, l’avrebbero fatta capovolgere. Secondo un’inchiesta internazionale congiunta a cui, tra le
altre, hanno partecipato le testate Lighthouse Reports, El Paìs, Der Spiegel,
la Guardia costiera greca avrebbe falsificato le dichiarazioni ufficiali per
nascondere il loro ruolo nel naufragio, facendo pressioni su alcuni
sopravvissuti affinché identificassero alcune persone come “scafiste” o
“trafficanti”.
Infatti, si legge nell’inchiesta: Nessuno dei nove sopravvissuti
interrogati dalla Guardia Costiera l’ha incolpata, secondo le trascrizioni, ma
in un successivo giro di interrogatori da parte di un tribunale greco agli
stessi nove sopravvissuti, sei di loro avrebbero detto che la Guardia Costiera
aveva rimorchiato la barca poco prima che si capovolgesse[..]. “Mi hanno
chiesto cosa fosse successo alla barca e come fosse affondata. Ho detto loro
che la Guardia Costiera greca è venuta e ha legato la corda alla nostra barca e
ci ha rimorchiato e ha causato il capovolgimento della barca”, ha detto un
sopravvissuto. “Non l’hanno scritto nella mia testimonianza. Quando l’hanno
presentata, alla fine, non sono riuscito a trovare questa parte.”
Inoltre, sedici dei diciassette sopravvissuti con cui hanno parlato i
giornalisti investigativi dell’inchiesta hanno affermato che la Guardia
Costiera ha attaccato una fune alla nave e ha cercato di rimorchiarla poco
prima che si capovolgesse. Quattro hanno anche affermato che la Guardia
Costiera stava tentando di rimorchiare la barca in acque italiane, mentre altri
quattro hanno riferito che avrebbe causato più morti girando intorno all’imbarcazione
dopo che si è capovolta, provocando onde che ne hanno causato il naufragio.
Le frontiere uccidono e Fortezza Europa lo sa
In seguito al naufragio, centinaia di attivisti e attiviste, solidali e
associazioni si sono riversati nelle strade di Atene per protestare contro la
violenza di frontiera della Grecia e dell’Unione Europea.
Infatti, bisogna ricordare che la Grecia è ormai da diversi anni oggetto di
scrutinio e di indagine non solo per via delle importanti inchieste
giornalistiche che ne hanno documentato i respingimenti illegali effettuati nell’Egeo,
ma anche della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). Quest’ultima infatti –
nel caso Safi e altri c. Grecia – l’anno scorso,
aveva condannato la Grecia, in violazione degli Artt. 2 (diritto alla vita) e 3
(tutela dai trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione Europea dei
Diritti Umani, per via delle morti provocate dalla Guardia Costiera, che ha
tentato di respingere illegalmente alcuni richiedenti asilo in acque turche. A
ciò si aggiunge il coinvolgimento di Frontex,
l’agenzia UE per il controllo delle frontiere, che è stata più volte segnalata
per comportamenti violenti e illegittimi in quanto complice della Guardia
Costiera greca nei respingimenti in mare.
Nonostante ciò, gli Stati dell’UE continuano ad adottare politiche
criminalizzanti e sempre più restrittive per le persone migranti,
esternalizzando le proprie frontiere tramite la stipulazione di accordi con
Paesi terzi non sicuri (dalla Turchia, alla Tunisia, fino alla Libia) o
lasciando morire le persone in mare (ne è la prova, ad esempio, l’attivazione delle
operazioni di polizia, anziché di soccorso, a Pylos come a Cutro, in Calabria).
Mentre il mantra ripetuto a ogni naufragio è basato sull’incolpare i soli
“scafisti”, quello che rimane fuori dal focus è il diritto alla libertà di
movimento negato e le storie di chi, pur tentando di raggiungere l’Europa
legalmente, non può farlo per via delle stesse politiche restrittive in merito.
È necessario non solo uno stravolgimento del sistema attuale che tuteli i
diritti di tutti e tutte, ma anche un cambio di passo nella narrazione
mediatica delle migrazioni, riconsegnando quella complessità e dignità che
meritano.
(L’articolo originale contiene immagini
e video sulla vicenda del naufragio, le inchieste giornalistiche e le proteste
ad Atene.)
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