Era il 22
novembre 1957 quando la Corte disciplinare di Roma censurò il
giudice Dante Troisi, reo di avere rappresentato i
magistrati «come avidi di carriera, privi di responsabilità, infastiditi
di dover giudicare per uno stipendio non
soddisfacente» così «producendo nel lettore un senso di sfiducia
nell’ordine giudiziario». Superfluo ricordare che, come i lettori più
acculturati sanno, Dante Troisi, giudice a Cassino e poi presidente di sezione
al Tribunale di Roma, fu uno scrittore di grande talento e che la sua opera più
nota – il racconto lungo di ispirazione autobiografica Diario di un
giudice, pubblicato nel 1955 da Einaudi – venne considerata
unanimemente dalla critica un “avvenimento” letterario. Non così
dall’istituzione giudiziaria, che avvertì Troisi come un corpo estraneo, un
pericolo per il proprio burocratico conformismo e reagì applicandogli la
sanzione disciplinare della censura, nonostante l’appassionata difesa di
Alessandro Galante Garrone e l’ammirazione di Piero Calamandrei (che di lui
disse: «se il conformismo l’avesse già vinto, se l’attesa della promozione
avesse già fatto tacere nel suo cuore le invocazioni e le invettive degli umili
sacrificati, queste pagine non sarebbero state scritte»).
La vicenda
mi è tornata alla mente in questi giorni di fronte al provvedimento del
Consiglio superiore della magistratura che, il 12 luglio scorso, ha negato la
conferma nell’incarico di presidente della sezione lavoro della Corte d’appello
di Catanzaro a Emilio Sirianni, esponente di Magistratura democratica (e, tra
l’altro, collaboratore di questo sito), noto per il suo impegno sociale e culturale
e soprattutto – colpa gravissima in un paese in cui è un vanto
intrattenere rapporti con bancarottieri e faccendieri – amico di Domenico
Lucano (sindaco di Riace e artefice di un modello di accoglienza dei migranti
studiato in tutto il mondo, poi sottoposto, con riferimento a tale attività, a
procedimento penale tuttora in corso). Il fatto ha dell’incredibile e merita
una sintetica ricostruzione e alcune considerazioni.
La censura –
ché di ciò, sostanzialmente, si tratta – è stata originata dal contenuto di
alcune conversazioni intervenute nel lontano 2017 e intercettate nell’ambito
dell’indagine su Lucano, nelle quali Sirianni, parlando con l’allora sindaco di
Riace, commentava gli accertamenti ispettivi in atto sulla sua attività
amministrativa, gli esprimeva solidarietà e formulava giudizi critici su alcuni
personaggi (tra i quali il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola
Gratteri) che si erano, a loro volta, espressi sulla vicenda. Critiche e
commenti, formulati con i toni diretti e vivaci propri di una
conversazione privata tra amici, erano assolutamente trasparenti (tanto che
Sirianni ha chiesto in ogni sede la pubblicità delle udienze) e del tutto
estranei alla sfera della sua attività professionale, sia per materia che per territorio.
Cionondimeno Sirianni è stato sottoposto a una vera e propria persecuzione,
comprensiva di un procedimento penale, un giudizio disciplinare e una procedura
per trasferimento di ufficio, tutti definiti, inevitabilmente data la natura
dei fatti, con decisioni totalmente liberatorie che hanno escluso, nel suo
comportamento, qualsivoglia profilo di illiceità o di inopportunità tale da
lederne l’immagine o il prestigio. Di più, i pareri sulla conferma
nell’incarico resi, all’unanimità, dal Consiglio giudiziario di Catanzaro prima
e dopo i fatti in esame descrivono Sirianni come magistrato dotato
di «eccellente capacità organizzativa e direttiva che, con impegno,
sobrietà e rigore ha eliminato le pendenze della sezione lavoro da lui
diretta» e aggiungono che nessun effetto sulla sua credibilità ed
autorevolezza è derivato dalle conversazioni con Lucano. Nonostante ciò il
Consiglio superiore della magistratura – che, con un atteggiamento di copertura
corporativa più volte denunciato, non ha pressoché mai negato la conferma a
dirigenti inetti, incapaci di assicurare all’ufficio una funzionalità minima,
coinvolti in frequentazioni discutibili e finanche condannati in sede
disciplinare – ha voluto mostrare il proprio inflessibile rigore censurando
Sirianni per avere perso la sua «autorevolezza culturale» e la
sua «indipendenza da impropri condizionamenti» (sic!).
L’incongruità
della decisione, risultante anche dalla banalità della motivazione (se così si
può definire un argomentare apodittico e meramente assertivo), è di tale
evidenza da non richiedere sottolineature. Ma qualche considerazione si impone
per illustrarne il senso e le conseguenze.
Primo. C’è anzitutto, nel provvedimento,
l’ottusa reazione della corporazione di fronte a un magistrato attento alle
dinamiche sociali, capace di empatia finanche nei confronti dei migranti e
diverso dal freddo burocrate dispensatore di condanne nei confronti dei più
deboli. Scriveva Troisi nel libro che gli meritò la condanna: «Alle nostre
spalle e di tutti gli altri (giudici) ora in funzione c’è il crocefisso e la
scritta: “La legge è uguale per tutti”; domani, in luogo del crocefisso potrà
esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà
le spalle. Giacché noi siamo sempre da quella parte. Oggi dalla parte di un
sistema, non certo il migliore, che ci obbliga a difenderlo con leggi vecchie.
Scegliamo questo mestiere per la tendenza a scavarci un riparo vivendo con i
forti, per una vocazione all’impunità; la compassione che talvolta proviamo è
forse solo un calcolato disegno, una regola di prudenza». Il fatto che una
magistrato – con i suoi provvedimenti, con i suoi interventi critici e con
il suo impegno nella società – fuoriesca da quel ruolo è intollerabile per i
suoi colleghi ortodossi e lo rende un diverso da emarginare.
Di qui una prima ragione della censura a Sirianni.
Secondo. Ma non c’è solo questo. C’è anche
un’evidente voglia di normalizzazione collettiva. L’anomalia
di una magistratura non burocratica e funzionariale, soggetta soltanto alla
legge (e per questo disobbediente a tutto ciò che legge non è, a cominciare dal
palazzo, dalla sua cultura e dalle sue relazioni) non è gradita al Governo e
alla maggioranza politica (non solo a quella attuale, ovviamente): meglio
rimuoverla colpendone, a mo’ di esempio, alcuni esponenti significativi. Talora
per convinzione, talaltra per convenienza (o per quieto vivere). Lo dice,
neppur troppo tra le righe, la delibera adottata dal Csm laddove – “voce dal
sen fuggita” – contesta a Sirianni «la capacità di influenzare gli organi
politici e la pubblica opinione in ragione dell’appartenenza a uno dei gruppi
della magistratura associata». È una vecchia storia, che qualche ingenuo
riteneva relegata nei lontani anni ’60 e ’70, quando le azioni disciplinari o le
censure di vario tipo erano all’ordine del giorno nei confronti dei magistrati
ritenuti eretici: per avere partecipato a manifestazioni, per avere
criticato provvedimenti o prassi giudiziarie, per avere frequentato assemblee
sindacati, persino «per avere intrattenuto una relazione con una donna di
colore»… La mancata conferma di Sirianni (con la censura che esprime) si
colloca in questa prospettiva, tesa a normalizzare la magistratura emarginando
ogni devianza (individuale o collettiva) dal modello gradito
all’establishment e a chiudere così una stagione in cui almeno una
parte di giudici e pubblici ministeri ha provato a inverare una concezione
democratica del proprio ruolo. Basta decodificare la delibera: dire che
esprimere (addirittura in privato) valutazioni di fatti e
convincimenti ideali fa venir meno l’autorevolezza culturale e
l’indipendenza richieste a un magistrato significa – come è stato,
vanamente, osservato, nel dibattito in Consiglio – affermare che i magistrati
devono essere refrattari, anzi estranei, all’impegno culturale e sociale.
Terzo. Il Consiglio superiore ha
deliberato a maggioranza, un’ampia maggioranza a cui si è accodata,
con un’imbelle astensione, la più parte dei consiglieri
aderenti ad Area, la componente associativa comunemente definita, per
la pigrizia culturale che caratterizza le nostre cronache, di ispirazione
progressista. È, anche questo, un modello di subalternità che vanta precedenti
illustri negli anni ’70 e che ha trovato una recente consacrazione nell’affaire Ferri-Palamara
(tuttora inconcluso). Ispirazione progressista significa, nelle
dinamiche giudiziarie come nella politica generale, riferimento a un diverso
mondo possibile (ispirato a valori di uguaglianza e di diritti) e
contributo a costruirlo nella giurisdizione e, anche, nei rapporti sociali
di chi la esercita. Altrimenti di progressismo non c’è proprio nulla.
Sirianni
andrà orgoglioso di questa “non conferma” (o censura), che ne
sottolinea l’alterità rispetto al modello imperante di giudice
burocrate, e continuerà serenamente a operare, professionalmente e nel
dibattito pubblico, come ha fatto sino ad oggi. Ma a preoccuparsi e a
reagire – come segnala un documento di Magistratura democratica (https://www.magistraturademocratica.it/articolo/se-la-criticita-e-la-liberta) – deve essere la parte più
attenta dei giudici e della società perché questo precedente
rappresenta un pericolo per la magistratura e per ciascun magistrato, spinto,
con la minaccia di sanzioni, verso un conformismo acritico sul
versante professionale, nei comportamenti e nelle relazioni,
con limitazione dei diritti fondamentali di libertà di pensiero
e di associazione e di un esercizio indipendente e costituzionalmente orientato
della giurisdizione.
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