martedì 25 luglio 2023

Un giudice “pericoloso” o un ritorno agli anni ’50? - Livio Pepino

 

Era il 22 novembre 1957 quando la Corte disciplinare di Roma censurò il giudice Dante Troisi, reo di avere rappresentato i magistrati «come avidi di carriera, privi di responsabilità, infastiditi di dover giudicare per uno stipendio non soddisfacente» così «producendo nel lettore un senso di sfiducia nell’ordine giudiziario». Superfluo ricordare che, come i lettori più acculturati sanno, Dante Troisi, giudice a Cassino e poi presidente di sezione al Tribunale di Roma, fu uno scrittore di grande talento e che la sua opera più nota – il racconto lungo di ispirazione autobiografica Diario di un giudice, pubblicato nel 1955 da Einaudi – venne considerata unanimemente dalla critica un “avvenimento” letterario. Non così dall’istituzione giudiziaria, che avvertì Troisi come un corpo estraneo, un pericolo per il proprio burocratico conformismo e reagì applicandogli la sanzione disciplinare della censura, nonostante l’appassionata difesa di Alessandro Galante Garrone e l’ammirazione di Piero Calamandrei (che di lui disse: «se il conformismo l’avesse già vinto, se l’attesa della promozione avesse già fatto tacere nel suo cuore le invocazioni e le invettive degli umili sacrificati, queste pagine non sarebbero state scritte»).

La vicenda mi è tornata alla mente in questi giorni di fronte al provvedimento del Consiglio superiore della magistratura che, il 12 luglio scorso, ha negato la conferma nell’incarico di presidente della sezione lavoro della Corte d’appello di Catanzaro a Emilio Sirianni, esponente di Magistratura democratica (e, tra l’altro, collaboratore di questo sito), noto per il suo impegno sociale e culturale e soprattutto – colpa gravissima in un paese in cui è un vanto intrattenere rapporti con bancarottieri e faccendieri – amico di Domenico Lucano (sindaco di Riace e artefice di un modello di accoglienza dei migranti studiato in tutto il mondo, poi sottoposto, con riferimento a tale attività, a procedimento penale tuttora in corso). Il fatto ha dell’incredibile e merita una sintetica ricostruzione e alcune considerazioni.

La censura – ché di ciò, sostanzialmente, si tratta – è stata originata dal contenuto di alcune conversazioni intervenute nel lontano 2017 e intercettate nell’ambito dell’indagine su Lucano, nelle quali Sirianni, parlando con l’allora sindaco di Riace, commentava gli accertamenti ispettivi in atto sulla sua attività amministrativa, gli esprimeva solidarietà e formulava giudizi critici su alcuni personaggi (tra i quali il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri) che si erano, a loro volta, espressi sulla vicenda. Critiche e commenti, formulati con i toni diretti e vivaci propri di una conversazione privata tra amici, erano assolutamente trasparenti (tanto che Sirianni ha chiesto in ogni sede la pubblicità delle udienze) e del tutto estranei alla sfera della sua attività professionale, sia per materia che per territorio. Cionondimeno Sirianni è stato sottoposto a una vera e propria persecuzione, comprensiva di un procedimento penale, un giudizio disciplinare e una procedura per trasferimento di ufficio, tutti definiti, inevitabilmente data la natura dei fatti, con decisioni totalmente liberatorie che hanno escluso, nel suo comportamento, qualsivoglia profilo di illiceità o di inopportunità tale da lederne l’immagine o il prestigio. Di più, i pareri sulla conferma nell’incarico resi, all’unanimità, dal Consiglio giudiziario di Catanzaro prima e dopo i fatti in esame descrivono Sirianni come magistrato dotato di «eccellente capacità organizzativa e direttiva che, con impegno, sobrietà e rigore ha eliminato le pendenze della sezione lavoro da lui diretta» e aggiungono che nessun effetto sulla sua credibilità ed autorevolezza è derivato dalle conversazioni con Lucano. Nonostante ciò il Consiglio superiore della magistratura – che, con un atteggiamento di copertura corporativa più volte denunciato, non ha pressoché mai negato la conferma a dirigenti inetti, incapaci di assicurare all’ufficio una funzionalità minima, coinvolti in frequentazioni discutibili e finanche condannati in sede disciplinare – ha voluto mostrare il proprio inflessibile rigore censurando Sirianni per avere perso la sua «autorevolezza culturale» e la sua «indipendenza da impropri condizionamenti» (sic!).

L’incongruità della decisione, risultante anche dalla banalità della motivazione (se così si può definire un argomentare apodittico e meramente assertivo), è di tale evidenza da non richiedere sottolineature. Ma qualche considerazione si impone per illustrarne il senso e le conseguenze.

Primo. C’è anzitutto, nel provvedimento, l’ottusa reazione della corporazione di fronte a un magistrato attento alle dinamiche sociali, capace di empatia finanche nei confronti dei migranti e diverso dal freddo burocrate dispensatore di condanne nei confronti dei più deboli. Scriveva Troisi nel libro che gli meritò la condanna: «Alle nostre spalle e di tutti gli altri (giudici) ora in funzione c’è il crocefisso e la scritta: “La legge è uguale per tutti”; domani, in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Giacché noi siamo sempre da quella parte. Oggi dalla parte di un sistema, non certo il migliore, che ci obbliga a difenderlo con leggi vecchie. Scegliamo questo mestiere per la tendenza a scavarci un riparo vivendo con i forti, per una vocazione all’impunità; la compassione che talvolta proviamo è forse solo un calcolato disegno, una regola di prudenza». Il fatto che una magistrato – con i suoi provvedimenti, con i suoi interventi critici e con il suo impegno nella società – fuoriesca da quel ruolo è intollerabile per i suoi colleghi ortodossi e lo rende un diverso da emarginare. Di qui una prima ragione della censura a Sirianni.

Secondo. Ma non c’è solo questo. C’è anche un’evidente voglia di normalizzazione collettiva. L’anomalia di una magistratura non burocratica e funzionariale, soggetta soltanto alla legge (e per questo disobbediente a tutto ciò che legge non è, a cominciare dal palazzo, dalla sua cultura e dalle sue relazioni) non è gradita al Governo e alla maggioranza politica (non solo a quella attuale, ovviamente): meglio rimuoverla colpendone, a mo’ di esempio, alcuni esponenti significativi. Talora per convinzione, talaltra per convenienza (o per quieto vivere). Lo dice, neppur troppo tra le righe, la delibera adottata dal Csm laddove – “voce dal sen fuggita” – contesta a Sirianni «la capacità di influenzare gli organi politici e la pubblica opinione in ragione dell’appartenenza a uno dei gruppi della magistratura associata». È una vecchia storia, che qualche ingenuo riteneva relegata nei lontani anni ’60 e ’70, quando le azioni disciplinari o le censure di vario tipo erano all’ordine del giorno nei confronti dei magistrati ritenuti eretici: per avere partecipato a manifestazioni, per avere criticato provvedimenti o prassi giudiziarie, per avere frequentato assemblee sindacati, persino «per avere intrattenuto una relazione con una donna di colore»… La mancata conferma di Sirianni (con la censura che esprime) si colloca in questa prospettiva, tesa a normalizzare la magistratura emarginando ogni devianza (individuale o collettiva) dal modello gradito all’establishment e a chiudere così una stagione in cui almeno una parte di giudici e pubblici ministeri ha provato a inverare una concezione democratica del proprio ruolo. Basta decodificare la delibera: dire che esprimere (addirittura in privato) valutazioni di fatti e convincimenti ideali fa venir meno l’autorevolezza culturale e l’indipendenza richieste a un magistrato significa – come è stato, vanamente, osservato, nel dibattito in Consiglio – affermare che i magistrati devono essere refrattari, anzi estranei, all’impegno culturale e sociale.

Terzo. Il Consiglio superiore ha deliberato a maggioranza, un’ampia maggioranza a cui si è accodata, con un’imbelle astensione, la più parte dei consiglieri aderenti ad Area, la componente associativa comunemente definita, per la pigrizia culturale che caratterizza le nostre cronache, di ispirazione progressista. È, anche questo, un modello di subalternità che vanta precedenti illustri negli anni ’70 e che ha trovato una recente consacrazione nell’affaire Ferri-Palamara (tuttora inconcluso). Ispirazione progressista significa, nelle dinamiche giudiziarie come nella politica generale, riferimento a un diverso mondo possibile (ispirato a valori di uguaglianza e di diritti) e contributo a costruirlo nella giurisdizione e, anche, nei rapporti sociali di chi la esercita. Altrimenti di progressismo non c’è proprio nulla.

Sirianni andrà orgoglioso di questa “non conferma” (o censura), che ne sottolinea l’alterità rispetto al modello imperante di giudice burocrate, e continuerà serenamente a operare, professionalmente e nel dibattito pubblico, come ha fatto sino ad oggi. Ma a preoccuparsi e a reagire – come segnala un documento di Magistratura democratica (https://www.magistraturademocratica.it/articolo/se-la-criticita-e-la-liberta) – deve essere la parte più attenta dei giudici e della società perché questo precedente rappresenta un pericolo per la magistratura e per ciascun magistrato, spinto, con la minaccia di sanzioni, verso un conformismo acritico sul versante professionale, nei comportamenti e nelle relazioni, con limitazione dei diritti fondamentali di libertà di pensiero e di associazione e di un esercizio indipendente e costituzionalmente orientato della giurisdizione.

da qui

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