La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
domenica 9 luglio 2023
a Jenin, come sempre
Jenin, l'equidistanza dei "sempre buoni" - Patrizia Cecconi
Un quarantenne pedofilo, ricco, atletico, palestrato è
stato condannato per violenza dopo numerosi abusi su un bimbo di 4 anni.
Condannato per violenza anche il bambino il quale, per difendersi, ha morso e
graffiato a sangue il suo violentatore.
Una notizia
simile porta a chiedersi se chi ha condannato il piccolo al pari del suo
aggressore sia sano di mente, oppure se non sia un sostenitore del
pedofilo al quale la condanna del bambino offre una sorta di attenuante o
se, più semplicemente, la condanna “equidistante” non sia dettata dal timore di
una querela per odio di classe, o magari di religione - che di questi
tempi ci sta bene – da parte del ricco e potente pedofilo.
Se al posto
del ricco violentatore poniamo il governo, o meglio i governi israeliani
e l’esercito che devasta, uccide, arresta, terrorizza il popolo sotto
occupazione eseguendo ordini criminali, e al posto del bambino poniamo la
resistenza palestinese, resta da chiedersi come si fa a scrivere che “condanniamo
l’ennesima operazione militare israeliana in Cisgiordania, nel campo profughi
di Jenin, come condanniamo l’uso della violenza da parte palestinese” come
si legge nell’appello promosso dalla Rete italiana pace e disarmo e firmato da molte
associazioni, generalmente attente alle violenze quasi secolari subite dal
popolo palestinese per mano del terrorismo, ebraico prima della proclamazione
dello Stato di Israele, e del terrorismo israeliano dal 14 maggio del 1948.
Il
documento, presentato da una testata on line come appello “contro la
violenza e per la pace” è uno dei più fulgidi esempi di (supponiamo
involontario) sostegno allo Stato di Israele che, se non si temesse la
strumentalizzazione della verità, si potrebbe tranquillamente definire Stato
canaglia secondo gli stessi parametri che hanno attribuito tale definizione ad
altri Stati aggressori e violatori dei diritti umani e del diritto
internazionale.
Entriamo nel
merito del documento che, dopo l’incipit di condanna “equidistante”, ricorda “quanto
sta accadendo in questi giorni a Jenin” dimenticando (forse?) che da
gennaio ad oggi, quindi solo in questi ultimi sei mesi, Israele ha ucciso quasi
200 palestinesi, bambini compresi; ha bombardato e distrutto case, scuole,
strade, ospedali; ha ferito circa 1.500 persone; ha arrestato migliaia di
palestinesi senza altro motivo che quello di tacitare il loro diritto di
rivendicare la libertà. Parliamo solo degli ultimi sei mesi, ma è sufficiente
per porre Israele in concorrenza con quegli Stati totalitari ai quali, in nome
del nostro essere democratici, chiediamo il rispetto dei diritti umani.
Da bravi
italiani siamo abituati alle notizie di cronaca nera relative alle faide di
mafia, camorra e simili che insanguinano le strade della nostra terra e non
sarebbe molto carino sostenere che “poco conta” se le proporzioni di morti tra
i clan malavitosi sono diverse, invece l’appello in esame scrive di “una
sequela di vendette e di lutti che da decenni colpisce entrambe le popolazioni,
anche se con proporzioni diverse, ma poco conta…” per proseguire
con un generico richiamo alla necessità che la Comunità internazionale fermi
questo stillicidio di vite riaffermando il diritto del popolo palestinese ad
avere un proprio Stato sui confini del 5 giugno 1967. Si badi bene che quei
confini (peraltro senza tener conto della necessità, probabilmente impossibile,
di smantellare le illegali colonie che si sono appropriate di quasi tutti i
Territori sotto occupazione) non sono quelli fissati dalla sbandierata e mai
rispettata Risoluzione 181 che intendeva dividere la Palestina storica in
due Stati (56% a Israele, 43,6% Palestina e 0,4% luoghi sacri sotto tutela
internazionale) perché - e ci sembra importante ricordarlo - la citata
Risoluzione ONU, avversata dagli arabi come tutti sanno, non è mai
stata accolta da Israele, come invece in pochi sanno, e infatti Israele si è
appropriato del 78% della Palestina storica lasciandone ai Palestinesisolo
il 22% che poi, nel 1967, avrebbe militarmente occupato e gradualmente
colonizzato nel più totale disprezzo del diritto internazionale.
I redattori
e i firmatari dell’appello conoscono bene quanto appena precisato e quindi, ci
chiediamo, perché tanto negligente pressappochismo?
Forse per sentirsi a posto con la propria coscienza era necessario appellarsi
alla trita richiesta dei due popoli/due Stati come se il riconoscimento
simbolico di uno Stato privo di sovranità statuale e conseguenti diritti fosse
la soluzione del problema e la fine delle violenze? O forse perché questo, come
scritto nell’appello, sarebbe “il miglior investimento anche per il popolo
israeliano per uscire dal ricatto della sicurezza nazionale”?
E allora ecco la bella chiusa del documento con la richiesta a Parlamento e
Governo italiani di “mandare un segnale di pacificazione dando corso
al riconoscimento dello Stato di Palestina”.
Gli ultimi
circa 200 martiri palestinesi - certamente violenti come il bimbo di 4 anni
della metafora - chiedevano la fine dell’occupazione (illegale, ricordiamolo!)
e il diritto del loro popolo all’autodeterminazione. Chiedevano il rispetto di
un diritto riconosciuto e sostenuto dalla legalità internazionale e sono stati
uccisi. Uccisi non perché terroristi come la volgarità dei media mainstream e
dei nostri inviati televisivi (v. Gianniti) li definisce, ma perché si
opponevano attivamente al giogo dell’occupazione militare, alla colonizzazione,
all’apartheid e, quindi, al progetto Israeliano di annessione territoriale.
Nel corso di
questi decenni i palestinesi che non si sono arresi e non hanno seguito le
sirene dell’occidente hanno adottato diverse forme di lotta per rivendicare i
loro vilipesi diritti. Hanno avuto la fase della lotta armata e sono stati
schiacciati dalla potenza israeliana coadiuvata dalle complicità occidentali.
Hanno avuto la fase della lotta nonviolenta e sono stati ugualmente sterminati.
Stesse complicità occidentali, stesse connivenze mediatiche. Qualche voce
istituzionale si è alzata, riabbassandosi subito dopo “un’ eroica” quanto
inutile vibrata protesta. In tutto questo, i militari palestinesi non
hanno voce in capitolo se non per arrestare i resistenti attivi collaborando
(in nome dei famigerati accordi di Oslo) con la sicurezza israeliana.
Ma qualcosa sta cambiando, infatti tra i martiri, assassinati dagli israeliani,
ultimamente sembra si annoveri anche qualche militare dell’Anp che ha capito da
quale parte stare. Ci sarà emulazione? L’Anp prenderà una posizione attiva al
di là delle denunce verbali? Il martire è un testimone, questo i
palestinesi lo sanno e lo rivendicano, e i testimoni portano all’effetto
domino. La storia ce lo insegna e Israele lo temeva e lo teme perché questo
rallenta il suo progetto. Un progetto di cui solo chi è ingenuo o in
malafede può limitarsi ad accusare soltanto il governo fascista attuale, perché
è lo stesso progetto del socialista Ben Gurion o della socialista Golda Meir le
cui mani grondano di sangue palestinese non meno di quelle dei fascisti
Netanyahu o Smotrich o Ben Gvir. Il piano, strategico illegale e criminale, è
quello dell’annessione di tutta la Palestina lasciando, tutt’al più, delle
“riserve” in cui rinchiudere i palestinesi che non avranno lasciato la loro
terra. Non sono nostre illazioni ma fatti comprovati dai documenti
desecrati che formano l’ossatura di alcuni volumi dello storico ebreo israeliano
Ilan Pappé.
Davanti a
tutto ciò, che è solo una parziale sintesi della ben più drammatica realtà,
suona – sebbene involontariamente – ingiurioso chiedere “pace giusta”
attraverso la nonviolenza del popolo sotto occupazione militare e coloniale.
Citando
Franz Fanon, che di colonialismo purtroppo se ne intendeva, nei momenti
decisivi, quelli in cui il colonialismo sembra vacillare, si introduce la
nozione della nonviolenza come pratica richiesta all’oppresso e non certo,
ovviamente, all’oppressore. “La nonviolenza – scrive Fanon ne ‘I
dannati della terra’ – è un tentativo di risolvere il problema
coloniale attorno a un tappeto verde… ma se le masse, senza aspettare che le
sedie siano disposte attorno al tappeto verde, non ascoltano più che la propria
voce e cominciano gli attentati…” allora si vedono “i buoni amici”
correre alla ricerca di un compromesso prendendo le distanze dalla violenza
degli oppressi.
Concludiamo,
mentre arrivano dalla Palestina – non certo attraverso i media mainstream –
notizie di nuovi arbitrari arresti e sapendo che la lista dei martiri si
allungherà. Concludiamo, dunque, riflettendo su un principio molto semplice, un
principio al quale dovrebbe attenersi anche il giornalismo onesto, e cioè che
la solidarietà autentica verso una comunità, un popolo, o uno Stato aggredito
esige rispetto. Rispetto per il diritto di quel popolo all’autodeterminazione
e, contemporaneamente, esige il riconoscimento della violenza originaria,
perché è quella che va condannata, altrimenti non si fa informazione onesta ma
servile, sia che si tratti di favorire il ricco pedofilo sia che ci si prostri
a servizio di uno Stato canaglia.
Jenin
e il velo strappato dell’ipocrisia - Pasquale
Liguori
Ogni giorno, da troppi
decenni, i palestinesi sono calpestati dalla vile pressione dell’occupazione
militare, umiliati da crimini e dall’apartheid loro imposta da Israele,
indifferente alle numerose risoluzioni di condanna Onu e non ottemperante alle
norme di diritto internazionale e penale.
Di tanto in tanto,
quando proprio non può esser più nascosta la portata sanguinaria dei crimini
giunti al picco del loro luttuoso bilancio, i media mainstream sono costretti a
far cronaca. E allora si scosta appena un po’ il velo ipocrita che abitualmente
tace di quel torrente quotidiano di sangue, soprusi e illeciti che scorre
impetuoso su quelle terre vessate. Spesso lo si fa, però, con aumentata
ipocrisia inneggiante alle gesta dell’unica democrazia in Medio Oriente
(Israele che, per il linguaggio in voga, è invece l’aggressore) che si oppone a
fazioni terroriste (invero, i palestinesi aggrediti che resistono).
In questa proposta
rovesciata dei fatti, se confrontata a quanto gli stessi media diffondono circa
gli eventi in Ucraina, si narra dunque di un’azione militare preventiva
condotta nella Cisgiordania settentrionale, a Jenin, diretta a neutralizzare un
manipolo di terroristi asserragliati in un campo profughi. Si è trattato invece di un’ingente e cruenta
operazione come non si registrava da anni contro la già super-affollata e
disagiata comunità di palestinesi in passato spossessati delle loro terre e dei
loro averi e, di nuovo, vittime oggi di una furia devastatrice e genocida da
parte dell’esercito di occupazione israeliano.
Il bilancio: almeno 12 morti, circa 4mila sfollati,
strade divelte, reti idriche ed elettriche compromesse a fronte della cattura
di qualche cesto di petardi e alcune bombole di gas.
Privi del sostegno di
un organismo di riferimento quale dovrebbe essere l’Autorità palestinese, vista
peraltro come ente inetto e persino collaborazionista col regime israeliano, i
giovani del luogo provano a resistere contro un futuro che per loro si
preannuncia oscuro, se non funesto.
In un quadro così
deplorevole di dolore e ingiustizie appare utile dar
voce alla denuncia ufficiale a riguardo esposta da alcune Relatrici speciali
delle Nazioni Unite e diramata attraverso un comunicato stampa di
seguito riportato e tradotto alla lettera.
Nessun commento:
Posta un commento