sabato 15 luglio 2023

La Palestina è una prigione a cielo aperto, dice la relatrice delle Nazione Unite per la Palestina, Francesca Albanese

 

 

"Una prigione a cielo aperto. Non c'è altro modo di descriverlo". Relatrice ONU Albanese presenta il secondo rapporto sui Territori occupati palestinesi

 

La relatrice delle Nazione Unite per la Palestina, Francesca Albanese, ha tenuto una conferenza stampa per presentare il suo nuovo rapporto sui continui abusi del regime israeliano ai danni dei palestinesi.

I temi principali del rapporto, in particolare gli abusi subiti dai bambini palestinesi, erano stati anticipati dalla relatrice Onu a l'AntiDiplomatico in un’intervista di Patrizia Cecconi.

Albanese ha ribadito che Israele ha trasformato i territori palestinesi occupati in una "prigione a cielo aperto" a causa delle campagne di detenzione su larga scala condotte regolarmente dalle forze di occupazione israeliane (IOF).



Durante la conferenza stampa, Albanese senza usare mezzi termini ha confermato che "non c'è altro modo per definire il regime che Israele ha imposto ai palestinesi - che è l'apartheid per impostazione predefinita - se non una prigione a cielo aperto".

Inoltre, la Relatrice ONU ha spiegato che "considerando tutti i palestinesi una potenziale minaccia alla sicurezza, Israele sta offuscando il confine tra la sua sicurezza e la sicurezza del suo piano di annessione... I palestinesi sono presunti colpevoli senza prove, arrestati senza mandato, detenuti senza accusa o processo molto spesso, e brutalizzati durante la custodia israeliana".

Albanese ha anche sottolineato, sulla base di un'indagine durata sei mesi e di "consultazioni, testimonianze, contributi delle parti interessate e un'analisi completa di fonti primarie e pubbliche", che solo dal 1967 circa 800.000 palestinesi, compresi i bambini, sono stati arrestati e detenuti dalle autorità israeliane.

Significativamente, "il continuo rifiuto di Israele di facilitare il suo ingresso" ha proibito al Relatore Speciale di entrare nei territori palestinesi occupati. Ciò non le ha impedito di sostenere che le pratiche di detenzione messe in atto da Israele potrebbero costituire reati internazionali.

A sua volta, desiderosa di negare le dichiarazioni fatte da Albanese, la missione israeliana permanente presso le Nazioni Unite a Ginevra ha preso di mira albanese piuttosto che dimostrare che le sue affermazioni erano senza fondamento. La delegazione di Tel Aviv, secondo l’Agenzia Reuters, ha precisato che "Israele non si aspetta alcun trattamento equo, obiettivo o professionale da questa relatrice speciale che è stata scelta a causa delle sue opinioni parziali contro Israele", ipotizzando in maniera assurda che "il suo mandato è stato creato con il solo scopo di discriminare Israele e gli israeliani".

da qui

 

 

"Nel mio secondo rapporto l'orrore dei 10 mila bambini palestinesi incarcerati" - Intervista esclusiva alla Relatrice speciale Onu Francesca Albanese

 

di Patrizia Cecconi

 

Mentre proseguono nel silenzio generale dei media mainstream le uccisioni sommarie di centinaia di civili palestinesi, come quella del piccolo Tamimi di soli due anni, le demolizioni e le confische di case e terre palestinesi, le aggressioni dei coloni e tanto altro, abbiamo deciso di intervistare la Relatrice speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nel Territorio palestinese occupato : la dottoressa Francesca Albanese, accademica, giurista specializzata in diritti umani e diritto internazionale e, in passato, funzionaria alle Nazioni Unite nel settore dei diritto umanitario.

Il ruolo di Relatore/Relatrice speciale Onu è un incarico – gratuito – affidato ad una figura esperta, indipendente dalle Nazioni Unite, nominata dal Consiglio per i diritti umani. Il compito di chi svolge questo ruolo è di indagare, monitorare e riferire all’Onu su questioni relative ai diritti umani e loro eventuali violazioni, fornire consulenze sulla cooperazione tecnica e svolgere attività di sensibilizzazione in generale.

Francesca Albanese è la prima donna a ricoprire quest’incarico in oltre trent’anni di esistenza del mandato ed ha presentato il suo primo rapporto all’Assemblea Generale dell’Onu lo scorso mese di ottobre, avente a tema il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese violato da 56 anni di occupazione israeliana e conseguente apartheid nel Territorio palestinese occupato (Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza). Un rapporto inattaccabile per la solidità delle analisi fattuale e giuridica, che le ha meritato non poche critiche e il tentativo di delegittimazione con la più
indegna e strumentale accusa: quella di antisemitismo. Questo per aver denunciato l’operato di Israele nel Territorio palestinese occupato (la presenza delle autorità palestinesi non cambia ne’ di fatto ne’ di diritto le responsabilità di Israele come potenza occupante). Ed infatti dopo la presentazione del suo rapporto era stata chiesta la sua rimozione dall’incarico appena assunto visto che 9 anni fa, nel 2014, aveva esposto il suo pensiero su uno dei più feroci bombardamenti israeliani contro la popolazione di Gaza criticando Europa e USA che non facevano nulla per fermare il massacro e avviare un serio negoziato di pace.

Difficile cogliere in quella critica tracce di antisemitismo, ma tanto è bastato a chi sa gestire come bavaglio un’accusa tanto strumentale, per cercare di tacitarla. Una tattica che spesso funziona ma con Francesca Albanese non ha funzionato e il suo coraggioso rapporto, seppur non ha abbattuto il ciclopico muro che garantisce l’impunità israeliana, ha creato più di una breccia in quel muro, fatto di silenzio mediatico sui crimini “di routine” e rinforzato dalla narrazione dei fatti nella sola versione israeliana.


L'INTERVISTA

Dottoressa Albanese, la presentazione del suo primo rapporto all’Assemblea Generale Onu sulla situazione nel Territorio palestinese occupato ha dato luogo ad attacchi violenti che sono andati ben oltre il legittimo diritto di critica, configurandosi in veri e propri insulti, addirittura accompagnati da richieste di destituzione dal suo incarico. Cosa risponde ai tentativi di delegittimazione del suo ruolo e del suo coraggioso lavoro avanzati dai supporter italiani di Israele?

Premetto che non mi sento una voce fuori dal coro in termini assoluti perché sono tanti a denunciare le politiche e le pratiche d’Israele nella Palestina occupata: attivisti, accademici, professionisti, intellettuali ma anche tanta gente comune. Probabilmente quello che mi rende fuori dal coro nella percezione collettiva è il fatto che io cerchi di fare chiarezza utilizzando rigorosamente il dettato normativo, non facilmente attaccabile sulla sostanza, ma anche tenendo conto del contesto storico di cui 56 anni di occupazione militare fanno parte, all’interno delle Nazioni Unite. Questa visibilità è temuta da chi cerca di affossare la prospettiva dei diritti dei palestinesi, negati da decenni, in nome della sicurezza israeliana. Da tempo Israele confonde la sua sicurezza con la sicurezza del suo piano di annessione del territorio occupato (assolutamente proibita dal diritto internazionale), che persegue da decenni a danno dei palestinesi. Io questo continuo ad osservarlo e lo denuncio candidamente. Non avrei nessuna difficoltà a confrontarmi con i miei detrattori, ma non succede perché non potendo difendere nel merito di ciò che io denuncio, ci si concentra a distruggere la reputazione del mio mandato e della mia persona.
Questo non è affatto una novità per il ruolo che ricopro: chi mi ha preceduto, e tra questi soprattutto Richard Falk e Michael Link, ha subito gli stessi attacchi. Inoltre, l’aver scelto di essere una voce udibile anche al di fuori del mondo degli addetti ai lavori delle Nazioni Unite (in seno all’Assemblea Generale e il Consiglio dei Diritti Umani), mi ha reso più visibile in ambito mediatico e dunque maggiormente attaccabile. Ma l’obiettivo è chiaro. Ledere la mia credibilità e quella del mio mandato, è un tentativo per deflettere l’attenzione dal merito del mio lavoro.
Va però detto che in questo mio primo anno di mandato, ad ogni attacco contro di me è corrisposta una mobilitazione di solidarietà nei miei confronti senza precedenti, sostenuta da voci autorevolissime, incluse tante personalità del mondo ebraico. Questo mi incoraggia a continuare a fare il mio lavoro in modo obiettivo e trasparente, dando importanza alle critiche di merito e ignorando quelle di sicofanti e di pseudo-intellettuali dalla doppia morale.

Critiche che certamente si rinfocoleranno alla presentazione del suo secondo rapporto il quale, suppongo, non sarà meno esplicito e, per così dire, meno urticante del primo visto che i crimini e le violazioni del diritto internazionale proseguono impunemente. Tra quanto verrà pubblicato? Può darci qualche anticipazione sul contenuto?

Il mio secondo rapporto si concentra sulla privazione della libertà personale nel territoriopalestinese occupato. Quindi su ciò che porta ad arresti e detenzioni di palestinesi principalmente, ma non esclusivamente per mano delle forze israeliane. In questo studio ho esaminato 56 anni di ordini militari e pratiche volte ad arresti, trasferimenti, interrogatori e detenzioni di palestinesi, il tutto supportato da decenni di inchieste di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali. Scrivere questo rapporto ha comportato ricerche lunghe mesi, revisione di centinaia di ordini militari e studi redatti da esperti e avvocati palestinesi e israeliani impegnati a difendere palestinesi, spesso bambini, nelle corti militari israeliane.
L’inchiesta si è concentrata tanto sulla dimensione che definisco “micro”, non in senso riduttivo ma perché relativa a singoli casi, tanto su una dimensione più ampia che chiamo di carceralità diffusa, e quindi “macro” in cui confluiscono tutti i casi singoli. In seguito alle mie indagini posso dire che ci sono diversi livelli di violazioni. Il primo è il livello di violazione dei diritti della persona nel momento in cui la si arresta e la si detiene e perché la si arresta e la si detiene. Ci sono pratiche arbitrarie, e l’elemento dell’arbitrarietà è amplificato dai volumi, dal numero delle persone coinvolte, dagli arresti di massa. Pensiamo alle centinaia di migliaia di arrestati durante 56 anni di occupazione militare e legge marziale, che, ripeto, opera al di fuori di ciò che è permesso dal diritto internazionale.
Tra il 1967 e il 2006 Israele ha arrestato 800.000 palestinesi; pur essendo questa una cifra altissima se rapportata al numero di palestinesi del Territorio occupato (attualmente circa 5 milioni), è comunque una stima riduttiva perché, ad esempio, non prende in considerazione tutte le persone che sono state arrestate più di una volta. Inoltre, in 20 anni sono stati incarcerati circa 10.000 bambini, l’orrore cui sono sottoposti merita un discorso a parte. Sono numeri importanti su una popolazione numericamente così piccola di cui la metà, a Gaza, vive sotto il blocco israeliano da 17 anni, in una condizione di incarcerazione/punizione collettiva. Sebbene sia chiaro che i Palestinesi, come tutti, possano commettere dei crimini e a volte anche efferati, la mia inchiesta ha rivelato che il sistema normativo, fatto di leggi d’emergenza risalenti al 1945 (cioè al periodo mandatario precedente alla creazione dello Stato di Israele, ndr) e migliaia di ordini militari, vaghi e confusi, è votato alla vera e propria repressione del popolo palestinese sotto occupazione e alla criminalizzazione di condotte prive della materialità dell’offesa. In questo modo vengono spesso sanzionati l’esercizio di libertà individuali e di diritti fondamentali protetti dall’ordinamento internazionale, come la libertà d’espressione e la libertà di associazione. Si pensi ad esempio che raduni di dieci o più persone in cui si discute di argomenti politici, o anche  una processione, possono essere puniti con 10 anni di prigione se non autorizzati dall’esercito. 
Israele ha recepito le “emergency laws” britanniche di ottanta anni fa che avrebbero dovuto essere  provvisorie e d’emergenza. La demolizione delle case come forma di punizione collettiva è un’eredità del mandato britannico, infatti un ordine del 1945 prevedeva la demolizione  dell’abitazione di chi avesse condotto reati contro l’autorità mandataria. Tale regime normativo - dove ‘le leggi’ sono scritte, applicate e riviste in sede giudiziaria dall’esercito, ‘uno e trino’ come ben descrive il collega Luigi Daniele - si applica solo ed esclusivamente ai Palestinesi sotto occupazione. Ai civili israeliani che vivono illegalmente nel territorio occupato - i coloni - si applica la legge (giurisdizione civile) dello Stato d’Israele. Questo dualismo legale è uno degli  elementi evidenti del sistema di apartheid che Israele pratica nei confronti dei palestinesi (cioè un sistema di violazioni gravi condotte con l’intento di un gruppo di dominare su di un altro). Inoltre, il mio studio rivela che l’arbitrarietà della privazione della libertà personale a cui i palestinesi sono costretti va ben oltre il carcere e spesso dura fin dopo la morte. Si pensi alla diffusa pratica di Israele di ‘detenere’ i corpi di persone decedute in carcere o durante operazioni militari. Le salme, trattenute dall’esercito israeliano e non restituite alle famiglie in violazione del diritto internazionale, vengono tenute in celle frigorifere in condizioni inadeguate che spesso portano al loro ulteriore deterioramento. Quando finalmente le salme vengono restituite, ai familiari vengono

spesso imposte condizioni draconiane che impediscono la sepoltura se non in ore notturne e senza funerali. Il mio rapporto fa anche luce su vere e proprie forme di ‘carceralità diffusa’, forme di confinamento fisico imposte da Israele nel territorio palestinese occupato: è proprio tutto il “sistema occupazione” che prevede barriere fisiche, barriere burocratiche, e una sorveglianza controllo digitale estremamente capillare e che trasforma tutta la Palestina occupata in una prigione a cielo aperto. Non è un’iperbole, è la realtà.
La letteratura esistente dimostra chiaramente come la carceralità diffusa sia tipica del colonialismo d’insediamento. Nel territorio palestinese occupato, non in modo dissimile da altre forme di occupazione coloniale, queste forme di controllo sono andate via via cristallizzandosi come modo per controllare la popolazione talvolta prevenendo l’incarcerazione vera e propria in prigioni israeliane che, tuttavia, seguitano a riempirsi di prigionieri palestinesi.



Grazie per queste interessanti, e tristi, anticipazioni. Passando ora ad un recente atto di teppismo che ha visto prendere di mira le chiese cristiane in Cisgiordania, vorrei farle una domanda circa i nostri operatori mediatici. Premesso che all’indifferenza  di fronte alla  violazione delle moschee ci siamo abituati, era difficile aspettarsi altrettanta indifferenza di fronte all’assalto alle chiese cristiane con statue e immagini sacre prese a martellate da teppisti provenienti dalle colonie illegali senza che le autorità israeliane prendessero provvedimenti . Perché, secondo lei, i nostri media, mentre gridano all’odio antisemita se un teppista danneggia una sinagoga, coprono questi crimini lasciando che l’opinione pubblica seguiti a ritenere Israele uno Stato democratico? Qual è il motivo di questo doppio standard?  Si tratta di autocensura generalizzata per motivi difficilmente indagabili, o di un preciso  diktat censorio imposto dall’alto?

Il diritto internazionale sostiene in modo adamantino il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, e quindi la libertà dal giogo dell’occupazione più lunga della storia contemporanea e dall’apartheid. Tale diritto, come ho spiegato nel mio primo rapporto, è un diritto inviolabile. Circa i silenzi mediatici, io penso ci sia un misto di censura e autocensura, una sorta di ostracismo forse dovuto alla paura di essere accusati di antisemitismo o di “sostenere il terrorismo”. Queste sono le accuse generalmente mosse da personalità e gruppi che proteggono ad oltranza le pratiche del governo d’Israele. Questo è in contrasto con il diritto d’informazione. In Italia tutto questo ha portato ad un forte cambiamento nell’atmosfera sociale che ha reso la gente meno informata sulla questione israelo-palestinese al contrario di quanto accadeva trent’anni fa. L’occupazione israeliana e il suo intento coloniale, a quell’epoca erano noti, narrati e compresi dalla politica come dal largo pubblico. Nel tempo la questione è stata derubricata dal discorso politico, contribuendo ad una sorta di avvizzimento del sentimento collettivo, distaccandosi tanto dai fatti quanto da un’analisi giuridica della situazione. Rispetto ad altri paesi noto anche che in Italia persino il linguaggio di coloro che si attivano per la ‘causa palestinese’ risulta talvolta eccessivamente politicizzato e non inclusivo, riflesso di una militanza un po’ vecchia e sconnessa dalla questione dei diritti umani del popolo palestinese. Per esempio, colgo talvolta un’esagerata partigianeria che spesso si riscontra in ambienti presuntamente “filopalestinesi”. L’estremo è non pronunciare il termine ‘Stato di Israele’, visto come tabù; questo atteggiamento è estraneo al lavoro di tanti palestinesi tanto sotto occupazione che nella diaspora, e non aiuta ad amplificare la loro voce, ma l’annulla sostituendosi ad essa. Io credo fortemente che lo smantellamento di una società coloniale e dell’apartheid passi per il riconoscimento dell’altro, soprattutto di quegli elementi all’interno della società dell’altro che sono pronti a lavorare assieme per una società equa e giusta. Ispirandosi alle parole di Primo Levi, nel momento in cui il nemico riconosce il suo errore già non è più nemico, quindi, in questo caso, si deve tener conto di quanto la società israeliana vada accompagnata nella decostruzione del sistema che ha messo in piedi. Questo è necessario e la comunità internazionale potrebbe fare da tramite. Non ci si può aspettare che siano i palestinesi discriminati o sotto occupazione a farsi carico da soli della costruzione di ponti con la società israeliana che adesso li domina e non li riconosce come portatori di diritti e meritevoli di protezione. La comunità internazionale dovrebbe ospitare un dibattito che riconosca ai palestinesi una sorta di posizione di primus inter pares nel debellare il colonialismo d’insediamento e costruire una società diversa, quale che sia la forma di stato che li vedrà cittadini. Questo è un altro punto centrale. In Italia la questione politica de “due Stati per due popoli” è vista come centrale mentre per i palestinesi la battaglia non è più o non tanto solo politica ma è una battaglia per il riconoscimento dei diritti umani, che potrebbero realizzarsi in uno Stato palestinese ma senza il quale (visto che uno Stato esiste ma in cattività) i diritti civili, politici, economici e culturali dei palestinesi, e il loro inalienabile diritto all’autodeterminazione, devono comunque essere realizzati.



Quindi, mettendo insieme il comportamento mediatico, quello politico generale e quello  militante, emerge un quadro che non sembra fornire elementi utili per il riconoscimento dei  diritti spettanti al popolo palestinese....

Gli ostacoli sono tanti ma così anche le opportunità, i valori in cui tanta gente ancora crede e che è forza vitale per cambiare. Si pensi alla vasta mobilitazione che si sta formando contro l’apartheid praticata contro i palestinesi, fatta di un tessuto globale variegato generazionalmente, socialmente e politicamente. E questa coalescenza per la legalità e la giustizia è necessaria anche a livello istituzionale, altrimenti non avrebbe senso l’esistenza del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui compito è promuovere l’adempimento alle norme internazionali sui diritti umani. Vorrei però porre l’accento su due fenomeni che caratterizzano (e ostacolano) il dibattito soprattutto nel mondo occidentale. Uno è quello che io chiamo violenza epistemologica, il modo in cui si può commettere violenza attraverso la narrazione e, quindi, attraverso la formazione della conoscenza e la sua trasmissione. Questo è un fenomeno comune nella stampa occidentale e italiana, dove si è progressivamente imposto attraverso un modo viziato di veicolare conoscenza e comprensione di accadimenti della realtà attuale per la definizione di una politica informata dai fatti e sostenuta dal rispetto della legalità. Questo potrebbe essere tra le cause che favoriscono il clima di pregiudizio che accoglie qualsiasi disamina della situazione nel territorio palestinese che Israele occupa militarmente e colonizza dal 1967. Il secondo punto di riflessione che vorrei sollevare è il razzismo antipalestinese, che è un sotto-capitolo dell’islamofobia diffusasi dopo l’11 settembre e che silenzia, esclude, cancella, stereotipa, diffama o deumanizza i palestinesi o le loro narrazioni (in quanto palestinesi e per tanto viste come ‘anti-israeliane’). Tale forma di razzismo ha cambiato la percezione dell’ingiustizia che vive il popolo palestinese. Mentre 40 anni fa ai palestinesi, anche quando compivano atti che potevano ammontare a crimini internazionali, veniva riconosciuto il diritto alla resistenza come movimento di liberazione nazionale, oggi si trovano in una situazione diametralmente opposta. Prendo a esempio il caso dell’organizzazione non governativa Al Haq, operativa da vari decenni nel campo dei diritti umani e riconosciuta dal Consiglio economico e sociale dell’ONU, oggi accusata da Israele, assieme ad altre organizzazioni per i diritti umani, di ‘terrorismo’. Quest’accusa è stata acriticamente estesa dalla stampa e da alcuni politici italiani anche al suo direttore generale, Shawan Jabarin, in occasione di una sua audizione presso il  nostro Parlamento. Jabarin, è un’icona della difesa dei diritti umani e della giustizia per i palestinesi, per anni perseguitato con detenzioni giudicate arbitrarie e illegali dalle Nazioni Unite. 


Sulla base di cosa, se non ignoranza e mancanza di senso della misura, gli sono state mosse simili accuse?

In quell’occasione mi sono personalmente vergognata dei miei connazionali. Il fatto che  questa vicenda - come tante altre - non si narri, non si discuta, e non si chiarisca il motivo dell’accusa infondata, ma si lasci percepire quest’ultima come vera, rientra in una forma di manipolazione dell’informazione, di violenza epistemologica, di razzismo antipalestinese. Su questo tema, connesso alla strumentalizzazione delle accuse di antisemitismo, ho intenzione di scrivere un rapporto durante il mio mandato.



In base a quanto previsto dal suo incarico circa il “fornire consulenze sulla cooperazione tecnica…” quali suggerimenti darebbe al nostro Paese, oltre che alle Nazioni Unite, per fermare questa deriva criminosa che vede il popolo palestinese vittima di un’ingiustizia legalizzata e per costringere Israele a entrare nell’alveo della legalità internazionale che fino ad oggi ha sempre calpestato?

Credo che sia necessaria un’opera di ricognizione per capire cosa stia effettivamente succedendo nel territorio palestinese occupato. Questo richiede un atto di grande onestà intellettuale e di ritorno al dettato del diritto internazionale, spesso dismesso in nome “dell’amicizia con lo Stato d’Israele”.

Bisogna prendere coscienza del fatto che le pratiche d’Israele sono largamente in violazione del diritto internazionale e possono costituire crimini di guerra e contro l’umanità. Credo che l’Italia abbia l’obbligo di muoversi nel rispetto della legalità internazionale senza doppi standard. Non si può pensare di aiutare il popolo palestinese solo attraverso l’azione umanitaria, perché il problema è politico e investe lo stesso ruolo dell’Onu, che viene svilita dinanzi alle azioni illegali di Israele e alla sua impunità. Bisogna riportare Israele nell’alveo della legalità, per cui è necessario riconoscere che lo Stato di Israele viola il diritto internazionale da decenni, non conformandosi a regole minime che la comunità internazionale si è data per garantire pace e stabilità. Quindi vanno prese le misure necessarie, offerte dalla Carta delle Nazioni Unite, anche di natura coercitiva, come misure diplomatiche politiche ed economiche, per ricondurre Israele al rispetto della legalità internazionale. D’altro canto ciò è stato fatto nei confronti della Russia quando ha aggredito l’Ucraina. Non si spiega perché a Israele non venga imposto lo stesso trattamento vista l’occupazione che mantiene da 56 anni, equiparabile anch’essa ad un’aggressione. E insisto su questo, bisogna abbandonare l’ottica del conflitto perché non si tratta di una guerra tra due Stati ma di un’occupazione illegale da parte di uno Stato che vuole colonizzare terre e risorse di un altro.

Non si può assecondare un regime che si è evoluto in forma di apartheid, retto dall’idea di mantenere una demografia sbilanciata a favore della parte ebraica della popolazione presente tra il Mediterraneo ed il fiume Giordano. L’apartheid è una conseguenza naturale, un elemento connaturato al dominio che Israele mantiene illegalmente sul territorio occupato impedendo la realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo sotto occupazione. Quindi, a coloro che nei vari parlamenti, oltre che in Italia, coprono la realtà seguitando a parlare di due Stati per due popoli suggerirei di riflettere sulla viabilità di uno Stato che è completamente assoggettato e controllato da un altro. Oggi lo Stato palestinese appare come un arcipelago di zone al più con un’autonomia ridotta o controllata. Ritengo che sia urgente chiedere la fine dell’occupazione come conditio sine qua non per qualsiasi negoziato, perché non si può imporre al popolo colonizzato di negoziare le condizioni della propria liberazione col popolo colonizzante che, peraltro, non ha alcuna intenzione di frenare le proprie ambizioni di conquista territoriale.


Movimenti come il BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni ndr) avversato fino ad essere impropriamente considerato una forma di antisemitismo, possono dare una spinta verso il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese?

Il BDS è un movimento iniziato da palestinesi che investe oggi la società civile globale, e che chiede l’applicazione del diritto internazionale, senza eccezioni e senza doppi standard. Che vi si aderisca o meno, che lo si sostenga o meno, non può essere condannato come antisemita solo perché’ rivendica il rispetto della legalità internazionale da parte dello Stato di Israele. Il BDS insiste su una questione validissima: le colonie sono un crimine di guerra. Nessuno stato dovrebbe commerciare con le colonie, indipendentemente dal movimento BDS.

Gli accordi di Oslo, o meglio l’inganno di Oslo, ha favorito l’avanzamento del progetto israeliano creando vincoli all’Autorità nazionale palestinese che tuttora sussistono. Gli accordi di Oslo non possono interpretarsi come validi se in violazione del diritto internazionale. Il diritto all’autodeterminazione è una norma perentoria del diritto internazionale (inviolabile) e che impone obblighi positivi per ogni stato membro della comunità internazionale. Quindi bisogna interrogarsi sulla validità di un accordo che dopo 30 anni dimostri la sua inefficacia di fronte a questa norma inderogabile.


I movimenti anti Netanyahu degli ultimi mesi, che rivendicano il rispetto della democrazia (ma ai quali partecipano anche elementi come Tzipi Livni che ricordiamo per il massacro di “piombo fuso”) possono incidere sulla situazione palestinese o rientrano in un quadro esclusivamente interno a Israele?

No, io penso che quella sia proprio la cartina al tornasole del suprematismo israeliano nel senso che sembrano essere in pochi a chiedersi dove siano e come vivano i palestinesi. Se la democrazia, come democrazia sostanziale, si evince da come si trattano le minoranze, non possiamo che trarre da questo un’unica conclusione. Sia i palestinesi con cittadinanza israeliana, ma soprattutto i palestinesi da 56 anni sotto occupazione militare in Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza, sono invisibili all’occhio dell’israeliano medio (non dei pochissimi che hanno chiaro il problema e che sono da sempre invisi ai governi israeliani). Il dialogo con gli Israeliani è necessario per quanto anche loro siano intrappolati dal sistema coloniale. Ne sono anche loro inconsapevolmente vittime, ma chiaramente, con una responsabilità, sofferenza ed una capacità di influenzare il cambiamento, completamente diverse. Quindi la mia risposta è che i movimenti di piazza ‘anti-Netanyahu’ non incidono per ora sulla questione palestinese. E, qualunque cosa accada, verso Israele seguita ad esserci un atteggiamento di totale laisser faire laisser passer che lo abilita, che addirittura lo coadiuva nelle violazioni che commette in totale impunità

La ringrazio per il tempo che ci ha dedicato e, a proposito di laisser faire laisser passer, le faccio un’ultima domanda e cioè, secondo lei, questa complicità si può davvero attribuire, almeno in parte, al senso di colpa dell’Europa per la terribile tragedia della Shoah?

Forse, in parte. Ma se fosse vero non si spiegherebbe l’antisemitismo che ancora oggi vergognosamente esiste in Europa, assieme ad altre forme di razzismo e xenofobia. Credo che siano però soprattutto interessi politici, economici e commerciali ad influenzare le scelte dei nostri paesi, tristemente a danno dei palestinesi. A testimonianza di questo, vorrei ricordare che già nel 1986 Joe Biden, l’attuale Presidente degli Stati Uniti, disse “Se non ci fosse uno Stato d’Israele, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inventarlo per proteggere i nostri interessi nella regione”. In conclusione possiamo dire che c’è un grande lavoro da fare, e tutto in salita. E non solo per la Palestina.

da qui

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