"Una
prigione a cielo aperto. Non c'è altro modo di descriverlo". Relatrice ONU
Albanese presenta il secondo rapporto sui Territori occupati palestinesi
La relatrice delle Nazione Unite per la Palestina,
Francesca Albanese, ha tenuto una conferenza stampa per presentare il suo nuovo
rapporto sui continui abusi del regime israeliano ai danni dei palestinesi.
I temi principali del rapporto, in particolare gli abusi
subiti dai bambini palestinesi, erano stati anticipati dalla relatrice Onu a
l'AntiDiplomatico in
un’intervista di Patrizia Cecconi.
Albanese ha ribadito che Israele ha trasformato i
territori palestinesi occupati in una "prigione a cielo aperto" a
causa delle campagne di detenzione su larga scala condotte regolarmente dalle
forze di occupazione israeliane (IOF).
Durante la conferenza stampa, Albanese senza usare mezzi termini ha confermato
che "non c'è altro modo per definire il regime che Israele ha imposto ai
palestinesi - che è l'apartheid per impostazione predefinita - se non una
prigione a cielo aperto".
Inoltre, la Relatrice ONU ha spiegato che
"considerando tutti i palestinesi una potenziale minaccia alla sicurezza,
Israele sta offuscando il confine tra la sua sicurezza e la sicurezza del suo
piano di annessione... I palestinesi sono presunti colpevoli senza prove,
arrestati senza mandato, detenuti senza accusa o processo molto spesso, e
brutalizzati durante la custodia israeliana".
Albanese ha anche sottolineato, sulla base di un'indagine
durata sei mesi e di "consultazioni, testimonianze, contributi delle parti
interessate e un'analisi completa di fonti primarie e pubbliche", che solo
dal 1967 circa 800.000 palestinesi, compresi i bambini, sono stati arrestati
e detenuti dalle autorità israeliane.
Significativamente, "il continuo rifiuto di Israele
di facilitare il suo ingresso" ha proibito al Relatore Speciale di entrare
nei territori palestinesi occupati. Ciò non le ha impedito di sostenere
che le pratiche di detenzione messe in atto da Israele potrebbero costituire
reati internazionali.
A sua volta, desiderosa di negare le dichiarazioni fatte
da Albanese, la missione israeliana permanente presso le Nazioni Unite a
Ginevra ha preso di mira albanese piuttosto che dimostrare che le sue
affermazioni erano senza fondamento. La delegazione di Tel Aviv,
secondo l’Agenzia Reuters, ha
precisato che "Israele non si aspetta alcun trattamento
equo, obiettivo o professionale da questa relatrice speciale che è stata scelta
a causa delle sue opinioni parziali contro Israele", ipotizzando in
maniera assurda che "il suo mandato è stato creato con il solo scopo di
discriminare Israele e gli israeliani".
"Nel mio
secondo rapporto l'orrore dei 10 mila bambini palestinesi incarcerati" -
Intervista esclusiva alla Relatrice speciale Onu Francesca Albanese
di Patrizia Cecconi
Mentre proseguono nel silenzio generale dei media mainstream le uccisioni
sommarie di centinaia di civili palestinesi, come quella del piccolo Tamimi di
soli due anni, le demolizioni e le confische di case e terre palestinesi, le
aggressioni dei coloni e tanto altro, abbiamo deciso di intervistare la
Relatrice speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nel Territorio
palestinese occupato : la dottoressa Francesca Albanese, accademica, giurista
specializzata in diritti umani e diritto internazionale e, in passato,
funzionaria alle Nazioni Unite nel settore dei diritto umanitario.
Il ruolo di Relatore/Relatrice speciale Onu è un incarico – gratuito – affidato
ad una figura esperta, indipendente dalle Nazioni Unite, nominata dal Consiglio
per i diritti umani. Il compito di chi svolge questo ruolo è di indagare,
monitorare e riferire all’Onu su questioni relative ai diritti umani e loro
eventuali violazioni, fornire consulenze sulla cooperazione tecnica e svolgere
attività di sensibilizzazione in generale.
Francesca Albanese è la prima donna a ricoprire quest’incarico in oltre
trent’anni di esistenza del mandato ed ha presentato il suo primo rapporto
all’Assemblea Generale dell’Onu lo scorso mese di ottobre, avente a tema il
diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese violato da 56 anni di
occupazione israeliana e conseguente apartheid nel Territorio palestinese
occupato (Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza). Un rapporto inattaccabile
per la solidità delle analisi fattuale e giuridica, che le ha meritato non
poche critiche e il tentativo di delegittimazione con la più
indegna e strumentale accusa: quella di antisemitismo. Questo per aver
denunciato l’operato di Israele nel Territorio palestinese occupato (la
presenza delle autorità palestinesi non cambia ne’ di fatto ne’ di diritto le
responsabilità di Israele come potenza occupante). Ed infatti dopo la
presentazione del suo rapporto era stata chiesta la sua rimozione dall’incarico
appena assunto visto che 9 anni fa, nel 2014, aveva esposto il suo pensiero su
uno dei più feroci bombardamenti israeliani contro la popolazione di Gaza
criticando Europa e USA che non facevano nulla per fermare il massacro e
avviare un serio negoziato di pace.
Difficile cogliere in quella critica tracce di antisemitismo, ma tanto è
bastato a chi sa gestire come bavaglio un’accusa tanto strumentale, per cercare
di tacitarla. Una tattica che spesso funziona ma con Francesca Albanese non ha
funzionato e il suo coraggioso rapporto, seppur non ha abbattuto il ciclopico
muro che garantisce l’impunità israeliana, ha creato più di una breccia in quel
muro, fatto di silenzio mediatico sui crimini “di routine” e rinforzato dalla
narrazione dei fatti nella sola versione israeliana.
L'INTERVISTA
Dottoressa Albanese, la presentazione del suo primo rapporto all’Assemblea
Generale Onu sulla situazione nel Territorio palestinese occupato ha dato luogo
ad attacchi violenti che sono andati ben oltre il legittimo diritto di critica,
configurandosi in veri e propri insulti, addirittura accompagnati da richieste
di destituzione dal suo incarico. Cosa risponde ai tentativi di
delegittimazione del suo ruolo e del suo coraggioso lavoro avanzati dai
supporter italiani di Israele?
Premetto che non mi sento una voce fuori dal coro in termini assoluti
perché sono tanti a denunciare le politiche e le pratiche d’Israele nella
Palestina occupata: attivisti, accademici, professionisti, intellettuali ma
anche tanta gente comune. Probabilmente quello che mi rende fuori dal coro
nella percezione collettiva è il fatto che io cerchi di fare chiarezza
utilizzando rigorosamente il dettato normativo, non facilmente attaccabile
sulla sostanza, ma anche tenendo conto del contesto storico di cui 56 anni di
occupazione militare fanno parte, all’interno delle Nazioni Unite. Questa
visibilità è temuta da chi cerca di affossare la prospettiva dei diritti dei
palestinesi, negati da decenni, in nome della sicurezza israeliana. Da tempo
Israele confonde la sua sicurezza con la sicurezza del suo piano di annessione
del territorio occupato (assolutamente proibita dal diritto internazionale),
che persegue da decenni a danno dei palestinesi. Io questo continuo ad
osservarlo e lo denuncio candidamente. Non avrei nessuna difficoltà a
confrontarmi con i miei detrattori, ma non succede perché non potendo difendere
nel merito di ciò che io denuncio, ci si concentra a distruggere la reputazione
del mio mandato e della mia persona.
Questo non è affatto una novità per il ruolo che ricopro: chi mi ha
preceduto, e tra questi soprattutto Richard Falk e Michael Link, ha subito gli
stessi attacchi. Inoltre, l’aver scelto di essere una voce udibile anche al di
fuori del mondo degli addetti ai lavori delle Nazioni Unite (in seno
all’Assemblea Generale e il Consiglio dei Diritti Umani), mi ha reso più
visibile in ambito mediatico e dunque maggiormente attaccabile. Ma l’obiettivo
è chiaro. Ledere la mia credibilità e quella del mio mandato, è un tentativo
per deflettere l’attenzione dal merito del mio lavoro.
Va però detto che in questo mio primo anno di mandato, ad ogni attacco
contro di me è corrisposta una mobilitazione di solidarietà nei miei confronti
senza precedenti, sostenuta da voci autorevolissime, incluse tante personalità
del mondo ebraico. Questo mi incoraggia a continuare a fare il mio lavoro in
modo obiettivo e trasparente, dando importanza alle critiche di merito e
ignorando quelle di sicofanti e di pseudo-intellettuali dalla doppia morale.
Critiche che certamente si rinfocoleranno alla presentazione del suo
secondo rapporto il quale, suppongo, non sarà meno esplicito e, per così dire,
meno urticante del primo visto che i crimini e le violazioni del diritto
internazionale proseguono impunemente. Tra quanto verrà pubblicato? Può darci
qualche anticipazione sul contenuto?
Il mio secondo rapporto si concentra sulla privazione della libertà
personale nel territoriopalestinese occupato. Quindi su ciò che porta ad
arresti e detenzioni di palestinesi principalmente, ma non esclusivamente per
mano delle forze israeliane. In questo studio ho esaminato 56 anni di ordini
militari e pratiche volte ad arresti, trasferimenti, interrogatori e detenzioni
di palestinesi, il tutto supportato da decenni di inchieste di organizzazioni
palestinesi, israeliane e internazionali. Scrivere questo rapporto ha
comportato ricerche lunghe mesi, revisione di centinaia di ordini militari e
studi redatti da esperti e avvocati palestinesi e israeliani impegnati a
difendere palestinesi, spesso bambini, nelle corti militari israeliane.
L’inchiesta si è concentrata tanto sulla dimensione che definisco “micro”, non
in senso riduttivo ma perché relativa a singoli casi, tanto su una dimensione
più ampia che chiamo di carceralità diffusa, e quindi “macro” in cui
confluiscono tutti i casi singoli. In seguito alle mie indagini posso dire che
ci sono diversi livelli di violazioni. Il primo è il livello di violazione dei
diritti della persona nel momento in cui la si arresta e la si detiene e perché
la si arresta e la si detiene. Ci sono pratiche arbitrarie, e l’elemento
dell’arbitrarietà è amplificato dai volumi, dal numero delle persone coinvolte,
dagli arresti di massa. Pensiamo alle centinaia di migliaia di arrestati
durante 56 anni di occupazione militare e legge marziale, che, ripeto, opera al
di fuori di ciò che è permesso dal diritto internazionale.
Tra il 1967 e il 2006 Israele ha arrestato 800.000 palestinesi; pur essendo
questa una cifra altissima se rapportata al numero di palestinesi del Territorio
occupato (attualmente circa 5 milioni), è comunque una stima riduttiva perché,
ad esempio, non prende in considerazione tutte le persone che sono state
arrestate più di una volta. Inoltre, in 20 anni sono stati incarcerati circa
10.000 bambini, l’orrore cui sono sottoposti merita un discorso a parte. Sono
numeri importanti su una popolazione numericamente così piccola di cui la metà,
a Gaza, vive sotto il blocco israeliano da 17 anni, in una condizione di
incarcerazione/punizione collettiva. Sebbene sia chiaro che i Palestinesi, come
tutti, possano commettere dei crimini e a volte anche efferati, la mia
inchiesta ha rivelato che il sistema normativo, fatto di leggi d’emergenza
risalenti al 1945 (cioè al periodo mandatario precedente alla creazione dello
Stato di Israele, ndr) e migliaia di ordini militari, vaghi e confusi, è votato
alla vera e propria repressione del popolo palestinese sotto occupazione e alla
criminalizzazione di condotte prive della materialità dell’offesa. In questo
modo vengono spesso sanzionati l’esercizio di libertà individuali e di diritti
fondamentali protetti dall’ordinamento internazionale, come la libertà
d’espressione e la libertà di associazione. Si pensi ad esempio che raduni di
dieci o più persone in cui si discute di argomenti politici, o anche una
processione, possono essere puniti con 10 anni di prigione se non autorizzati
dall’esercito.
Israele ha recepito le “emergency laws” britanniche di ottanta anni fa che
avrebbero dovuto essere provvisorie e d’emergenza. La demolizione delle
case come forma di punizione collettiva è un’eredità del mandato
britannico, infatti un ordine del 1945 prevedeva la demolizione
dell’abitazione di chi avesse condotto reati contro l’autorità mandataria. Tale
regime normativo - dove ‘le leggi’ sono scritte, applicate e riviste in sede
giudiziaria dall’esercito, ‘uno e trino’ come ben descrive il collega
Luigi Daniele - si applica solo ed esclusivamente ai Palestinesi sotto
occupazione. Ai civili israeliani che vivono illegalmente nel territorio
occupato - i coloni - si applica la legge (giurisdizione civile) dello Stato
d’Israele. Questo dualismo legale è uno degli elementi evidenti del
sistema di apartheid che Israele pratica nei confronti dei palestinesi (cioè
un sistema di violazioni gravi condotte con l’intento di un gruppo di
dominare su di un altro). Inoltre, il mio studio rivela che l’arbitrarietà
della privazione della libertà personale a cui i palestinesi sono costretti va
ben oltre il carcere e spesso dura fin dopo la morte. Si pensi alla diffusa
pratica di Israele di ‘detenere’ i corpi di persone decedute in carcere o
durante operazioni militari. Le salme, trattenute dall’esercito israeliano e
non restituite alle famiglie in violazione del diritto internazionale, vengono
tenute in celle frigorifere in condizioni inadeguate che spesso portano al loro
ulteriore deterioramento. Quando finalmente le salme vengono restituite, ai
familiari vengono
spesso imposte condizioni draconiane che impediscono la sepoltura se non in
ore notturne e senza funerali. Il mio rapporto fa anche luce su vere e proprie
forme di ‘carceralità diffusa’, forme di confinamento fisico imposte da Israele
nel territorio palestinese occupato: è proprio tutto il “sistema occupazione”
che prevede barriere fisiche, barriere burocratiche, e una sorveglianza
controllo digitale estremamente capillare e che trasforma tutta la Palestina
occupata in una prigione a cielo aperto. Non è un’iperbole, è la realtà.
La letteratura esistente dimostra chiaramente come la carceralità diffusa sia
tipica del colonialismo d’insediamento. Nel territorio palestinese occupato,
non in modo dissimile da altre forme di occupazione coloniale, queste forme di
controllo sono andate via via cristallizzandosi come modo per controllare la
popolazione talvolta prevenendo l’incarcerazione vera e propria in prigioni
israeliane che, tuttavia, seguitano a riempirsi di prigionieri palestinesi.
Grazie per queste interessanti, e tristi, anticipazioni. Passando ora ad un
recente atto di teppismo che ha visto prendere di mira le chiese cristiane in
Cisgiordania, vorrei farle una domanda circa i nostri operatori mediatici.
Premesso che all’indifferenza di fronte alla violazione delle
moschee ci siamo abituati, era difficile aspettarsi altrettanta indifferenza di
fronte all’assalto alle chiese cristiane con statue e immagini sacre prese a
martellate da teppisti provenienti dalle colonie illegali senza che le
autorità israeliane prendessero provvedimenti . Perché, secondo lei, i
nostri media, mentre gridano all’odio antisemita se un teppista danneggia
una sinagoga, coprono questi crimini lasciando che l’opinione
pubblica seguiti a ritenere Israele uno Stato democratico? Qual è il
motivo di questo doppio standard? Si tratta di autocensura generalizzata
per motivi difficilmente indagabili, o di un preciso diktat censorio
imposto dall’alto?
Il diritto internazionale sostiene in modo adamantino il diritto
all’autodeterminazione del popolo palestinese, e quindi la libertà dal giogo
dell’occupazione più lunga della storia contemporanea e dall’apartheid. Tale
diritto, come ho spiegato nel mio primo rapporto, è un diritto inviolabile.
Circa i silenzi mediatici, io penso ci sia un misto di censura e autocensura,
una sorta di ostracismo forse dovuto alla paura di essere accusati di
antisemitismo o di “sostenere il terrorismo”. Queste sono le accuse generalmente
mosse da personalità e gruppi che proteggono ad oltranza le pratiche del
governo d’Israele. Questo è in contrasto con il diritto d’informazione. In
Italia tutto questo ha portato ad un forte cambiamento nell’atmosfera sociale
che ha reso la gente meno informata sulla questione israelo-palestinese al
contrario di quanto accadeva trent’anni fa. L’occupazione israeliana e il suo
intento coloniale, a quell’epoca erano noti, narrati e compresi dalla politica
come dal largo pubblico. Nel tempo la questione è stata derubricata dal
discorso politico, contribuendo ad una sorta di avvizzimento del sentimento
collettivo, distaccandosi tanto dai fatti quanto da un’analisi giuridica della
situazione. Rispetto ad altri paesi noto anche che in Italia persino il
linguaggio di coloro che si attivano per la ‘causa palestinese’ risulta
talvolta eccessivamente politicizzato e non inclusivo, riflesso di una
militanza un po’ vecchia e sconnessa dalla questione dei diritti umani del
popolo palestinese. Per esempio, colgo talvolta un’esagerata partigianeria che
spesso si riscontra in ambienti presuntamente “filopalestinesi”. L’estremo è
non pronunciare il termine ‘Stato di Israele’, visto come tabù; questo
atteggiamento è estraneo al lavoro di tanti palestinesi tanto sotto occupazione
che nella diaspora, e non aiuta ad amplificare la loro voce, ma l’annulla
sostituendosi ad essa. Io credo fortemente che lo smantellamento di una società
coloniale e dell’apartheid passi per il riconoscimento dell’altro, soprattutto
di quegli elementi all’interno della società dell’altro che sono pronti a
lavorare assieme per una società equa e giusta. Ispirandosi alle parole di
Primo Levi, nel momento in cui il nemico riconosce il suo errore già non è più
nemico, quindi, in questo caso, si deve tener conto di quanto la società
israeliana vada accompagnata nella decostruzione del sistema che ha messo in
piedi. Questo è necessario e la comunità internazionale potrebbe fare da
tramite. Non ci si può aspettare che siano i palestinesi discriminati o sotto
occupazione a farsi carico da soli della costruzione di ponti con la società
israeliana che adesso li domina e non li riconosce come portatori di diritti e
meritevoli di protezione. La comunità internazionale dovrebbe ospitare un
dibattito che riconosca ai palestinesi una sorta di posizione di primus inter
pares nel debellare il colonialismo d’insediamento e costruire una società
diversa, quale che sia la forma di stato che li vedrà cittadini. Questo è un
altro punto centrale. In Italia la questione politica de “due Stati per due
popoli” è vista come centrale mentre per i palestinesi la battaglia non è più o
non tanto solo politica ma è una battaglia per il riconoscimento dei diritti
umani, che potrebbero realizzarsi in uno Stato palestinese ma senza il
quale (visto che uno Stato esiste ma in cattività) i diritti civili, politici,
economici e culturali dei palestinesi, e il loro inalienabile diritto
all’autodeterminazione, devono comunque essere realizzati.
Quindi, mettendo insieme il comportamento mediatico, quello politico
generale e quello militante, emerge un quadro che non sembra fornire
elementi utili per il riconoscimento dei diritti spettanti al popolo
palestinese....
Gli ostacoli sono tanti ma così anche le opportunità, i valori in cui tanta
gente ancora crede e che è forza vitale per cambiare. Si pensi alla vasta
mobilitazione che si sta formando contro l’apartheid praticata contro i
palestinesi, fatta di un tessuto globale variegato generazionalmente,
socialmente e politicamente. E questa coalescenza per la legalità e la
giustizia è necessaria anche a livello istituzionale, altrimenti non avrebbe
senso l’esistenza del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui
compito è promuovere l’adempimento alle norme internazionali sui diritti umani.
Vorrei però porre l’accento su due fenomeni che caratterizzano (e ostacolano)
il dibattito soprattutto nel mondo occidentale. Uno è quello che io chiamo
violenza epistemologica, il modo in cui si può commettere violenza attraverso
la narrazione e, quindi, attraverso la formazione della conoscenza e la sua
trasmissione. Questo è un fenomeno comune nella stampa occidentale e italiana,
dove si è progressivamente imposto attraverso un modo viziato di veicolare
conoscenza e comprensione di accadimenti della realtà attuale per la
definizione di una politica informata dai fatti e sostenuta dal rispetto della
legalità. Questo potrebbe essere tra le cause che favoriscono il clima di
pregiudizio che accoglie qualsiasi disamina della situazione nel territorio
palestinese che Israele occupa militarmente e colonizza dal 1967. Il secondo
punto di riflessione che vorrei sollevare è il razzismo antipalestinese, che è
un sotto-capitolo dell’islamofobia diffusasi dopo l’11 settembre e che
silenzia, esclude, cancella, stereotipa, diffama o deumanizza i palestinesi o
le loro narrazioni (in quanto palestinesi e per tanto viste come
‘anti-israeliane’). Tale forma di razzismo ha cambiato la percezione
dell’ingiustizia che vive il popolo palestinese. Mentre 40 anni fa ai
palestinesi, anche quando compivano atti che potevano ammontare a crimini
internazionali, veniva riconosciuto il diritto alla resistenza come movimento
di liberazione nazionale, oggi si trovano in una situazione diametralmente
opposta. Prendo a esempio il caso dell’organizzazione non governativa Al Haq,
operativa da vari decenni nel campo dei diritti umani e riconosciuta dal
Consiglio economico e sociale dell’ONU, oggi accusata da Israele, assieme ad
altre organizzazioni per i diritti umani, di ‘terrorismo’. Quest’accusa è stata
acriticamente estesa dalla stampa e da alcuni politici italiani anche al suo
direttore generale, Shawan Jabarin, in occasione di una sua audizione presso
il nostro Parlamento. Jabarin, è un’icona della difesa dei diritti umani
e della giustizia per i palestinesi, per anni perseguitato con detenzioni
giudicate arbitrarie e illegali dalle Nazioni Unite.
Sulla base di cosa, se non ignoranza e mancanza di senso della misura, gli
sono state mosse simili accuse?
In quell’occasione mi sono personalmente vergognata dei miei connazionali. Il
fatto che questa vicenda - come tante altre - non si narri, non si
discuta, e non si chiarisca il motivo dell’accusa infondata, ma si lasci
percepire quest’ultima come vera, rientra in una forma di manipolazione
dell’informazione, di violenza epistemologica, di razzismo antipalestinese. Su
questo tema, connesso alla strumentalizzazione delle accuse di antisemitismo,
ho intenzione di scrivere un rapporto durante il mio mandato.
In base a quanto previsto dal suo incarico circa il “fornire consulenze
sulla cooperazione tecnica…” quali suggerimenti darebbe al nostro Paese,
oltre che alle Nazioni Unite, per fermare questa deriva criminosa che vede
il popolo palestinese vittima di un’ingiustizia legalizzata e per
costringere Israele a entrare nell’alveo della legalità internazionale che
fino ad oggi ha sempre calpestato?
Credo che sia necessaria un’opera di ricognizione per capire cosa stia
effettivamente succedendo nel territorio palestinese occupato. Questo richiede
un atto di grande onestà intellettuale e di ritorno al dettato del diritto
internazionale, spesso dismesso in nome “dell’amicizia con lo Stato d’Israele”.
Bisogna prendere coscienza del fatto che le pratiche d’Israele sono
largamente in violazione del diritto internazionale e possono costituire
crimini di guerra e contro l’umanità. Credo che l’Italia abbia l’obbligo di
muoversi nel rispetto della legalità internazionale senza doppi standard. Non
si può pensare di aiutare il popolo palestinese solo attraverso l’azione
umanitaria, perché il problema è politico e investe lo stesso ruolo dell’Onu,
che viene svilita dinanzi alle azioni illegali di Israele e alla sua impunità.
Bisogna riportare Israele nell’alveo della legalità, per cui è necessario
riconoscere che lo Stato di Israele viola il diritto internazionale da decenni,
non conformandosi a regole minime che la comunità internazionale si è data per
garantire pace e stabilità. Quindi vanno prese le misure necessarie, offerte
dalla Carta delle Nazioni Unite, anche di natura coercitiva, come misure
diplomatiche politiche ed economiche, per ricondurre Israele al rispetto della
legalità internazionale. D’altro canto ciò è stato fatto nei confronti della
Russia quando ha aggredito l’Ucraina. Non si spiega perché a Israele non venga
imposto lo stesso trattamento vista l’occupazione che mantiene da 56 anni,
equiparabile anch’essa ad un’aggressione. E insisto su questo, bisogna
abbandonare l’ottica del conflitto perché non si tratta di una guerra tra due
Stati ma di un’occupazione illegale da parte di uno Stato che vuole colonizzare
terre e risorse di un altro.
Non si può assecondare un regime che si è evoluto in forma di apartheid,
retto dall’idea di mantenere una demografia sbilanciata a favore della parte
ebraica della popolazione presente tra il Mediterraneo ed il fiume Giordano.
L’apartheid è una conseguenza naturale, un elemento connaturato al dominio che
Israele mantiene illegalmente sul territorio occupato impedendo la
realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo sotto occupazione.
Quindi, a coloro che nei vari parlamenti, oltre che in Italia, coprono la
realtà seguitando a parlare di due Stati per due popoli suggerirei di
riflettere sulla viabilità di uno Stato che è completamente assoggettato e
controllato da un altro. Oggi lo Stato palestinese appare come un arcipelago di
zone al più con un’autonomia ridotta o controllata. Ritengo che sia urgente
chiedere la fine dell’occupazione come conditio sine qua non per qualsiasi
negoziato, perché non si può imporre al popolo colonizzato di negoziare le
condizioni della propria liberazione col popolo colonizzante che, peraltro, non
ha alcuna intenzione di frenare le proprie ambizioni di conquista territoriale.
Movimenti come il BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni ndr)
avversato fino ad essere impropriamente considerato una forma di antisemitismo,
possono dare una spinta verso il riconoscimento dei diritti del popolo
palestinese?
Il BDS è un movimento iniziato da palestinesi che investe oggi la società
civile globale, e che chiede l’applicazione del diritto internazionale, senza
eccezioni e senza doppi standard. Che vi si aderisca o meno, che lo si sostenga
o meno, non può essere condannato come antisemita solo perché’ rivendica il
rispetto della legalità internazionale da parte dello Stato di Israele. Il BDS
insiste su una questione validissima: le colonie sono un crimine di guerra.
Nessuno stato dovrebbe commerciare con le colonie, indipendentemente dal
movimento BDS.
Gli accordi di Oslo, o meglio l’inganno di Oslo, ha favorito l’avanzamento
del progetto israeliano creando vincoli all’Autorità nazionale palestinese che
tuttora sussistono. Gli accordi di Oslo non possono interpretarsi come validi
se in violazione del diritto internazionale. Il diritto all’autodeterminazione
è una norma perentoria del diritto internazionale (inviolabile) e che impone
obblighi positivi per ogni stato membro della comunità internazionale. Quindi
bisogna interrogarsi sulla validità di un accordo che dopo 30 anni dimostri la
sua inefficacia di fronte a questa norma inderogabile.
I movimenti anti Netanyahu degli ultimi mesi, che rivendicano il rispetto
della democrazia (ma ai quali partecipano anche elementi come Tzipi Livni che
ricordiamo per il massacro di “piombo fuso”) possono incidere sulla situazione
palestinese o rientrano in un quadro esclusivamente interno a Israele?
No, io penso che quella sia proprio la cartina al tornasole del
suprematismo israeliano nel senso che sembrano essere in pochi a chiedersi dove
siano e come vivano i palestinesi. Se la democrazia, come democrazia
sostanziale, si evince da come si trattano le minoranze, non possiamo che
trarre da questo un’unica conclusione. Sia i palestinesi con cittadinanza
israeliana, ma soprattutto i palestinesi da 56 anni sotto occupazione militare
in Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza, sono invisibili all’occhio dell’israeliano
medio (non dei pochissimi che hanno chiaro il problema e che sono da sempre
invisi ai governi israeliani). Il dialogo con gli Israeliani è necessario per
quanto anche loro siano intrappolati dal sistema coloniale. Ne sono anche loro
inconsapevolmente vittime, ma chiaramente, con una responsabilità, sofferenza
ed una capacità di influenzare il cambiamento, completamente diverse. Quindi la
mia risposta è che i movimenti di piazza ‘anti-Netanyahu’ non incidono per ora
sulla questione palestinese. E, qualunque cosa accada, verso Israele seguita ad
esserci un atteggiamento di totale laisser faire laisser passer che lo abilita,
che addirittura lo coadiuva nelle violazioni che commette in totale impunità
La ringrazio per il tempo che ci ha dedicato e, a proposito di laisser
faire laisser passer, le faccio un’ultima domanda e cioè, secondo lei, questa
complicità si può davvero attribuire, almeno in parte, al senso di colpa
dell’Europa per la terribile tragedia della Shoah?
Forse, in parte. Ma se fosse vero non si spiegherebbe l’antisemitismo che
ancora oggi vergognosamente esiste in Europa, assieme ad altre forme di
razzismo e xenofobia. Credo che siano però soprattutto interessi politici,
economici e commerciali ad influenzare le scelte dei nostri paesi, tristemente
a danno dei palestinesi. A testimonianza di questo, vorrei ricordare che già
nel 1986 Joe Biden, l’attuale Presidente degli Stati Uniti, disse “Se non ci
fosse uno Stato d’Israele, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inventarlo per
proteggere i nostri interessi nella regione”. In conclusione possiamo dire che
c’è un grande lavoro da fare, e tutto in salita. E non solo per la Palestina.
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