Non c’è da stupirsi di fronte al brutale pestaggio degli agenti della polizia locale di Milano o agli arresti del personale della questura di Verona: l’abuso della forza, comportamenti suprematisti e persino la tortura sono più che ricorrenti nella storia recente delle divise. Genova 2001 ha insegnato poco, osserva Lorenzo Guadagnucci
Nell’arco di
pochi giorni abbiamo avuto il pestaggio di una donna, a Milano, da parte di
agenti della polizia locale e gli arresti (ai domiciliari) di cinque poliziotti
della questura di Verona accusati di tortura. A unire le due ben diverse
vicende, a prima vista, c’è la particolare condizione delle malcapitate
vittime: una donna transessuale nel primo caso, tre cittadini stranieri su quattro
nel secondo (“africani”, si legge nelle cronache, senza che sia specificato,
chissà perché, o forse sappiamo fin troppo bene perché, la nazionalità). Di
tutto ciò si parla, nel discorso pubblico -a dire il vero fiaccamente- secondo
uno schema consolidato fino alla noia: prima lo stupore misto a indignazione,
poi domande generalissime sulle condizioni di lavoro nelle forze dell’ordine,
infine la promessa che tutto sarà chiarito, fermo restando -si specifica- la
generale fiducia nelle polizie.
In verità
non c’è granché da stupirsi di fronte a simili notizie, visto che l’abuso della
forza, comportamenti machisti e suprematisti e perfino la
pratica della tortura sono più che ricorrenti nella storia recente delle nostre
forze dell’ordine e semmai ci sarebbe da chiedersi quante violenze, quante
sopraffazioni non arrivino a diventare notizia, quante torture restino
sconosciute alle cronache.
È lecito
nutrire questi dubbi, non solo perché certe notizie diventano tali per casi
fortuiti -qualcuno che riprende un pestaggio da un balcone come accaduto
l’altro giorno a Milano; telecamere rimaste accese e hard disk non
cancellati per dimenticanza o eccesso di sicurezza dell’impunità, come nel caso
delle torture nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e così via- ma anche perché veniamo da oltre un
ventennio di incuria. Incuria per lo stato di salute democratica, ma anche
professionale e umana, delle nostre forze dell’ordine.
Oltre
vent’anni fa, quando al G8 di Genova violenze, falsi, menzogne e torture
esplosero con una forza dirompente, scandalizzando -quella volta sì- non solo
l’Italia ma tutto il mondo, si decise scelleratamente di non fare ciò che era
dovuto, ossia un’operazione di chiarezza e di verifica interna, attraverso una
seria assunzione di responsabilità da parte dei vertici dello Stato.
Era il
momento di convocare degli “stati generali” delle forze dell’ordine, di
indagare sulla formazione ricevuta dagli agenti (perché tanta violenza su
persone inermi? Perché tanta conoscenza delle moderne tecniche di torture?),
sulle subculture fasciste ancora esistenti nel corpo degli apparati (provate
dai cori, dalle frasi di scherno, perfino dalle suonerie dei cellulari esibite
da molti, troppi agenti), sull’attitudine a mentire e sull’insofferenza per le
verifiche esterne, inclusa quella della magistratura, mostrate dalle varie
catene di comando. Si è scelta la via opposta: la chiusura corporativa, la minimizzazione
dei fatti, lo scarico di responsabilità, l’ostacolo alla magistratura e si è
aggiunto il carico -da parte del ceto politico- della strategia di conferma dei vertici in servizio nel fatidico 2001 e perfino di protezione e
promozione dei dirigenti prima indagati, poi imputati e infine condannati (è la
storia dell’emblematico caso Diaz).
La
magistratura, indagando su Genova G8, ha ottenuto alcuni importanti risultati,
pur agendo in condizioni molto difficili, ma si è occupata solo di una parte
delle violenze e dei falsi e il fatto più grave avvenuto a Genova, l’uccisione
di Carlo Giuliani, è stato archiviato davanti al giudice per le indagini
preliminari, senza dibattimento, lasciando molti dubbi sulla reale dinamica e
sulle effettive responsabilità. Ferite che restano aperte.
Altri fatti
sono avvenuti negli anni seguenti -torture in caserme e carceri, persone
decedute durante il fermo- ma non è bastato per cambiare la postura delle
nostre forze dell’ordine, che restano refrattarie alla trasparenza, incapaci di
guardare dentro sé stesse e rendere conto alla cittadinanza del proprio essere.
Eppure sappiamo che lo stato di salute generale non è buono: lo provano le
notizie di cui stiamo parlando ma anche le poche notizie che filtrano di volta
in volta sull’alto tasso di suicidi fra gli agenti, specie quelli penitenziari.
A Verona, e
questa è una buona notizia, l’indagine sulle presunte torture è stata condotta
dagli stessi colleghi degli agenti indagati, ma i vertici istituzionali e
politici avranno voglia di dare seguito a questa “buona pratica” e di compiere
una grande, seria, profonda operazione-verità sulle nostre forze dell’ordine? A
quando gli “stati generali” -trasparenti, democratici, partecipativi- delle
nostre polizie?
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