(intervista
di Ana María Mizrahi a Pepe Mujica, su CTXT)
Pepe Mujica ha accolto CTXT nella sua fattoria, situata nel quartiere Cerro
di Montevideo in Uruguay. Cordiale e attento, ha parlato per cinquanta minuti
di politica con la sua solita lucidità. Ammette che magari si sbaglia quando
afferma che l’Europa ha deciso di abdicare al ruolo di leadership storica che
ha avuto nella creazione della civiltà contemporanea. L’ex presidente, 88 anni
d’età, afferma che abbiamo molte cose in comune con la Spagna e che «ci fa male
la Spagna». Indica che i ponti tra il Sudamerica e l’Europa sono complicati
perché è difficile capire dov’è diretta attualmente quest’ultima. Mujica,
presidente dell’Uruguay tra il 2010 e il 2015, si mostra pessimista riguardo la
guerra in Ucraina: «Non vedo vie d’uscita». Non sembra ci sia una soluzione
politica e se l’esito è militare «la guerra durerà un bel po’». Afferma
preoccupato che l’umanità sta percorrendo un cammino diretto a un «olocausto
ecologico» e torna a chiedere unità, questa volta per migliorare l’insieme di
«barbarità che abbiamo creato nella natura».
Qual è la Sua visione di unità della sinistra in Uruguay e com’è stata la
Sua esperienza?
La sinistra uruguayana ha avuto una presenza marginale nella politica per
più di mezzo secolo: dal 1900 fino alla fondazione del Fronte (Ampio), era
ridotta a due partiti tradizionali (il Partito socialista e il Partito
comunista) e ad alcuni raggruppamenti di tradizione libertaria molto legati ai
vecchi movimenti sindacali. Come in tante parti dell’America, i sindacati
furono fondati dalle correnti libertarie importate dagli immigrati, con una
certa presenza di studenti, però non furono mai capaci di richiamare le masse in
modo importante, fatto che invece avrebbe permesso di incidere sul destino del
Paese. Ricordo che quando ero giovane, noi che andavamo al Primo Maggio ci
conoscevamo tutti: eravamo come una grande famiglia di conoscenti, molto
lontani dall’essere partito di massa, ed era molto difficile unirci. Si arrivò
a tre “centrali dei lavoratori” [o sindacati, NdT] e ognuna rispondeva a una
corrente ideologica. Negli anni Cinquanta si raggiunse un accordo tra sindacati
indipendenti e sindacati un po’ più politicizzati che rispondevano a varie
correnti, per costituire un’unica centrale con la caratteristica di essere una
confederazione. Non una centrale che si imponesse, ma una che metteva assieme
chi era d’accordo; mentre chi non era d’accordo non veniva coinvolto. Si rispettavano
le differenze.
Questo è importante perché è l’antefatto di ciò che sarebbe successo poi:
la costruzione del Fronte Ampio. Individuammo progressivamente i raggruppamenti
di sinistra con cui valeva la pena unirsi, negoziare le nostre divergenze e
adoperarsi per programmi brevi; non volevamo metterci d’accordo fino al
giudizio finale, ma ci rendevamo conto che questo ci separava e alcuni
cominciavano a rivendicare: «le azioni ci uniscono, le parole ci separano».
Questo fu un processo lungo alcuni anni e nel Paese ci fu un cambiamento
molto deciso quando terminò la guerra in Corea. Il mondo in cui eravamo
cresciuti cambiò, perché cambiarono le leggi di scambio commerciale: ciò che
vendevamo all’Europa aveva prezzi sempre più bassi e quello che compravamo
aveva prezzi sempre più alti. Così si generò una crisi economica e una
trasformazione abissale nella politica del Paese, che per novant’anni era stato
governato da un solo partito, il Partito Colorado.
All’inizio del ’50 il Partito Colorado aveva vinto le elezioni nazionali e
tutti i distretti locali (in Uruguay si chiamano “dipartimenti”). Quattro anni
dopo perse tutto e rimase al governo solo nel dipartimento di Artigas e da lì
arrivò un governo alternativo più di destra, con una serie di riforme. Cosa
stava succedendo? Anche se non ci rendevamo conto, i termini degli scambi
stavano danneggiando la nostra economia e il settore tradizionale del Paese, a
lungo socialdemocratico ma ora non più, e si generò una crisi lunga molti anni.
La stessa crisi che rimosse Perón in Argentina, qui rimosse il Partito
Colorado. La componente di fondo era il valore sempre più basso del nostro
lavoro in quanto Paese esportatore e si faceva sempre più difficile. Le classi
possidenti non volevano perdere i propri privilegi, così cominciò un taglio
graduale. La risposta politica è unirci di più di fronte alla crisi. Siamo
figli di una crisi. Imparammo che per difenderci dovevamo unirci e per unirci
non potevamo continuare a trincerarci in una proposta ideologica chiusa; dovevamo
farlo attorno a un programma breve per alcuni anni. E così arrivammo a fondare
il Fronte, dove confluirono tra 25 e 30 raggruppamenti di varia origine.
Dai democristiani fino ai marxisti, come si conformò il Fronte Ampio?
Sì, democristiani, marxisti, comunisti, socialisti e liberi pensatori.
La chiave fu l’unità?
Si, la chiave fu l’unità. Durante gli anni Sessanta, con l’impatto della
rivoluzione cubana e altre come quella in Algeria, all’interno della sinistra
ci fu una discussione sulle modalità. Alcuni, me incluso, abbiamo optato per il
ricorso alle armi come in varie parti dell’America. In ogni caso, abbiamo
tenuto un piede di qua e uno di là, nelle due modalità, finché alcuni di noi
furono catturati e appoggiammo la costituzione del Fronte. Cioè era
un’alternativa e decidemmo di appoggiare un percorso elettorale: mandammo la
gente della lotta armata a dipingere cartelli, ecc. In generale, i gruppi
guerriglieri non hanno mai avuto tanta flessibilità quanta in Uruguay, perché
per molti anni mantenemmo la doppia militanza, da un lato illegale e dall’altro
legale.
Fu un processo lungo e costituimmo il Fronte, che è una meraviglia espressa
nello Statuto. È così esigente che non si può cacciare nessuno e alla lunga fu
meraviglioso. Perché? Perché stando assieme cominciammo a costruire
un’alternativa agli occhi della gente per strada: non eravamo più dei pazzi
contestatori, eravamo dei pazzi che potevano proporre un’alternativa al
governo. Cominciammo a crescere, e fu possibile perché eravamo uniti e, fatto
curioso, ciò non vuol dire che non ci fossero divergenze e differenze. Ma
questo grande recinto dal nome Fronte Ampio creava queste circostanze: quando
c’erano discrepanze da una parte, andavamo da un’altra, e rimanevamo comunque
dentro al grande recinto. Alcuni di coloro che dissentivano, se ne andarono e
sparirono politicamente. Col passare del tempo la sigla Fronte Ampio cominciò a
essere una compagine attrattiva, finché si trasformò in una tradizione. Ci
impiegò degli anni, ma riuscì a trasformarsi in una tradizione anche agli occhi
della gente. Come fu possibile? Grazie alla flessibilità e perché sapevamo che
sostenere l’unità moltiplicava la nostra forza. Ciò significò imparare, a volte
dissentire, o ingoiare un rospo, ma sostenere l’unità. Non è un percorso
idilliaco, ma uno in cui scoppiano scintille e differenze. Tuttavia, siccome ci
era chiarissima l’importanza del tutto, di mantenere l’unità, le discrepanze
non potevano essere così gravi da romperlo. Perché? Perché guelfi e ghibellini
perdono, cioè perdiamo tutti.
Al giorno d’oggi la Spagna va verso tre elezioni: regionali, municipali e
generali in dicembre. Da un lato c’è il PSOE, il recente conglomerato di
sinistra SUMAR con a capo Yolanda Díaz e inoltre c’è PODEMOS. Díaz ha lanciato
la sua candidatura a presidentessa e ha detto: «Voglio essere la prima presidentessa
della Spagna. Perché adesso è il momento delle donne». Nel frattempo, Pablo
Iglesias di PODEMOS ha detto che «se SUMAR decide di proseguire senza PODEMOS,
sarà una tragedia elettorale e politica». Gli analisti politici spagnoli sono
d’accordo che se la sinistra si divide, corre il rischio di perdere non solo le
elezioni, ma anche seggi in parlamento. La sua lettura?
Questo è un problema cronico della sinistra. La Spagna ha pagato un prezzo
tragico nella sua storia, perché nel sostegno della Repubblica, quando la
patata era bollente, il confronto tra i comunisti, i socialisti e gli
anarchisti tolse forze alla difesa della Repubblica e al contrasto del
franchismo. La Spagna pagò un prezzo storico e lo stesso successe alla sinistra
tedesca in Europa; il confronto tra comunisti e socialisti fu tale che spianò
la strada all’avanzata del nazismo. Sì, l’umanità ha pagato per la cecità della
sinistra, per l’alto valore di una parte rispetto all’importanza del tutto. Ha
pagato un prezzo storico tremendo e sarebbe bene che i militanti di oggi
conoscessero un po’ meglio la loro storia, perché la storia non si ripete, però
certe cose vanno imparate. Le generazioni hanno il diritto di commettere gli
errori del proprio tempo, ma non possono commettere quelli del passato, perché
allora abbiamo vissuto inutilmente. È uno sproposito che la sinistra non possa
unirsi e lo è non solo per la sinistra, ma per il destino delle grandi
disuguaglianze presenti nella società, perché dobbiamo pensarci e assumere un
atteggiamento empatico.
Possiamo avere molti difetti e molti limiti, però qualunque governo di
sinistra, per quanto cattivo, tenderà sempre a ricordarsi di chi è più
svantaggiato nella società. Vale a dire, chi nutre interesse per la questione
umana, per il sentimento di uguaglianza, deve rendersi conto che anche in
politica ci dev’essere un’etica che va oltre il potere, la convenienza e i
propri punti di vista. Non si può costruire uno strumento importante che
comincia nella realtà se ognuno va per conto suo. Bisogna sommare le forze e
ciò significa lasciare qualcosa indietro, ingoiare qualcosa. Non è idilliaco,
ma in definitiva conviene ai deboli della società.
Non militiamo per noi stessi, ma per un sentimento di empatia verso chi è
più svantaggiato. Se la sinistra non è capace di costruire l’unità, non avrà il
peso né gli strumenti per difendere gli interessi della gente più svantaggiata.
Succede che si frappone la vanità umana. Non siamo tanto perfetti, siamo quel
che siamo, pesano molto i personalismi e i punti di vista.
A volte, la passione che questi confronti generano in noi ci fa dimenticare
perché siamo qui. Non siamo qui solo per discutere progetti in un bar o in una
gara di intellettualità, siamo qui per servire la gente più svantaggiata,
perché il nostro filo conduttore più profondo è che apparteniamo a questo braccio che
ha impostato la rivoluzione francese, uguaglianza, e sappiamo perfettamente che
nelle società contemporanee, con tutto quel che c’è, manca proprio
l’uguaglianza, per lo meno come diritto di base.
Attualmente la Spagna ha la presidenza dell’Unione Europea e il presidente
del Brasile Lula da Silva presiede la CELAC (Comunità degli Stati
latinoamericani e caraibici). Si può migliorare la relazione tra Europa e
America Latina a partire da due presidenti progressisti e di sinistra?
Non sono maghi, hanno limiti, molti limiti.
Esiste una conversazione almeno?
Sì, sono sicuro che si parlano; Lula è tanto aperto ma dubito molto delle
contraddizioni dell’Europa, che sono gravi. Stranamente, l’Europa vista da
lontano, ma magari mi sbaglio, dà l’impressione di aver deciso di abdicare alla
leadership storica che ha avuto nella creazione della civiltà contemporanea. È
come se l’Europa avesse deciso di non farsene carico e si fosse collocata
troppo all’ombra dei poteri nordamericani e avesse perso la sua identità. A
volte mi lamento che non esistono più quei vecchi conservatori, delle canaglie,
persino colonialisti, che guardavano lontano.
Per esempio?
Sono vent’anni che discutiamo un accordo con l’Europa e l’Europa non riesce
ad affrontare le sue contraddizioni – il peso dell’agricoltura francese e
polacca, che si sentono minacciate – così ha optato per essere un’ombra degli
Stati Uniti e non essere se stessa. L’Europa si è ritirata dall’essere un polo
in questo mondo.
Compresa la Spagna?
Sì, la Spagna ha una contraddizione storica. C’è una Spagna di fanfare e
tamburelli e c’è l’altra Spagna. Ci uniscono molte cose e ci fa male la
Spagna. Alcune persone importanti hanno voluto essere una specie di ponte
fra America ed Europa, però è molto difficile condividere e capire dov’è
diretta l’Europa oggi. Il mondo va verso un confronto molto duro, già lo sta
vivendo, tra lo sviluppo della Cina e quello degli Stati Uniti, che non
vorranno perdere la propria prerogativa. L’esistenza di un’alternativa sarebbe
un elemento di distensione per il mondo, ma l’Europa non capisce questo ruolo.
È come se fosse maneggiata da lontano. La guerra in Ucraina è un monumento alla
stupidità e nessuno sta ponendo le basi per un esito politico. Sembra che ci
sia solo una via d’uscita militare e questa ci pone nel pericolo di una guerra
atomica. È questione di giorni prima che le armi nucleari a bassa intensità
vengano impiegate, le armi tattiche ma nucleari… E dove finiremo così?
Non vede una via d’uscita?
Non vedo una via d’uscita, perché dev’essere intelligente; la via d’uscita
dev’essere alla coreana, come fu la guerra in Corea, organizzando la sfiducia.
Non ci si può più fidare di Putin, ovviamente, ma la Russia non si fiderà
nemmeno della NATO. Nella vita non si possono fare richieste irrealistiche: non
c’è nessuna grande potenza che accetterà che un’altra collochi razzi alla
frontiera. Non lo accetteranno. Noi che abbiamo vissuto quella vecchia contesa
nell’epoca di Nikita Chruščëv (1894 – 1971) sappiamo che allora funzionò la
politica, funzionò un telefono rosso. Gli americani ritirarono i loro razzi
dalla Turchia e l’Unione Sovietica ritirò le navi coi razzi (da Cuba). Adesso
la politica non sta funzionando, perché porre le basi di una soluzione
negoziata è come una specie di tradimento; l’unico pensiero è un esito
militare. E se è così, la guerra continuerà per un pezzo.
E come sta l’America Latina?
L’America Latina sta guardando dal balcone (osserva senza partecipare), ma
possiamo essere vittime: non può esserci una strategia di guerra basata sulla
guerra e tuttavia sono lì per questo.
Dopo la pandemia in America Latina si sono aggravate la povertà e le
disuguaglianze.
Sì e inoltre ne soffriamo le conseguenze. Il mondo è molto intrecciato e la
guerra è uno spreco d’energia; stiamo facendo tutto il contrario di ciò che va
fatto riguardo il cambiamento climatico. Adesso abbiamo un nuovo problema:
l’umanità si è trasformata in un fenomeno geologico. E come faremo? Andiamo
verso un olocausto ecologico e ciò di cui abbiamo meno bisogno è una guerra.
Abbiamo bisogno di organizzarci per lottare con la natura e poter incanalare e
migliorare l’insieme di barbarità che abbiamo fatto alla natura. Per la prima
volta nella Storia, l’umanità si è trasformata in una forza geologica
nell’equilibrio del pianeta che stiamo alterando. Questo è grave per
l’esistenza della vita sulla Terra e non vogliamo prendercene la
responsabilità. Sono almeno 32 anni che gli scienziati a Kyoto ci hanno detto:
«i fenomeni estremi saranno sempre più frequenti e intensi», ed è così.
Viene in mente in particolare la sindaca Ada Colau a Barcellona, dove i
poteri economici cercano di logorare il suo governo. È dovuta comparire in sede
giudiziaria a seguito di una querela da parte di un “fondo avvoltoio”,
sanzionata per aver sfrattato famiglie vulnerabili. Come vede il fenomeno dei
ricorsi giudiziari per la politica?
Questo è un altro problema contemporaneo. Lo Stato-nazione in cui siamo
stati educati viene sempre più messo in dubbio, perché è apparso un insieme di
poteri internazionali che non hanno nulla a che vedere con lo Stato-nazione, ma
gli tolgono le forze e la capacità di agire. La politica è in crisi e credo che
ci saranno molti movimenti. La democrazia rappresentativa oggi non rappresenta
l’insieme di conflitti e contraddizioni che ci sono nella società. Non credo
nemmeno che la democrazia parlamentare che abbiamo conosciuto sia l’ultimo
stadio della specie umana. Credo che ci saranno cambiamenti istituzionali e
tutte le epoche di cambiamenti portano molti conflitti.
La gente che studia i pronostici prevede che la democrazia rappresentativa
dovrà evolversi in una specie di insieme di governi interni. Per esempio,
l’istruzione è una sfera che dovrà eleggere il proprio governo e l’industria
dovrà eleggere il suo. Il ruolo dei governi centrali non sarà quello di dire a
ciascuno cosa deve fare, ma frenare ciò che non deve fare, oltre a guidare una
certa armonia, perché la complessità dei fenomeni è impossibile da riassumere
in un unico governo.
Purtroppo ciò presuppone un’epoca di caos. Quando c’è caos, si presentano
sogni di soluzioni verticali, di un governo che imponga l’ordine. Secondo me ci
saranno lunghi conflitti. Mi è chiaro che è impossibile per un governo centrale
capire e gestire in profondità il mondo dell’istruzione, il mondo
dell’industria. Tutto ha una tale complessità che ci si sente analfabeti. E raggiungere
un governo di armonia con questi toni… non siamo né educati né formati per
questo.
Appariranno i limiti dell’umanità, sto parlando di una prospettiva, non del
domani. Mi rendo conto che ci saranno alti e bassi, perché nella storia
nordamericana per esempio non c’è mai stata una durezza e uno scontro come
quello che c’è oggi tra repubblicani e democratici. Abbiamo visto per esempio
in Francia la sparizione dei partiti storici e la nascita di nuovi. È apparso
Macron e poco dopo i Gilet Gialli per strada; è una pazzia. È possibile che
vinca un’espressione di destra o estrema destra, com’è successo in Italia. In
Italia ci sono stati i partiti più grandi dell’Occidente e adesso c’è un
governo di estrema destra. Questo rivela un fenomeno di crisi di rappresentanza
alla base della società. Credo che definirà un’epoca e che dovremo abituarci a
vivere in un periodo di caos.
Traduzione dallo spagnolo di Mariasole Cailotto. Revisione di Thomas Schmid
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