Cospito: sequestrate le foto dei genitori - Frank Cimini (*)
Tolte nuovamente ad Alfredo Cospito (in lotta contro il 41 bis) le
fotografie che aveva in cella nel carcere di Bancali a Sassari. Come se fossero
armi pericolosissime che Cospito sarebbe pronto a usare.
Sono state ritolte, dopo che erano state restituite, ad Alfredo Cospito le
foto dei suoi genitori che teneva in cella. A Opera erano state ridate. A
Sassari Bancali la nuova decisione con invio delle foto alla Corte di Assise di
Appello di Torino che di recente ha condannato l’anarchico a 23 anni di
reclusione per i pacchi bomba di Fossano.
La corte del capoluogo piemontese ha trattenuto le immagini.
L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha presentato reclamo.
Ci sarà un’udienza per decidere se Cospito ha diritto di poter tenere le foto
del padre e della madre. Sembra una vicenda surreale ma è forte il sospetto di
un accanimento per il clamore si suscitato dal lunghissimo sciopero della fame
durato sei mesi e che ha causato danni neurologici che quantomeno in parte non
saranno più recuperati.
Le foto dei genitori sono trattate dalle autorità come se fossero armi
pericolosissime che Cospito sarebbe pronto a usare. La battaglia dell’anarchico
contro l’applicazione del 41bis del regolamento penitenziario non solo per se
anche per se ma soprattutto per gli altri 750 reclusi costretti a
“sperimentarlo” continua a dare fastidio.
Mentre di Cospito ormai appena si accenna nelle cronache del caso di
Andrea Del Mastro il sottosegretario alla Giustizia per il quale il gup di Roma
ha ordinato l’imputazione coatta. Una vicenda in cui i partiti si combattono
per regolare i loro conti sulla pelle di un anarchico ristretto al carcere più
duro perché potrebbe tenere collegamenti con una organizzazione che di fatto
non esiste.
Nel procedimento contro il sottosegretario la difesa Cospito punta a
costituirsi parte civile come danneggiata dal reato nel caso in cui l’accusa
dovesse restare in piedi.
Ovviamente non è detto che la richiesta sia accolta dai giudici. Cospito resta
in attesa della fissazione dell’udienza sulle foto ma anche di quella del
Tribunale di Sorveglianza di Roma per discutere del ricorso contro il 41bis
dopo che il ministro Carlo Nordio non aveva risposto all’istanza della difesa
sull’argomento.
(*) Tratto da Il dubbio.
Paolo
Ledda, farmacista algherese, aveva 57 anni. Domenica è morto nel
carcere di Cagliari-Uta, dove era stato trasferito da Sassari perché solo nel
penitenziario del capoluogo c’è il Sai, il Servizio di assistenza intensiva. La
notizia del decesso la scrive in un comunicato Maria
Grazia Caligaris, la presidente di Sdr, Socialismo diritti riforme,
l’associazione che tra le altre cose si occupa di detenuti.
È una denuncia pubblica,
quella scritta dalla Caligaris perché Ledda aveva disturbi psichici e la
presidente di Sdr sa bene cosa succede a detenuti in
quelle condizioni, “tenuti inermi nelle
celle con psicofarmaci“. Si legge nel documento della Caligaris:
“L’urgenza di una sanità penitenziaria adeguata ai bisogni di donne e uomini
privati della libertà non può essere più sottovalutata. Manca una vera e propria integrazione tra il
Reparto diagnostico terapeutico della Casa circondariale, strutturato
e gestito da Asl e Areus, con quello degli analoghi reparti degli ospedali. Il
direttore sanitario di Cagliari-Uta ha lo stesso grado di competenze e
responsabilità di un collega dirigente in servizio in un ospedale pubblico, ma
per disporre un ricovero deve chiedere il permesso e così anche per un
qualunque intervento chirurgico, a meno che il paziente-detenuto non sia in
punto di morte”.
Sulla morte di Ledda sarà
adesso l’autopsia a
chiarire le cause. Il farmacista era in carcere per scontare una pena di nove
anni. Era accusato di strage per
aver portato una bombola del gas sino alla sede Unipol di via XX Settembre ad
Alghero, inchiodato dalle telecamere che lo ripresero mentre arrivava in
bicicletta. Nel corso del processo, arrivato sino all’Appello, ci furono almeno
due perizie psichiatriche che certificarono la sua fragile condizione. Tanto
che la sua patologia venne
dichiarata incompatibile con la detenzione.
Ledda, però, è stato lasciato
in carcere, malgrado gli appelli dei familiari, preoccupati per le sue
condizioni di salute. Avant’ieri la morte in cella, “un fatto che genera
sgomento e suscita interrogativi che vanno aldilà di un’inchiesta della
magistratura. Al dolore dei familiari e degli operatori penitenziari per la
scomparsa di una persona – denuncia la Caligaris – ci si chiede che cosa si può
fare per evitare fatti così traumatici”.
Nel carcere di Cagliari-Uta ci sono “575
detenuti”, quindi “oltre il limite regolamentare di 561 posti: il caldo
scioglie perfino gli abiti addosso e limita la respirazione, mancano da gennaio gli specialisti di
Oculistica e Dermatologia, da quattro mesi quelli di Ginecologia e Neurologia.
Non è possibile continuare a ignorare questa situazione, a cui si può sopperire
con le visite ospedaliere. Ma accompagnare i detenuti e le detenute in un
nosocomio richiede l’autorizzazione della magistratura di sorveglianza o di un
Giudice, necessità della disponibilità della scorta, a sua volta condizionata
dallo scarso numero di agenti. Il risultato è che le persone con necessità di
controlli per patologie importanti rischiano di aggravarsi. L’assenza di poter
accedere a una visita specialistica esaspera gli animi di chi si sente
abbandonato e genera reazioni inconsulte”.
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