Cos’hanno in comune:
1) l’idea
che l’Occidente possa fare a meno di combustibili fossili e abbandonare i
motori a scoppio mentre il resto del mondo non ci pensa nemmeno;
2) l’idea
che l’esercito russo sia tecnologicamente arretrato, combatta con le vanghe,
sia guidato da un pazzo, e crolli perché mandiamo agli ucraini le nostre armi;
3) l’idea
che se sei maschio ma stamattina decidi di essere femmina questo significa che
sei femmina punto e basta, e il resto sono quisquilie e pinzillacchere
conservatrici;
4) l’idea
che l’Europa possa sopravvivere come potenza economica in assenza di
approvvigionamenti energetici a buon prezzo;
ecc. ecc.?
Ci sono
molti modi per descrivere unitariamente il processo storico che arriva a questi
(e altri) sbocchi, ma se vogliamo descriverlo in termini simil-filosofici
possiamo dire che sono, molto semplicemente, istanze di soggettivismo assoluto,
un soggettivismo persino più radicale delle forme più estreme di idealismo soggettivo
tipo Berkeley.
Qui il mondo
è come è semplicemente perché io penso che sia così, e il fatto di pensarlo
così lo renderà tale.
E’
interessante notare come la politica, e tanto più la politica internazionale,
che è sempre stata innanzitutto “Realpolitik” si sia trasformata negli ultimi
decenni nel dominio incontrastato non tanto del wishful thinking, ma proprio di
una batteria di deliri volontaristici in cui la realtà è, senza resti, ciò che
vogliamo che sia. E se non è d’accordo, tanto peggio per la realtà.
La natura,
di cui si si riempie la bocca in forme pseudoecologiste, è in effetti scomparsa
e ridotta un po’ a fiaba disneyana (magari emendata) e un po’ a luogo ideale,
funzionale a ricordarci i nostri peccati. La natura che si immagina di
difendere è in effetti sempre solo qualche immagine pubblicitaria della natura,
come scorcio da fruire nelle prossime vacanze-da-sogno-tutto-compreso.
La
sostituzione della natura con un’immagine socializzata di essa è peraltro il
tratto dominante in tutto il dibattito sull’autodeterminazione sessuale, che da
interessante tema di nicchia è diventato un’ossessione onnicomprensiva su cui
combattere una battaglia ideologica perenne.
Il regno
dell’immagine naturalmente celebra i suoi più indiscussi trionfi quando si
trova a dover gestire l’opinione pubblica intorno a paesi ostili e/o popoli
distanti. Qui si possono costruire impunemente narrative autoconfermantesi, con
la massima libertà creativa, e le esigenze della propaganda santificano questa
inclinazione della nostra epoca facendone un dovere civico (la costruzione di
un’opinione pubblica compiacente come retroguardia del fronte bellico).
Ecco,
l’altro giorno riflettevo su un dato preoccupante relativo alla gioventù
contemporanea, così come essa emerge da una campionatura delle interazioni sui
social. Notavo lo straordinario, incontenibile livello di dipendenza da una
pressione pubblicitaria, in gran parte occulta, che riconduce l’orizzonte delle
proprie aspirazioni alla sfera di consumi-mirati-ai-giovani.
Su questo
piano la vittoria dei meccanismi di mercato è totale e incontrastata.
L’adesione ai modelli di consumo e alle tipologie di beni come orizzonte di
valore è senza remore e del tutto inconsapevole. Questo non va inteso come
“credere agli spot”. Da tempo la pubblicità non funziona principalmente nella
forma diretta dello spot, ma nelle forme oblique – e infinitamente più efficaci
– della proposta di un’immagine del mondo e di modelli umani, cui magicamente
corrispondono beni, servizi e funzioni dotati di un cartellino del prezzo.
Di questo
processo non fa parte solo la vendita del prodotto, ma la vendita di
un’immagine di sé e degli altri. Ciò che un tempo si chiamava ideologia si è
trasferita senza resti nella pubblicità diretta, ma soprattutto indiretta (nei
film, tramite gli influencer, ecc.).
La
formazione sentimentale di queste nuove generazioni si forgia su questa
modellistica unidimensionale, che diviene poi anche l’oggetto unico delle
diatribe, delle polarizzazioni, del “dibattito civile”. E infatti l’agenda
ideologica giovanile coincide al millimetro con l’agenda precotta del “ceto
creativo”: autodeterminazione genitale, ecologismo dal diario di Greta,
disprezzo per ogni forma di vita che si allontana dall’immagine del centro
affluente di una metropoli americana, animalismo disneyano, catalogo dei
cattivi estratto direttamente dall’agenda della NSA, ecc.
Questo
asservimento integrale ad una cultura manipolatoria dell’immagine è peraltro
senza vie d’uscita, perché da un lato anche la scuola e l’università ne sono
sempre più pervase, e dall’altro la capacità di lettura autonoma – l’unica
fonte cui si potrebbe ricorrere per attingere a modelli differenti e non
commerciali – non fa più parte delle facoltà primarie.
Nella
lettura l’immaginario è autonomamente creato dal lettore, e ciò fa della
lettura sempre un atto dove simultaneamente si apprende e si crea. Ma
l’abitudine a navigare un sistema di immagini auto-offerentesi (e dunque
pre-interpretate) fa apparire comparativamente la lettura un medio faticoso, e
ne paralizza lo sviluppo.
L’esito
naturale di questo processo è una riduzione verticale della capacità di lettura
strutturata, che si attesta al livello della lettura di una mail o di un twit,
mentre quella peculiare facoltà intorno a cui si è costituita la civiltà degli
ultimi millenni appare in via di estinzione.
Ecco, mentre
riflettevo sullo spostamento della coscienza della gioventù contemporanea verso
un mondo di immagini manipolatorie mi chiedevo cosa accadrà quando questa
generazione sarà classe dirigente. Solo che, a ben vedere, quella odierna è già
la seconda generazione che abita questa condizione, solo in forma più estrema
della precedente.
E la
generazione precedente è quella che oggi costituisce il nerbo delle classi
dirigenti e dei ceti produttivi: il predominio di quella forma di soggettivismo
idealistico che rende le proprie proiezioni più reali della realtà è dunque già
un primo frutto di quella dinamica.
Questa
conclusione mette in guardia rispetto alla prospettiva ottimistica per cui “non
può andare così avanti a lungo, prima o poi andranno a sbattere”. Sì, andranno
(cioè, volenti o nolenti andremo tutti) a sbattere, ma in mancanza dello
sviluppo di facoltà alternative questa non sarà una lezione di realismo, una
spinta ad analizzare il mondo e la sua complessità, ma un semplice incentivo a
cambiare immaginario, a scegliere qualche altra immagine di fantasia dagli
scaffali di quel supermercato cosmico che ci figuriamo sia il nostro mondo.
Nessun commento:
Posta un commento