Il giorno
in cui Trump si insedierà da presidente, migliaia di scrittori negli Stati
Uniti esprimeranno la loro indignazione: “Per guarire e andare avanti …” dice
l’associazione Writers Resist “desideriamo evitare il discorso politico
diretto, e preferiamo invece concentrarci su un futuro stimolante, e su modo in
cui, in quanto scrittori, possiamo essere una forza unificante per far
avanzare le democrazia.”
E:
“Esortiamo gli organizzatori e gli oratori locali a evitare di usare i nomi dei
politici o di adottare un ‘anti’ linguaggio come punto centrale del loro evento
di Writers Resist. E’ importante assicurarsi che le organizzazioni no profit,
alle quali è proibito fare campagne politiche, si sentiranno sicuri quando
parteciperanno e sosterranno questi eventi.”
Si deve
quindi evitare la protesta diretta, perché non è esente da tasse.
Paragonate
questa banalità con le dichiarazioni del Congresso degli Scrittori Americani,
svoltosi alla Carnegie Hall di New York nel 1935, e di nuovo due anni dopo.
Erano eventi elettrizzanti, dove gli scrittori come affrontare gli infausti
avvenimenti in Abissinia, Cina e Spagna. I telegrammi inviati da Thomas Mann, C
Day Lewis, Upton Sinclair and Albert Einstein venivano letti ad alta voce e
riflettevano la paura che i grandi poteri erano ora dilaganti e che era
diventato impossibile discutere di arte e letteratura senza la politica o,
addirittura, senza un’azione politica diretta.
“Uno
scrittore,” disse la giornalista Martha Gellhorn durante il secondo congresso,
“deve essere un uomo d’azione, adesso…un uomo che ha dato un anno della sua
vita agli scioperi dei metalmeccanici, o ai disoccupati, o al problema dei
pregiudizi razziali non ha perduto o sprecato il suo tempo. E’ un uomo che è
consapevole della sua appartenenza. Se doveste sopravvivere a un’azione
del genere, quello che avrete da dire dopo in proposito sarà la verità,
necessaria e reale e che durerà.”
Le sue
parole echeggiano in tutto il falso compiacimento e la violenza dell’era di
Obama e del silenzio di coloro che sono stati collusi con i suoi inganni.
E’ un
fatto incontrovertibile che la minaccia di un potere rapace e rampante fin da
prima dell’ascesa di Trump, sia stato accettato dagli scrittori, molti dei
quali privilegiati e famosi, e da coloro che sorvegliano i cancelli della
critica letteraria, e della cultura, compresa quella popolare. Non è adatta a
loro l’impossibilità di scrivere e promuovere la letteratura priva di politica.
Non è adatta a loro la responsabilità di far sentire la propria voce,
indipendentemente da chi occupi la Casa Bianca.
Oggi il
falso simbolismo è tutto. La ‘identità’ è tutto. Nel 2016, Hillary Clinton
marchiò milioni di elettori come “una massa di miserabili, razzisti, sessisti,
omofobi, xenofobi, islamafobi – chi più ne ha, più ne metta”. Le sue offese
sono state “dispensate” a una dimostrazione di LGBT, come parte della sua
cinica campagna per conquistarsi le minoranze maltrattando una maggioranza per
lo più bianca e della classe operaia. Questo si chiama: dividere e
comandare (divide et impera, dicevano già gli antichi romani, n.d.t.), oppure
politica di identità, in cui la razza e il genere nascondono la classe e
permettono di combattere una guerra di classe. Trump lo ha capito.
“Quando
la verità è sostituita dal silenzio,” diceva il poeta russo dissidente,
Yevtushenko, “il silenzio è una bugia.”
Questo
non è un fenomeno americano. Alcuni anni fa, Terry Eagleton, allora professore
di letteratura inglese all’Università di Manchester, reputava che “per la prima
volta in due secoli, non c’è nessun eminente poeta inglese o drammaturgo o
romanziere che metta in discussione le basi del modo di vivere occidentale.”
Nessuno
Shelley parla per i poveri, nessun Blake parla per i sogni utopici, nessun
Byron maledice la corruzione della classe governante, nessun Thomas Carlyle e
John Ruskin rivelano il disastro morale del capitalismo. William Morris, Oscar
Wilde, HG Wells, George Bernard Shaw, attualmente non hanno equivalenti. Harold
Pinter è stato l’ultimo che ha fatto sentire la sua voce. Tra le attuali voci
insistenti del femminismo da consumisti, echeggia quella di Virginia Woolf che
descriveva “le arti del dominare altre persone…di governare, uccidere,
di acquisire terra e capitale”.
C’è
qualcosa di venale e di profondamente stupido riguardo a scrittori famosi
quando di avventurano fuori del mondo viziato e si dedicano a un “problema.”
Nella sezione Recensioni, del Guardian del 10 dicembre, c’era una fotografia di
un Barack Obama sognante che guardava il cielo, e le parole “Amazing
Grace” (Grazia Straordinaria, è un è un famoso inno cristiano del ‘700) e
“Addio al capo”.
La
piaggeria scorreva come un ruscello inquinato mormorante, pagina dopo pagina.
“Era un personaggio vulnerabile per molti aspetti… Ma la grazia. La grazia
onnicomprensiva: nei modi e nella forma, nella discussione e
nell’intelletto, con umorismo e bravura.
E’
un vivo tributo a ciò che è stato e che può essere di nuovo…Sembra pronto
a continuare a lottare e resta un campione formidabile da avere dalla nostra
parte…La grazia, i livelli quasi surreali della sua grazia…”
Ho fuso
insieme queste citazioni. Ce ne sono altre perfino più agiografiche e
prive di attenuazione. Il principale difensore di
Obama del Guardian, Gary Younge, è stato sempre attento ad attenuare, a
dire che il suo eroe “avrebbe potuto fare di più”: oh, ma c’erano le “soluzioni
calme, misurate e consensuali…”
Nessuna
di queste citazioni potrebbe, tuttavia, superare lo scrittore Ta-Nehisi Coates,
il beneficiario di una borsa di studio per “i geni”, del valore di 625.000
dollari, assegnato da una fondazione liberale. In un saggio interminabile per
The Atlantic, intitolato: “My President Was Black” (Il mio presidente era
nero), Coates ha portato una nuova connotazione alla parola “prostrazione”. Nel
“capitolo” finale, intitolato “Quando te nei sei andato, hai preso tutto me
stesso con te, un verso di una canzone del cantautore Marving Young , scrive di
aver visto gli Obama “uscire dalla limousine, uscire dalla paura,
sorridendo, sfidando la disperazione, la storia, la gravità”.
L’Ascensione, come minimo..
Uno degli
elementi persistenti nella vita politica americana, è un estremismo cultuale
che si avvicina al fascismo. A questo è stata data espressione ed è stato
rafforzato durante i due mandati di Barack Obama. “Credo nell’eccezionalismo
americano con ogni fibra del mio essere,” ha detto Obama che ha esteso il
passatempo militare preferito dell’America, e gli squadroni della morte (operazioni
speciali”), come nessun altro presidente aveva fatto fin dalla Guerra Fredda.
Secondo
un’inchiesta del Consiglio per le relazioni internazionali, nel 2016 soltanto,
Obama ha fatto cadere 26.171 bombe, cioè 72 bombe al giorno. Ha bombardato le
persone più povere del mondo in Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia, Siria,
Iraq, Pakistan.
Ogni
martedì, ha riferito il New York Times, sceglieva personalmente coloro che
sarebbero stati uccisi per lo più dai missili Hellfire lanciati dai
droni. Sono stati colpiti matrimoni, funerali, pastori, insieme a coloro che
cercavano di raccogliere le parti dei corpi che “decoravano” il
cosiddetto “bersaglio terrorista”.
Un
importantissimo senatore Repubblicano, Lindsay Graham, ha stimato approvandoli,
che i droni di Obama avessero ucciso 4.700 persone. “Delle volte si
uccidono persone innocenti, ed è una cosa che odio,” ha detto Obama, “ma
abbiamo fatto fuori dei membri molto importanti di Al Qaida.”
Come il
fascismo degli anni ’30, le grosse bugie vengono espresse con la
precisione di un metronomo: grazie a dei media onnipresenti la cui descrizione
ora si adatta a quella dell’accusatore di Norimberga: “prima di ogni importante
aggressione, con alcune eccezioni basate sull’opportunità, hanno iniziato
una campagna di stampa basata calcolata per indebolire le loro vittime e per
preparare psicologicamente i Tedeschi….Nel sistema di propaganda… la radio e la
stampa quotidiana erano le armi più importanti.
Consideriamo
la catastrofe in Libia. Nel 2011 Obama disse che il presidente della Libia,
Muammar Gaddafi stava pianificando il “genocidio” contro il suo stesso
popolo. “Sapevamo…che se avessimo aspettato un altro giorno, Bengasi, una
città grande come Charlotte, avrebbe potuto subire un massacro che si sarebbe
riverberato in tutta la regione e avrebbe macchiato la coscienza del mondo.”
Questa fu
la nota bugia delle milizie islamiste di fronte alla sconfitta a opera delle
forze del governo libico. Divenne la storia dei media; la Nato, guidata da
Obama e da Hillary Clinton – lanciò 9.700 attacchi contro la Libia, di cui più
di un terzo mirati a obiettivi civili. Si usarono testate a uranio; le città di
Misurata e di Sirte vennero bombardate a tappeto. La Croce Rossa individuò
fosse comuni, e l’Unicef riferì che “la maggior parte [dei bambini uccisi]
avevano meno di 10 anni.”
Durante
l’amministrazione Obama gli Stati Uniti hanno esteso le operazioni segrete
delle “forze speciali” a 138 paesi, o al 70% della popolazione del mondo. Il
primo presidente afro-americano ha dato il via quella che è stata equivalente a
un’invasione su vasta scala dell’Africa. Ricordando la “Corsa all’Africa” alla
fine del 19° secolo, il Comando Africano degli Stati Uniti (Africom), ha
costruito una rete di “supplicanti” tra regimi africani collaborazionisti,
desiderosi di mazzette e di armamenti. La dottrina “da soldato a soldato”
dell’Africom include ufficiali statunitensi a ogni livello di comando, dal
generale al maresciallo. Mancano soltanto i caschi da esploratore.
E’ come
se l’orgogliosa storia di liberazione dell’Africa, da Patrice Lumumba a Nelson
Mandela, venisse consegnata all’oblio da un’ élite coloniale nera di un nuovo
padrone, la cui “missione storica”, avvertiva Frantz Fanon mezzo secolo fa, è
la promozione di “un capitalismo rampante anche se camuffato.”
E’ stato
Obama che, nel 2011, annunciò quello che divenne noto come il “perno
dell’Asia”, in cui quasi due terzi delle forze navali statunitensi sarebbero
state trasferite nell’Asia del Pacifico per “confrontarsi con la Cina”, nelle
parole del suo Segretario alla Difesa. Non c’era alcuna minaccia dalla Cina;
tutta quella impresa non era necessaria. Era una provocazione estrema per fare
contenti il Pentagono e i suoi alti ufficiali dementi.
Nel 2014,
l’amministrazione Obama ha supervisionato e pagato un colpo di stato guidato da
fascisti in Ucraina, contro il governo eletto democraticamente, minacciando la
Russa sul suo confine occidentale attraverso il quale Hitler invase l’Unione
Sovietica, con una perdita di 27 milioni di vite umane. E’ stato Obama a che ha
piazzato i missili nell’Europa dell’Est, puntati verso la Russia, ed è stato il
vincitore del Premio Nobel per la Pace che ha aumentato la spesa per le testate
nucleari a un livello più alto di quello di qualsiasi amministrazione fin dalla
guerra fredda – avendo promesso, in un discorso emozionante a Praga, di
“contribuire a liberare il mondo dalle armi nucleari”.
Obama,
l’avvocato costituzionalista, ha perseguito più “talpe” di qualsiasi
altro presidente della storia, anche se la costituzione degli Stati Uniti li
protegge. Ha dichiarato Chelsea Manning colpevole prima della fine di un
processo che era una farsa. Ha rifiutato di perdonare Manning che ha sofferto
anni di trattamento inumano che l’ONU dice equivale alla tortura. Si è dedicato
a un caso completamente fasullo contro Julian Assange. Ha promesso di chiudere
Guantanamo e non lo ha fatto.
In
seguito al disastro delle pubbliche relazioni di George W. Bush, Obama, il
tranquillo organizzatore di comunità da Chicago attraverso Harvard, è stato
reclutato per ripristinare quella che chiama la “leadership” in tutto il mondo.
La decisione del comitato del comitato del Premio Nobel, faceva parte di
questo: il tipo di stucchevole razzismo al contrario che ha beatificato l’uomo
per nessun altro motivo se non quello che piaceva alle sensibilità liberali e,
naturalmente, al potere americano, se non ai bambine che uccide nei paesi
poveri e per lo più musulmani.
È questo
il richiamo di Obama. Non è diverso da quello di un fischietto per cani: non può
essere udito dalla maggior parte delle persone, ma è irresistibile per
gli infatuati e i tonti, in particolare per “i cervelli liberali marinati nella
formaldeide della politica dell’identità”, come disse Luciana Bohne. “Quando
Obama entra in una stanza”, diceva, esaltato, George Clooney, “si vuole
seguirlo e da qualche parte, da qualsiasi parte.”
William
I. Robinson, professore presso l’Università della California, e componente di
un gruppo incontaminato di pensatori strategici americani che hanno mantenuto
la loro indipendenza durante gli anni dei richiami intellettuali per cani fin
dall’11 settembre, la settimana scorsa ha scritto:
“Il
presidente Barack Obama… potrebbe aver fatto più di chiunque altro per
assicurare la vittoria di [Donald] Trump. Mentre l’elezione di Trump ha innescato una rapida espansione delle correnti
fasciste della società civile negli Stati Uniti, un esito di tipo fascista per
il sistema politico è lungi dall’essere inevitabile… Ma quella reazione
richiede chiarezza su come siamo arrivati ad un precipizio così pericoloso. I
semi del fascismo del 21° secolo sono stati piantati, fertilizzati e innaffiati
dall’amministrazione Obama e dall’élite liberale politicamente fallita”.
Robinson
sottolinea che “sia nel 20° secolo che nelle sue emergenti varianti del 21°
secolo, il fascismo è, soprattutto, una risposta alla profonda crisi
strutturale del capitalismo, come quella del 1930 e come quella che ha avuto
inizio con la crisi finanziaria nel 2008… C’è una linea quasi retta qui da Obama
a Trump… il rifiuto delle élite liberali di sfidare la rapacità del capitale
transnazionale, e il suo marchio di identità politica sono serviti a nascondere
il linguaggio delle classi lavoratrici e popolari… spingendo i lavoratori
bianchi dentro una ‘identita’ di nazionalismo bianco e aiutando i neofascisti
ad organizzarli”.
Il
semenzaio è la Repubblica di Weimar di Obama, un paesaggio di povertà endemica,
di polizia militarizzata e di prigioni barbariche: è la conseguenza di un
estremismo “di mercato”, che, sotto la sua presidenza, ha indotto il
trasferimento di $14 miliardi di dollari di denaro pubblico alle imprese
criminali di Wall Street.
Il suo
più grande “lascito” è forse la cooptazione e il disorientamento di una vera
opposizione. La “rivoluzione” illusoria di Bernie Sanders non fa testo. La
propaganda è il suo trionfo.
Le bugie
sulla Russia – nelle cui elezioni gli Stati Uniti sono apertamente intervenuti
– hanno reso i giornalisti più boriosi del mondo lo zimbello di tutti. Nel
paese con la stampa più libera al mondo costituzionalmente, il giornalismo
libero ora esiste soltanto nelle sue lodevoli eccezioni.
L’ossessione
di Trump è una copertura per molti di coloro che si definiscono “liberali di
sinistra”, quasi volessero rivendicare una decenza politica. Essi non sono “di
sinistra”, e non sono neppure particolarmente “liberali”. Molte delle
aggressioni degli Stati Uniti verso il resto dell’umanità sono arrivate dalle
cosiddette amministrazioni democratiche liberali – come quella di Obama. Lo
spettro politico americano si estende dal mitico centro ad una destra lunare.
La “sinistra” sono i traditori senzatetto che Martha Gellhorn ha descritto come
“una rara e totalmente lodevole confraternita”. Escludeva chi confonde la
politica con la fissazione per il proprio ombelico.
Mentre
“guariscono” e “vanno avanti”, gli attivisti di Writer Resist ed altri
anti-Trumpisti rifletteranno su tutto questo? Più precisamente: quando sorgerà
un vero e proprio movimento di opposizione? Arrabbiato, eloquente, tutti-per-uno-e-uno-per
tutti. Fino a quando la vera politica non tornerà nella vita delle persone, il
nemico non è Trump, siamo noi stessi.
Da: Z Net
– Lo spirito della resistenza è vivo
Originale:
Counterpunch
Traduzione
di Maria Chiara Starace
Traduzione
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