articoli di Gianni Lixi, Tomaso Montanari, Domenico Gallo, Sergio Labate, Francesco Masala, Ennio Remondino, Haggai Ram, Giorgio Ferrari, Riccardo Noury, Lorenzo Borrè, Michele Agagliate, Craig Mokhiber, Dalia Ismail, Antonio Castronovi, disegno di Notangelo (dossier a cura di Francesco Masala)
L’ospedale Soroka Medical Center di Beersheba, colpito proditoriamente da un missile balistico iraniano nella giornata di ieri, rappresenta per Israele un simbolo della sua storia e della sua capacità di integrare genti da ogni parte del mondo. Il crimine messo in atto dai mullah, colpendo un luogo di cura dove si cerca di salvare vite umane, è qualcosa di odioso e di imperdonabile…
19 Giugno 2025
…L’agenzia di stampa ufficiale iraniana IRNA ha riferito che il vero obiettivo dell’attacco era il quartier generale C4I (Comando, Controllo, Comunicazioni e Intelligence) dell’esercito di occupazione israeliano.
La base militare d’intelligence colpita si trova nel parco tecnologico Gav-Yam, adiacente all’ospedale Soroka.
Secondo l’emittente libanese Al Mayadeen, il sito ospita migliaia di militari, centri digitali di comando, unità di guerra cibernetica e i sistemi C4ISR (Comando, Controllo, Comunicazioni, Computer, Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione) dell’esercito sionista.
Al Mayadeen ha anche riferito che l’ospedale Soroka è stato colpito dall’onda d’urto, ma non avrebbe subito danni significativi, dato che il raid ha colpito in modo diretto e preciso un’infrastruttura militare chiave.
I servizi di emergenza israeliani hanno inoltre confermato che un vicino centro di ricerca biologica—classificato come sito sensibile per la sicurezza—è stato colpito durante l’attacco…
19 Giugno 2025
Dall’inizio della guerra, nell’ottobre 2023, Israele ha condotto un attacco sistematico contro il sistema sanitario di Gaza, colpendo ripetutamente ospedali, cliniche, infrastrutture mediche, operatori sanitari e persino ambulanze.
Secondo i dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il 14 giugno, su 36 ospedali presenti a Gaza, nessuno è pienamente operativo. Diciassette offrono servizi limitati, mentre i restanti diciannove hanno cessato completamente di funzionare.
Inoltre, l’intero sistema sanitario della Striscia—including ambulanze, ospedali da campo e cliniche—è stato colpito in oltre 700 attacchi dall’inizio della guerra, causando almeno 900 morti e più di 1.000 feriti.
In un’intervista con NBC News del 14 giugno, Jens Laerke, portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), ha dichiarato:
“Quasi tutti gli ospedali di Gaza sono ormai danneggiati o distrutti, e la metà non è più operativa”.
Parlando con il Palestine Chronicle lo scorso febbraio, il medico norvegese Dr. Mads Gilbert, con una lunga esperienza a Gaza, ha sottolineato questo schema:
“Distruggere la sanità significa, in un certo senso, attaccare lo spirito stesso della resistenza. E ciò che abbiamo visto a Gaza non ha precedenti in nessuna guerra moderna”, ha detto.
Cronologia dei ‘Massacri Sanguinosi’…
31 maggio 2025
A Gaza non sono sicuri neppure gli ospedali. Non solo quasi l’80% delle strutture sanitarie è stato danneggiato (63%) o distrutto (16%), ma sono quasi 920 le persone morte in 720 attacchi israeliani a strutture sanitarie. Un decesso ogni 50 del conflitto.
26 maggio 2025
Nel corso dell’ultima settimana, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’esercito israeliano ha bombardato per 28 volte gli ospedali della Striscia di Gaza. Secondo un’inchiesta del giornale israeliano Haaretz, questi bombardamenti hanno colpito direttamente o indirettamente dieci diversi ospedali, molti dei quali sono stati costretti a chiudere o a ridurre notevolmente le loro attività.
18 ottobre 2023
…Una terribile esplosione ha distrutto l’ospedale al-Ahli al-Arabi di Gaza nella serata di martedì, intorno alle 19:30 ora locale, quando un missile è caduto sulla struttura causando centinaia di morti e feriti tra pazienti e persone che si erano rifugiate nell'edificio. Un portavoce della protezione civile di Gaza ha parlato di almeno 300 vittime mentre il ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato che almeno 500 persone sono state uccise nell’esplosione…
dice il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu il 20 giugno 2025
«Per la seconda volta, mio figlio Avner ha dovuto annullare il suo matrimonio a causa della minaccia di lanci di missili, un prezzo personale certamente pesante pagato da lui, dalla sua fidanzata e dalla nostra famiglia».
Dialogo di fantasia ma molto, molto realistico avvenuto subito prima dell'attacco all'Iran – Gianni Lixi
Funzionario dell'Hasbara:
" Signori del gabinetto di guerra, stiamo perdendo popolarità anche nei paesi a noi più fedeli. Anche in Germania stanno incominciando a porre qualche debole interrogativo sul massacro di affamati. Dovete trovare qualcosa che distragga l'opinione pubblica internazionale da Gaza".
Funzionario del gabinetto di guerra:
"Attacchiamo l'Iran non c'è un minuto da perdere"
Altro funzionario del gabinetto di guerra:
"Ma domenica ci sono le trattative tra Iran e Usa. Poi se salta fuori che non abbiamo alcuna prova sulla atomica Iraniana....."
Primo funzionario del gabinetto di guerra:
"Queste sono cose che riguardano il dipartimento della propaganda (Hasbara ndr). Ci penseranno loro ad inondare testate giornalistiche e social sul nostro diritto alla difesa perchè NOI siamo le vittime".
Altro funzionario del gabinetto di guerra:
"Ma non sarebbe meglio concordare l'attacco con gli Stati Uniti?"
Altro funzionario del gabinetto di guerra:
"Ma c'è ancora qualcuno in questa sala che pensa che dobbiamo chiedere il permesso agli Stati Uniti? C'è ancora qualcuno che non ha capito che con gli Stati Uniti siamo noi che abbiamo il pallino in mano?".
Tutti i funzionari:
"Attacchiamo"
Il Giorno dopo l'attacco:
U.VDL: "Israele ha il diritto all'autodifesa; Macron: "Israele ha diritto all'autodifesa"; Starmer "Israele ha diritto all'autodifesa"; Merz: "Israele ha diritto all'autodifesa"; Meloni: "Israele ha diritto all'autodifesa"; Taiani (se può interessare): "Israele ha diritto all'autodifesa".
Lo sterminio di un popolo affamato: oscurato.
Così funziona il sionismo.
Gaza. Chiamare il genocidio con il suo nome - Tomaso Montanari
I genocidi cominciano con le parole. È dal 1843 che si dice che la Palestina fosse una «terra senza popolo». Oggi quella menzogna propagandistica rischia di avverarsi: distruggendo il popolo palestinese. I genocidi cominciano con le parole. Smettendo di chiamare le cose con il loro nome: per esempio, smettendo di chiamare ‘umani’ i Palestinesi, e iniziando in ogni modo a degradarli fino a rendere accettabile l’idea di ucciderli tutti. I genocidi si possono fermare con le parole. Noi non abbiamo altra forza, se non quella delle parole. Noi siamo ai margini, siamo i senza potere: siamo i 50.000 sudari, e le luci di notte. Siamo qui, non nei palazzi romani: per ricordare incessantemente, a chi il potere ce l’ha, cosa dice la Costituzione, cosa dice la nostra comune umanità.
Se vogliamo che il nostro Governo, e i governi occidentali, ci ascoltino, e fermino lo Stato di Israele, allora dobbiamo chiamare genocidio il genocidio. Perché così diremo che i nostri ministri finiranno un giorno alla sbarra come complici, del genocidio, per la mancata prevenzione cui l’Italia era obbligata, in quanto alleato di Israele. E dobbiamo chiamare genocidio il genocidio anche per onorare i morti: uccisi anche in culla SOLO per il fatto di essere palestinesi.
Ma quando si usa questa parola, nel discorso pubblico italiano scatta una censura. E proprio qua, nei luoghi di uno dei più atroci eccidi nazisti, bisogna avere il coraggio di parlare chiaramente. Un’intera classe dirigente (giornalisti, politici, professori…) impedisce che si riferisca quella parola a Israele perché questo sarebbe ‘antisemita’ e offenderebbe i sopravvissuti all’Olocausto. È un argomento falso, e oscenamente strumentale.
Ci siamo educati a vicenda – per anni, ogni Giorno della Memoria – a ripetere “mai più”. Ci siamo detti che se Auschwitz fosse stato sotto gli occhi del mondo, il mondo sarebbe insorto. Ebbene, oggi accade di nuovo: davanti ai nostri occhi. Perché, come diceva Hannah Arendt, il male dell’Olocausto non fu assoluto e senza paragoni, ma invece fu banale, comune, ripetibile all’infinito: perché profondamente umano. Perché la disumanità sta nel cuore dell’uomo: e nessuno ne è immune per appartenenza nazionale.
Le dichiarazioni dei capi di Israele non lasciano dubbi. Il presidente Herzog, ha detto che «è un’intera nazione là fuori responsabile. Questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera». Poco prima, il ministro della Difesa Gallant aveva giustificato la decisione di tagliare acqua, cibo, elettricità e benzina a Gaza, affermando che «stiamo combattendo con animali umani, e agiamo di conseguenza».
Accanto alle parole, così chiare nel loro atroce progetto di soluzione finale, ci sono i fatti. Dei 5 indicatori che prevede la Convenzione sul Genocidio del 1948, a Gaza ne ricorrono certamente 4. Cui si aggiunge la distruzione sistematica del patrimonio culturale: chiaro segno di volontà di sradicamento definitivo di un popolo dalla faccia della terra. Ebbene, Israele ha pianificato e sta compiendo un genocidio: lo ha detto anche la presidente della Società internazionale di studi sul genocidio. Contraddire la scienza è negazionismo, terrapiattismo morale.
Davvero possiamo pensare che nascondere questa terrificante evidenza oggettiva sia un modo di difendere la memoria dei 6 milioni di ebrei assassinati dal nazismo? Chi può arrogarsi il diritto di parlare per loro? Israele non ha questo mandato storico e morale, e anzi con ciò che compie a Gaza oltraggia sanguinosamente la memoria delle vittime della Shoah. Meno ancora questo mandato ce l’hanno i poteri occidentali: che usano la Shoah per proteggere i propri interessi coloniali.
Pensiamo davvero di onorare le 1830 vittime del nazismo in questa terra, tacendo su quello che succede a Gaza? Pensiamo davvero di nascondere la verità, e peggio ancora di farlo in nome di chi entrò nelle camere a gas naziste? Pensiamo di onorare la nostra promessa di ‘mai più’ facendolo avvenire ancora?
Giuseppe Dossetti fondò la sua comunità accanto alle vittime del nazismo, perché per sempre si meditasse sulla Shoah. E prese casa a Gerico, per essere accanto al popolo palestinese: denunciando con forza i crimini di Israele. Due cose tra le quali non c’è contraddizione, ma perfetta coerenza. Siamo qua per ricordarlo. E anche per esercitare quella «resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione», che Dossetti avrebbe voluto mettere nella Costituzione stesso come «diritto e dovere di ogni cittadino».
Oggi il Governo italiano è di fatto complice del genocidio a Gaza, violando innumerevoli principi della sua, della nostra, Costituzione. Siamo qui per dirlo forte. Siamo qui per praticare il diritto e dovere di resistenza. Siamo qui per resistere per Gaza: e la nostra resistenza è la parola che dice la verità. La parola che dice lo scandalo indicibile: e cioè che il Governo italiano, continuando a vendere armi a Israele, è co-autore del genocidio.
Il sangue di Gaza ricade anche su di noi, cittadini liberi di una democrazia che può scegliere da che parte stare. Per questo non possiamo, non dobbiamo, tacere. In nome di tutte le vittime di ogni genocidio, in nome dei morti che giacciono sepolti in questa terra, vi scongiuriamo, signori del Governo italiano: fermate il genocidio del popolo palestinese – questo genocidio israeliano, europeo, occidentale. Fatelo ora, perché non c’è più tempo!
È l’intervento svolto in occasione della marcia da Marzabotto a Monte Sole per Gaza del 15 giugno
Il “lavoro sporco” di Israele e la terza guerra mondiale - Domenico Gallo
Quando il cancelliere tedesco Merz dichiara che “Israele fa il lavoro sporco per noi”, si deve accendere un campanello d’allarme. Questa dichiarazione è una spia che qualcosa non funziona nella nostra visione della democrazia e dello Stato di diritto. È necessario chiarire alcuni punti fondamentali.
È un dato di fatto che il progetto di ordine internazionale, preannunciato dalla Carta Atlantica (14 agosto 1941), partorito con la Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945) e fondato sulla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948), non si è mai completamente realizzato e adesso sta attraversando una crisi profonda che ne mette in dubbio persino l’esistenza giuridica dei suoi assiomi principali. L’ordine internazionale prefigurato dalla Carta ONU in qualche modo raccoglieva la sfida del perseguimento di una pace stabile ed universale fra le Nazioni da realizzarsi attraverso il diritto, sulla falsariga dell’insegnamento di Hans Kelsen in Peace through Law. La novità principale del nuovo diritto internazionale post-bellico consisteva nella messa al bando della guerra, proclamata categoricamente dall’art. 2, comma 4, della Carta di San Francisco: «I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.»
La Carta delle Nazioni unite non ha messo la guerra fuori dalla Storia (non avrebbe potuto), ma l’ha messa fuori dal diritto, espungendo dalle prerogative della sovranità lo ius ad bellum, o quanto meno degradandolo. Su questa scia è intervenuta la Costituzione italiana che, con gli artt. 10 e 11, ha messo la guerra fuori dall’ordinamento. Si è trattato di una scelta politica che ha cambiato la natura del diritto realizzando la fusione fra la tecnica giuridica e un’istanza etica di valore universale. La Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del delitto di Genocidio (9 dicembre 1948) e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948) hanno completato questo processo, quest’ultima attraverso l’inserimento nel diritto internazionale di una tavola di valori che mette al centro la dignità di ogni essere umano, in questo modo ponendo le basi del diritto internazionale dei diritti umani. Questa è stata la vera lezione positiva che l’umanità ha tratto uscendo dalla notte della Seconda guerra mondiale, la gloria del Novecento (come scriveva Italo Mancini), il patrimonio morale che l’Occidente (compresi i Paesi all’epoca socialisti) ha costruito per l’umanità intera. Oggi dobbiamo constatare che questo patrimonio morale è stato completamente dilapidato proprio da quei paesi che rivendicano i c.d. “valori” dell’Occidente. Con esso è stata demolita l’idea stessa posta a fondamento dell’Ordinamento nato sulle ceneri della Seconda guerra mondiale, cioè che il diritto debba regolare le relazioni internazionali, assicurando la convivenza pacifica fra le Nazioni.
Quando il Cancelliere tedesco Merz ha dichiarato: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”, senza che nessun paese europeo abbia avuto nulla da obiettare, con questa frase agghiacciante, è stato seppellito il principio ordinatore delle relazioni internazionali e rivendicata la legge della giungla. Questa dichiarazione ha scoperchiato l’insostenibile falsità della formula del “mondo fondato sulle regole” adoperata come una clava per alimentare la guerra per procura condotta dall’Occidente collettivo contro la Russia utilizzando il sangue degli ucraini. Ha smascherato l’ipocrisia delle giaculatorie europee e della NATO sulla guerra combattuta per ottenere il rispetto del diritto internazionale e la faziosità dei 18 pacchetti di sanzioni adottati a carico della Russia a fronte di nessuna sanzione ad Israele per fermare il genocidio dei palestinesi a Gaza. Il Mantra dell’aggredito e dell’aggressore è misteriosamente scomparso di fronte all’aggressione condotta da Israele contro l’Iran. Nessuno ha pensato di inviare delle armi all’Iran per difendersi dall’aggressione israeliana e nessuno ha invocato l’art. 51 della Carta dell’ONU (che consente la difesa collettiva) per sostenere il Paese aggredito. Al contrario, si sostiene lo Stato aggressore per aiutarlo a difendersi dalla reazione dell’aggredito, chiudendo gli occhi sull’orribile mattanza in corso a Gaza. Questa dichiarazione è l’equivalente di una piena confessione dell’uso strumentale di norme e principi del diritto internazionale, adoperati contra ius, come schermo giuridico per alimentare la guerra in Ucraina, anziché per porvi fine. Quali sono le regole del “mondo fondato sulle regole” invocato da Stoltenberg, dal suo successore Rutte, dalla von der Layen e compagnia bella? Se i principi universali del diritto non valgono per noi che li abbiamo prodotti nel secolo scorso a beneficio di tutta l’umanità, non valgono per nessuno, l’unica regola è la forza al posto del diritto. È proprio questa la regola a cui si riferisce Merz quando esprime apprezzamento per l’aggressione di Israele. Purtroppo l’effetto della legge della giungla sarà il caos e una condizione di guerra permanente.
La provocazione bellica compiuta da Israele, e rivendicata con arroganza dal suo ambasciatore presso le Nazioni Unite, svolge la funzione di detonatore di un conflitto più ampio, punta a coinvolgere direttamente gli Stati Uniti nella guerra, trascinandosi dietro, all’occorrenza anche gli Stati europei più volenterosi (come la Germania). È inutile nasconderci che ci sarebbe un esito disastroso, anche se le altre potenze come Russia e Cina restassero a guardare. L’Amministrazione Usa dapprima ha preso tempo, poi si è accodata a Israele bombardando i principali siti nucleari (reali o presunti) iraniani. La possibilità che si riesca a scongiurare un’esplosione di violenza bellica dalle conseguenze inimmaginabili e imprevedibili si fa sempre più flebile.
La speranza è che sotto i turbanti degli Ayatollah alberghi quel minimo di saggezza che manca nella testa dei leader europei come Merz e che, a suo tempo, mancò a Saddam Hussein, che per orgoglio rifiutò quella ritirata strategica che avrebbe gettato sabbia negli ingranaggi della macchina bellica che gli americani avevano predisposto nel Golfo.
Bombardare Teheran, ovvero il suicidio dell’Occidente- Sergio Labate
A Gaza si continua a morire. E mentre Gaza muore noi abbiamo altro per cui riempire le nostre pagine social: la bomba atomica dell’Iran, questa gigantesca “minaccia esistenziale” per Israele e per tutti noi. Che in effetti, come è a tutti noto, non esiste e si affianca – quanto a dispositivo di propaganda – alla “minaccia esistenziale” di Putin che sarebbe già pronto a invadere Lisbona. Un’arma di distruzione di massa trasformata in arma di distrazione di massa.
Ora anche qui conviene premettere ciò che è scontato: non ho alcuna simpatia per il regime iraniano e non ho alcuna intenzione di difenderlo. Però vorrei stare ai dati di fatto. Che sono molto semplici: l’Iran ha un programma nucleare che è in itinere, la cui fine – ammettendo le peggiori intenzioni – non solo è di là da venire ma è anche rallentata da controlli serrati da parte di organismi terzi e internazionali (ci torneremo). Israele ha un arsenale atomico esibito e accertato che però viene pubblicamente e sfrontatamente sottratto a ogni controllo eventuale.
Chi legge queste righe ed è indottrinato dai cani da guardia del potere (genitivo soggettivo) – i vari Bocchino, Mieli, Meloni, Crosetto, Picierno, Fassino – dirà che questo è un punto di vista ideologico. Ecco, è proprio questo il punto da rivendicare nell’epoca della post-verità. Questi dati di fatto non sono un punto di vista soggettivo delle cose, ma le cose per ciò che sono, niente di più o niente di meno. La differenza tra me e Bocchino è molto semplice: io sono amico della verità. Quindi, stando ai dati di fatto e per ciò che concerne le “minacce esistenziali”, siamo di fronte a una scena in cui una persona con una pistola in mano sta attaccando un’altra persona che la pistola – ammesso che ce l’abbia – non la potrà usare ancora per molto tempo. E la giustificazione del suo attacco è che avere una pistola in mano è una “minaccia esistenziale”. Come non essere d’accordo a osservarlo con attenzione, in effetti? Israele è una minaccia esistenziale per tutti, ormai.
Non voglio scrivere un articolo fingendo di essere ciò che non sono, un esperto di geopolitica. Ma come capirete tra poco anche questo è ormai un problema: perché la geopolitica è una scienza che pretende di coprire il significato di eventi che trascendono il loro semplice significato geopolitico. Che hanno bisogno di “pensiero” e non solo di “scienza”, di saggezza e non solo di competenza. Per questo vorrei semplicemente riflettere sull’uso che facciamo di alcune parole, che dobbiamo certamente bonificare.
La prima è quella a cui ho già fatto riferimento: la “minaccia esistenziale”. Che è una categoria estremamente controversa dal punto di vista della sua usabilità politica. In un certo senso, la minaccia esistenziale può applicarsi con rigore esclusivamente quando riguarda l’intera umanità. La crisi ecologica è senza dubbio una minaccia esistenziale, perché mette in pericolo la vita umana di tutti, non solo questa o quella vita umana, questa o quella nazione. Invece l’uso soggettivo della minaccia esistenziale è sempre problematico. Detto più chiaramente: non c’è guerra o sterminio avvenuto nella storia umana che non abbia avuto come giustificazione una qualche forma di minaccia esistenziale. Persino la Shoah veniva legittimata come un tentativo di difendere la purezza della propria razza messa a repentaglio dalla presenza degli ebrei. Esempio scomodo, me ne rendo conto. A cui possiamo affiancare più sobriamente le nostre esperienze biografiche, in cui riconosciamo in azione permanente quello che Tamar Pitch definirebbe il malinteso della vittima. Tutti quelli che scelgono di far del male, lo giustificano a se stessi e agli altri in quanto si sentono vittime e si sentono così “minacciate”.
Se un uso politico si può, dunque, fare della categoria di “minaccia esistenziale”, dovrà avere qualche elemento oggettivo di contenimento. Prendiamo l’invasione di Putin in Ucraina. Invasione di un paese sovrano effettuata con la giustificazione di una “minaccia esistenziale”, esattamente come Netanyahu in Iran. Qualcuno dei Bocchino, Meloni, Fassino ecc. mi saprebbe rispondere su quale sia la differenza tra i due? Perché nel primo caso abbiamo il dovere di reagire e difendere gli invasi, mentre nel secondo caso dovremmo appoggiare l’invasione? L’unica risposta che mi aspetto di ottenere è quella fondata sulla superiorità morale dell’Occidente. Netanyahu può invadere un paese sovrano perché è il rappresentante di una democrazia e il suo obiettivo è liberare da una dittatura. Putin non può farlo perché è un dittatore e il suo obiettivo è di distruggere una democrazia (facciamo finta che lo sia davvero). Ma non è difficile capire come in questa risposta l’Occidente stia negando se stesso e, in particolare, stia rimuovendo la grande architettura politica moderna che ha fatto del diritto l’argine a ogni arbitrio e a ogni abuso della forza. Questa risposta non ha nulla a che vedere con l’Occidente che si è messo in discussione, che ha riconosciuto le proprie responsabilità imperialistiche e colonialistiche, che pretende di ancorare le democrazie a un sistema di bilanciamento liberale (altro che comunismo, qui si tratta ormai quasi soltanto di difendere la democrazia con argomenti rigorosamente liberali) e che, soprattutto, sa che non può esserci un potere al di sopra delle leggi, capace di qualunque cosa. Per questo l’unica risposta che Bocchino, Meloni, Fassino non mi daranno mai è l’unica risposta corretta – dico dal punto di vista liberale, non dal punto di vista di una rivoluzione. In una teoria liberale, l’argomento della “minaccia esistenziale” può essere utilizzato da un singolo Stato solo a due condizioni: che esso non diventi un pretesto per mettere in discussione il principio dell’autodeterminazione di un popolo e soprattutto che tale minaccia sia giudicata non da chi è parte in causa, ma da un organismo terzo e sovranazionale. Questa risposta non potranno mai darmela, perché è evidente che l’invasione di Israele non rispetta nessuna di queste condizioni e che non c’è alcuna differenza tra Netanyahu e Putin dal punto di vista della gravità dell’attacco a territori sovrani.
La seconda parola di cui vorrei decostruire l’uso attuale è quella di “deterrenza nucleare”. Per quelli della mia generazione, questa storia del ritorno della minaccia nucleare su larga scala è una faccenda surreale. Per quelli che hanno disgraziatamente scelto di studiare filosofia ancor di più. Perché le conseguenze dell’uso americano delle bombe atomiche sembravano irreversibili. La deterrenza atomica si spiegava in questo contesto: alcuni Stati hanno delle armi che non possono davvero usare, perché il loro uso è una “situazione limite” dell’umano: adoperarle significa mettere fine all’umanità tout court, non solo a quella del nemico. È per questo che grandi filosofi – i più celebri sono Anders e Jaspers – hanno fatto dell’atomica il simbolo di una civiltà che ha accresciuto la propria tecnica a livello tale che la sua massima potenza consiste nel massimo annientamento, nella distruzione totale.
Da poco più di tre anni a questa parte, l’atomica non è più un tabù dei nostri discorsi politici. Se dovessi sintetizzare cosa sia diventata, direi così. Quando l’atomica è dei nostri amici, è qualcosa che possiamo esibire con orgoglio e non più con vergogna, come la prova della nostra forza (Israele docet). Quando l’atomica è dei nostri nemici, è solo un armamentario simbolico: dobbiamo fare la guerra a Putin senza considerare che la Russia è una potenza atomica. Fare come se non ci fosse, tanto mica sarà così pazzo da usarla. Argomento che mi ha sempre incuriosito, perché è come dire che gli incalliti antiputiniani sono in realtà quelli che di lui si fidano di più: sono certi che non sia né così stupido né così crudele da usare le sue armi atomiche. Io, a pelle, non mi fiderei fino al punto da affidargli tutte le nostre vite.
L’effetto straniante di tutto ciò è sotto gli occhi di tutti: se qualche decennio fa dell’atomica si parlava solo in termini di disarmo o di deterrenza, oggi se ne parla in termini proattivi, non escludendone l’uso (cioè quello che fino a pochi anni fa non doveva essere nominato perché non poteva essere immaginato). Ma in fondo vale anche per l’atomica la logica che valeva per la “minaccia esistenziale”. Chi decide chi è davvero pericoloso? Chi è parte in causa o degli organismi terzi e internazionali, quelli che abbiamo ridotto a finzioni caricaturali? Ma soprattutto, perché chi attualmente ha l’atomica può definire come minaccia esistenziale qualcuno che vorrebbe averla e che, a questo punto, ha tutto il diritto di pensare che quel Paese che già possiede l’atomica sia una minaccia esistenziale per sé? È il paradosso dell’educatore. Se io dico a mio figlio che fumare fa male mentre sto fumando la sigaretta, non sarò troppo credibile. Così vale per Israele: se grida al lupo al lupo mentre indossa orgogliosamente i panni di un lupo, non credo serva a molto. A meno di non pensare che questo è lo stato di natura e che solo la forza definisce i rapporti internazionali. Per carità, si può pensare anche. Ma poi non parliamo di superiorità morale dell’Occidente, magari soltanto del suo suicidio.
Gaza muore. Ma ormai non ci interessa quasi più. È uno spettacolo in seconda visione, dobbiamo andarlo a cercare nei cinema di periferia. Sui multiplex la distrazione di massa prevale, ci avvince. Le mirabolanti avventure dell’Occidente che salveranno le donne oppresse da un regime brutto e cattivo (è scontato che il salvatore delle donne sia sempre un maschio bianco e di una certa età). E chi lo nega. Solo che per salvarle, intanto le stiamo uccidendo. Oggi Israele ha chiesto di abbandonare immediatamente una zona di Teheran, prima che arrivassero le bombe. Che paese avanzato che preserva i civili in ogni maniera. In quella zona ci sono 300mila abitanti. Voi avete idea di cosa possa significare evacuare un numero tale di gente in pochi minuti e col terrore dei bombardamenti? Non si può, semplicemente. È una trappola, ma noi la definiamo guerra intelligente.
Gaza muore e con lei anche le donne di Teheran. Quanto dolore innocente e inutile! Israele e l’Occidente si sentono minacciati esistenzialmente da una bomba che non c’è, mentre contribuiscono ad avvampare l’unica minaccia che continuerà a sfibrarli per anni e anni. Si chiama terrorismo: la reazione inevitabile dei figli di quelle donne che con la scusa di salvare stiamo intrappolando, di tutti quelli che a Gaza hanno perduto ogni cosa. Di tutte queste vittime non resterà che la memoria: nessuna arma intelligente d’Israele potrà cancellarla (se non le armi nucleari, probabilmente). E la memoria diventerà presto minaccia, volontà di vendetta. Continuiamo così, suicidiamo l’Occidente. Ma sentendoci vittime, mi raccomando.
Mentre a Gaza il massacro continua tra concentramento e sterminio - Ennio Remondino
238 uccisi ai centri «umanitari». L’Onu prevede che 470mila persone affronteranno la Catastrofe (il quinto e più grave livello di insicurezza alimentare) entro settembre. Significa una totale mancanza di accesso al cibo e ad altri bisogni primari. «Israele ha armato il cibo e bloccato gli aiuti salvavita. Retorica inquietante e disumanizzante degli alti funzionari del governo israeliano che ricorda il più grave dei crimini».
Fame e «zone di concentrazione»
«Forse aspettavate che suonassero le campane quando fosse avvenuta la deportazione di massa dei palestinesi, o che il portavoce dell’esercito israeliano rilasciasse una dichiarazione. Ma sta accadendo ora, in questo preciso istante. Non proprio sotto i nostri occhi – si può sempre distogliere lo sguardo – ma gli echi dei bombardamenti raggiungono migliaia di case in Israele». La dura reprimenda di Gadi Agazzi, professore di storia all’Università di Tel Aviv dal Manifesto. «Le esplosioni a Gaza sono un messaggio personale: l’espulsione di massa (il transfer, nel vocabolario politico israeliano) è in corso. Quando penserai che il momento sia arrivato, sarà troppo tardi. Si tratta di un processo accelerato e ci siamo già in mezzo».
Il cibo come arma
Come si svolge il trasferimento? Al momento, attraverso l’affamamento della popolazione, la distruzione delle infrastrutture essenziali, l’uso degli «aiuti umanitari» come strumento di guerra e i bombardamenti sistematici. Dunque il cibo come arma. «I massacri dei palestinesi che si sono precipitati verso il centro di distribuzione alimentare hanno giustamente scioccato molte persone. Tuttavia, eventi così drammatici rischiano di distogliere l’attenzione dall’essenziale: invece dei duecento centri di distribuzione alimentare previsti da organizzazioni internazionali esperte, Israele ne ha creati solo quattro. Quattro centri (anche ipotizzando che ce ne siano alcuni in più) per oltre due milioni di persone».
Si umiliano privandoli della loro dignità umana
«Anche la collocazione dei centri è molto significativa: uno si trova al centro della Striscia di Gaza e gli altri tre all’estremo sud, a ovest di Rafah. Non vi è alcuna corrispondenza tra la collocazione di questi centri e i bisogni della popolazione. La distribuzione del cibo non ha lo scopo di rispondere a necessità umanitarie, ma di perpetuare la carestia sistematica con altri mezzi». Obiettivo, favorire lo spostamento della popolazione verso sud, preferibilmente verso le cosiddette «zone di concentrazione». Già l’11 maggio, il quotidiano Ma’ariv riportava le dichiarazioni di Netanyahu durante una riunione riservata della commissione parlamentare per gli affari esteri e la sicurezza, secondo cui «l’erogazione degli aiuti sarebbe subordinata al fatto che i gazawi beneficiari non facciano ritorno nei luoghi da cui sono partiti per recarsi nei centri di distribuzione».
Distribuzione del cibo come mezzo di pressione
La logica dell’operazione «distribuzione degli aiuti» è stata confermata da Tammy Caner, direttrice del dipartimento Diritto e Sicurezza nazionale presso l’Istituto per gli studi di sicurezza nazionale di Tel Aviv. In altre parole, la distribuzione del cibo è un mezzo di pressione. Nell’intervista Caner ha confermato che, se si teme che la distribuzione secondo le modalità consuete consente ad Hamas di controllare gli approvvigionamenti, la soluzione ovvia è fornire cibo in abbondanza a tutti, per evitare la creazione di un monopolio che possa essere sfruttato contro la popolazione civile. «Il monopolio è proprio il punto centrale: Israele vuole averne il controllo esclusivo per usarlo contro la popolazione civile. La fame e la distribuzione subordinata a condizioni imposte dall’occupante sono due mezzi complementari per usare il cibo come arma».
Affamare-espellere
La riduzione sistematica alla fame dei civili da parte degli eserciti durante guerre totali condotte contro intere società è una pratica che ha una lunga storia. «Ma lo spostamento della popolazione tramite la creazione o lo sfruttamento di gravi penurie, così come l’uso degli approvvigionamenti come strumento di coercizione, non è una novità nemmeno in Israele. In uno studio non ancora pubblicato, ho scoperto che negli anni Cinquanta le autorità israeliane usarono la privazione di beni essenziali soprattutto come mezzo di pressione contro i palestinesi, sia rifugiati sia cittadini, e in misura inferiore – ma comunque significativa – contro gli ebrei (principalmente nuovi migranti mizrahim) che lo Stato cercava di trasformare in coloni nelle aree di insediamento».
Il cibo è un’arma
«La privazione di beni di prima necessità e la loro fornitura condizionata sono armi efficaci proprio perché non comportano né spari né bombardamenti. Il cibo è un’arma. La promessa di Netanyahu secondo cui la distribuzione di alimenti avrebbe creato un «consenso» favorevole al trasferimento è anche la spiegazione più plausibile del fatto che il ministro Bezalel Smotrich, ferreo oppositore della distribuzione di cibo ai palestinesi di Gaza, sia diventato improvvisamente un convinto sostenitore della misura». «Non è ancora chiaro se il programma di affamamento-trasferimento stia raggiungendo i suoi obiettivi. I rapporti provenienti da Gaza indicano che ai centri di distribuzione si recano solo i più forti, coloro che riescono a camminare per chilometri trasportando una razione alimentare per un’intera settimana; che il cibo, come prevedibile in condizioni di penuria estrema, finisce nelle mani di bande violente; e che Israele finora non è riuscito a convincere le centinaia di migliaia di palestinesi presenti nel nord della Striscia a compiere il lungo viaggio verso sud, né a impedirne il ritorno».
E siamo soltanto all’inizio
«Questo significa forse che il pericolo sta diminuendo o che il programma di trasferimento tramite la fame non funziona? In realtà, il programma è appena agli inizi. Se gli sarà permesso di proseguire, è probabile che la sofferenza finirà per avere effetto. Ancora più importante: in un contesto di trasferimento progressivo, privo di controllo pubblico, monitoraggio e pressione internazionale, la risposta prevedibile all’insuccesso delle misure coercitive sarà un’intensificazione della distruzione e delle uccisioni. Ci sono segnali che questo stia già avvenendo nel nord della Striscia di Gaza: secondo gli ultimi rapporti lo scopo della distruzione di tutte le infrastrutture vitali e del maggior numero possibile di edifici è costringere la popolazione a partire senza poter tornare».
Le conferme di Netanyahu
Una conferma esplicita di ciò si trova anche nelle dichiarazioni di Netanyahu, trapelate durante la stessa riunione: «Stiamo distruggendo sempre più case, non avranno dove tornare. La sola conseguenza logica sarà che i gazawi vorranno emigrare fuori dalla Striscia di Gaza. Il nostro problema principale è rappresentato dai paesi di accoglienza». «È importante: per procedere a una deportazione definitiva, non basta espellere le persone. Bisogna privarle di ogni possibilità di ritorno, come è avvenuto dopo il 1948. È proprio questo che rendono possibile i bombardamenti sistematici: distruggere il nord della Striscia di Gaza e altre sue parti fino a renderle del tutto inabitabili. Il grande progetto israelo-americano di trasferimento è ancora attuale».
Tre zone di concentrazione
«Da mesi, Israele è in trattative con alcuni ‘paesi di accoglienza’, una selezione di dittature. Tra i criteri considerati, la stabilità del regime e la legittimità internazionale, ma si tratta anche, molto probabilmente, di una questione di tariffa ’per persona’. Tuttavia, in assenza di ‘paesi di accoglienza’, dove si cerca attualmente di trasferire queste persone? Le autorità israeliane parlano di tre ‘zone di concentrazione’ all’interno dell’enclave palestinese».
Secondo una stima approssimativa, la zona attorno alla città di Gaza misura circa 50 km², quella dei campi nel centro circa 85 km², e quella di Mawasi, lungo la costa meridionale, circa otto km². Se si riuscisse a spingere e confinare la popolazione civile all’interno delle aree indicate, oltre due milioni di abitanti verrebbero ammassati su appena il 40% del territorio. La densità di popolazione salirebbe a 15mila abitanti per km², livello paragonabile a quello di isole ricche e sovraffollate come Macao e Singapore. Vivranno in un nuovo deserto, privo di infrastrutture, creato dall’esercito.
Veri e propri campi di concentramento
«Se si osserva la situazione non attraverso i documenti ufficiali dell’esercito, ma tramite i dati raccolti sul campo dalle organizzazioni umanitarie, emerge un quadro ancora più allarmante: l’espulsione continua verso aree ancora più ristrette. I portavoce ufficiali si premurano di chiamarle «zone di concentrazione». Ma le loro dimensioni ridotte, l’interdizione a uscirne, l’assenza di mezzi di sussistenza e infrastrutture consentono di definirle, senza ambiguità, veri e propri campi di concentramento. Questo processo era in atto da mesi, ma ora sta subendo una forte accelerazione. Il ritmo non è solo una questione temporale: l’accelerazione implica che il livello di crudeltà raggiunge proporzioni mai viste prima. I confini tra repressione ed espulsione, tra pulizia etnica ed eliminazione fisica, si assottigliano facilmente, quasi spontaneamente, quando le forze armate accelerano il processo e nulla le ostacola. In tempi di guerra, in assenza di controllo internazionale e nel caos dei combattimenti, una deportazione può diventare ancora più letale se trova ostacoli».
Dinamica omicida con pulsioni di sterminio
«Lo spostamento ripetuto da un luogo all’altro, in un territorio ristretto come Gaza, mira a sradicare le persone e a distruggere il tessuto delle loro vite; alcuni muoiono ‘da soli»’ e altri diventano un ’problema’ da risolvere con mezzi sempre più brutali; la distruzione sistematica genera una nuova realtà: aree inabitabili, che giustificano apparentemente un’espulsione per ‘ragioni umanitarie’; e il trasferimento forzato verso ‘zone di concentrazione’ crea condizioni di vita insopportabili. È anche del tutto plausibile che, di fronte al fallimento delle operazioni per rinchiudere le persone in enormi recinti, per espellerle dalla Striscia o per contenere l’estrema sofferenza generata dall’esercito stesso, la dinamica omicida si spinga a un livello ancora più alto. Il XX secolo ci offre diversi esempi spaventosi della rapida radicalizzazione degli eserciti nelle loro azioni contro le popolazioni civili, nel contesto di guerre spietate.
È questa dinamica che porta ai vertici del comando coloro che sono determinati a sterminare. Per passare da un’operazione di trasferimento fallita a una pulizia etnica sanguinosa, per arrivare a un disastro ancora più grave di quanto abbiamo visto finora, non serve un piano sofisticato. Basta il silenzio.
La paura dell’Iran è un panico orchestrato da decenni - Haggai Ram
(intervista di Gwenaelle Lenoir)
Benjamin Netanyahu e lo stato maggiore dell’esercito israeliano hanno detto che la guerra contro l’Iran mira a eliminare una minaccia esistenziale per lo Stato di Israele. Lei crede che questa minaccia esistenziale non esista. Perché?
Esatto. Vorrei innanzitutto chiarire che non sono un difensore del regime iraniano. Considero l’Iran malvagio sotto molti aspetti, principalmente nei confronti della sua stessa popolazione. Non dobbiamo mai dimenticare questo: il regime iraniano rappresenta un pericolo minore per gli altri paesi, in particolare per Israele, che per la sua stessa popolazione.
Un Iran nucleare, in possesso di armi nucleari, non costituirebbe una minaccia estrema?
L’idea che una volta acquisita la capacità nucleare, l’Iran la userà contro Israele è falsa. Innanzitutto, contraddice ciò che il regime iraniano ha ripetutamente affermato, ovvero che tale capacità fosse destinata esclusivamente a scopi civili. Tuttavia, nessuno ci crede perché è stata condotta una campagna ampiamente pubblicizzata e ben orchestrata per screditare le affermazioni del regime iraniano. Inoltre, molti paesi in tutto il mondo possiedono armi nucleari, alcune delle quali, a causa della loro instabilità, rappresentano un rischio molto maggiore dell’Iran. Ricordiamo inoltre che l’Iran è firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare, cosa che non vale per Israele. E sappiamo tutti che Israele possiede un arsenale nucleare molto vasto. Quindi penso che gli iraniani non vengano giudicati equamente dal mondo. Abbiamo visto l’Iran usare agenti per procura, Hezbollah, per esempio. Tutti gli stati usano agenti per procura. Israele lo fa da molti anni. Quando l’Iraq era suo nemico, aveva i curdi. Quando l’Iran è diventato un problema, si è rivolto agli Stati del Golfo. Anche gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda e la guerra del Vietnam avevano i loro agenti per procura. Per quanto riguarda l’Occidente, questo non rappresenta un problema. D’altra parte, quando altri, di solito popolazioni non bianche e indigene, hanno i loro agenti per difendere i propri interessi, diventa un crimine. Attaccare l’Iran è un modo per distogliere l’attenzione dalla prospettiva dell’autodeterminazione palestinese. Perché, se non per eliminare una minaccia esistenziale, Israele ha lanciato questa guerra contro l’Iran? Questa era un’opportunità per Benjamin Netanyahu. Per lui, minacciare l’Iran è una carriera. Voglio dire che negli ultimi vent’anni è stato il suo obiettivo principale. Tuttavia, non credo che, in fondo, consideri l’Iran una minaccia tale da meritare di essere attaccato. Il suo obiettivo principale, il suo desiderio principale, è smantellare ogni possibilità di uno stato palestinese. Attaccare l’Iran è per lui un modo per distogliere l’attenzione dalla prospettiva dell’autodeterminazione palestinese. L’obiettivo è “finire il lavoro”, come si dice in Israele, ovvero effettuare la pulizia etnica di Gaza e continuare l’espropriazione e l’oppressione dei palestinesi in Cisgiordania. Benyamin Netanyahu ha un’altra ragione: negli ultimi anni ha sfruttato la minaccia iraniana per consolidare il suo potere, proprio perché è sotto processo per accuse molto gravi di corruzione e altre questioni. Credo che la sua preoccupazione principale oggi sia semplicemente rimanere al potere. E uno stato di guerra permanente è il primo capitolo di un manuale intitolato Manuale del dittatore: un manuale pratico per l’aspirante tiranno (Gull Pond Books, 2012).
Ma la minaccia di attaccare l’Iran non è mai stata un’esclusiva di Benjamin Netanyahu. In Israele esiste un consenso unanime sul pericolo rappresentato dal regime di Teheran. Netanyahu sta sfruttando il fatto che tutti in Israele, tra i partiti politici sionisti, dai sionisti di sinistra a quelli di destra, sono convinti che la minaccia iraniana sia concreta e immediata e che sia necessario agire contro l’Iran. Su questo punto, non ci sono voci discordanti in Israele. Tutti parlano con una sola voce: l’Iran non deve avere capacità nucleari e che, se dovesse accadere il peggio, Israele dovrebbe occuparsene perché nessun altro lo farebbe. L’Iran non ha mai affermato di voler distruggere Israele. Ciò che l’Iran ha ripetutamente affermato è che il regime sionista che occupa la Palestina un giorno scomparirà, proprio come è scomparso il regime di apartheid in Sudafrica.
Tuttavia, questo non è un caso isolato. I rappresentanti israeliani hanno costantemente avvertito che il regime iraniano deve essere rovesciato. Esiste quindi una sorta di equilibrio di terrore tra i due stati. Ecco perché Benjamin Netanyahu godrà ora, credo, di un sostegno senza precedenti da parte dell’opinione pubblica israeliana. Questo attacco potrebbe rivelarsi catastrofico per Israele, ma nell’immediato futuro il sostegno della popolazione israeliana a questa guerra è molto importante. Perché questo panico morale è stato sfruttato per almeno trent’anni.
Perché lo chiamate “panico morale”? È un panico creato ad arte.
C’è del vero in questo, ma solo un po’. Ecco cos’è il panico morale. Questo non cambia il fatto che sia davvero un panico. È irrazionale e ha molte radici, una delle quali, ovviamente, è l’Olocausto. Come se l’Iran fosse una nuova manifestazione del regime nazista. Ricordo chiaramente Benjamin Netanyahu che, circa dieci o quindici anni fa, diceva che la Repubblica Islamica dell’Iran era la Germania nazista del 1939.
Quindi anche lui sta sfruttando le emozioni, forse comprensibili ma irrazionali, suscitate dall’Olocausto. È a causa di questo panico morale che ha intitolato il suo libro Iranofobia: la logica di un’ossessione israeliana?
Assolutamente. Una fobia è qualcosa di irrazionale. Quella che ho chiamato “Iranofobia” è una sorta di proiezione sull’Iran di ciò che preoccupa Israele di se stesso. Almeno dal 1977, alcuni sionisti, principalmente progressisti e di sinistra, temono che Israele assomigli sempre di più all’Iran. Ci sono i partiti religiosi, ultrareligiosi, e i loro sostenitori vestiti di nero e con lunghe barbe, che parlano più di teologia che di politica. Ci sono i loro sostenitori orientali, che sono anche sostenitori del Likud. Ci sono i rabbini che vengono chiamati ayatollah israeliani. Ci sono i leader populisti e carismatici, come Menachem Begin [Primo Ministro tra il 1977 e il 1983 – ndr]. Questo è Orientalismo, perché l’Orientalismo stesso, quando si sviluppò nel XVIII e XIX secolo, considerava l’Impero Ottomano una monarchia esotica, sessualmente sfrenata e corrotta, dove si verificavano abusi sessuali di ogni tipo, e un regime autocratico. Era anche un modo per proiettare sull’Oriente ciò che gli europei stessi condannavano in Europa. Quando parlavo di fobia, intendevo esattamente questo tipo di proiezione. Nel 1992, lo slogan elettorale del partito di sinistra Meretz era “Questo non è l’Iran”. Il che significa, ovviamente, che c’è qualcosa di iraniano che deve essere negato, non è vero? È anche perché Israele aveva ottimi rapporti con il regime dello Scià, rovesciato nel 1979? Lo Scià dell’Iran e Israele erano entrambi impegnati in un progetto simile. Entrambi si consideravano società occidentali impiantate in Oriente, un’Europa del Medio Oriente. Poi arrivò la Rivoluzione Islamica del 1979, che dimostrò che si trattava di una pura fantasia priva di radici profonde. Quindi penso che molti israeliani, vedendo ciò che stava accadendo in Iran, temessero che questo fosse il futuro dello Stato di Israele, da qui la loro crescente tendenza a esprimere preoccupazioni sull’Iran. Ma il loro timore era che la rivoluzione iraniana sarebbe stata il futuro dello Stato sionista. Questo accadeva trent’anni fa. Precisamente, la società israeliana oggi è più religiosa che mai, e i partiti ultraortodossi sefarditi e i gruppi politici nazionalisti religiosi sono la spina dorsale della coalizione di governo.
Israele e Iran sono allineati in questa dimensione politico-religiosa?
Assolutamente sì. Ma è così da molti anni. Oggi questa convergenza è radicale e spettacolare. Ma non è qualcosa che è accaduto dall’oggi al domani. È un processo iniziato, credo, nel 1967, o anche prima. Il contenuto messianico del progetto sionista è diventato sempre più importante. Lo stesso David Ben-Gurion era un grande messianico. Forse l’ha espresso in termini più laici, ma il suo messaggio era molto messianico. Siamo di fronte a un fenomeno molto particolare. In effetti, ciò che di solito spinge gli stati a scontrarsi sono le loro presunte differenze. Ma questo è un caso eccezionale in cui le radici profonde della crisi e dell’animosità risiedono nelle somiglianze, non nelle differenze. È un caso speciale che non esiste da nessun’altra parte.
Come vede il futuro?
Sono molto pessimista sulle prospettive di un Israele prospero. Ma sa, non c’è bisogno di essere marxisti per comprendere la dialettica della storia. Da antisionista, penso che questo potrebbe forse aprire la strada, in modi che al momento non possiamo comprendere appieno, a una soluzione più praticabile al conflitto israelo-palestinese. Forse verso una soluzione a un solo stato. Perché questo non può durare per sempre. Vivere in una situazione di crisi per un periodo così lungo non è un’opzione praticabile per nessuna società.
Pubblicato su Mediapart il 15 giugno (con il titolo Israël : «La peur de l’Iran est une panique morale orchestrée depuis des décennies»). Traduzione di Salvatore Palidda, collaboratore di Mediapart.
Per un Medio Oriente libero da armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa - Giorgio Ferrari
Chissà se le lancette del doomsday clock (l’orologio dell’apocalisse) si avvicineranno ancora di più alla mezzanotte dopo che Israele ha dichiarato guerra all’Iran. Comunque sia si può star certi che Netanyahu, nel sferrare il suo attacco, abbia approfittato del clima bellicista che ha preso piede in Europa e delle conseguenti politiche di riarmo.
Attacco che introduce pericolosissime novità nelle già terribili logiche di guerra che non possono essere sottovalutate ne taciute.
In primo luogo il bombardamento dei siti nucleari iraniani va considerato alla stregua di un vero e proprio attacco atomico, perché nel farlo Israele ha messo in conto che l’uranio lì immagazzinato potesse fuoriuscire dai contenitori e contaminare l’ambiente, tanto più che gran parte di questo uranio è conservato sotto forma di gas (UF6, esafloruro di uranio) che oltre ad essere radioattivo è anche tossico e reagisce con l’acqua.
Questo è uno dei principali motivi per cui i Protocolli aggiuntivi del 1977 della convenzione di Ginevra vietano il bombardamento dei siti nucleari, protocolli che però Israele e Stati Uniti non hanno mai ratificato.
In secondo luogo l’uccisione di sei scienziati iraniani, riportata dagli organi di informazione con un malcelato compiacimento, costituisce un ulteriore passo verso la più completa barbarie: da oggi è lecito uccidere gli scienziati, tanto più se lavorano nel campo del nucleare civile perché, fino a prova contraria, è la stessa IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) a certificare con le sue ispezioni che il programma iraniano appartiene a questa sfera di attività.
Qui sorge un inquietante interrogativo sul ruolo svolto dall’IAEA in questa vicenda. Il 12 giugno scorso, cioè il giorno prima dell’attacco ai siti nucleari iraniani, il consiglio direttivo dell’IAEA ha emesso un report in cui si censurava l’operato dell’Iran in quanto non sufficientemente collaborativo nell’esaudire determinate richieste degli ispettori e nel fornire certe informazioni, al punto di scrivere, incidentalmente, che “finché questi aspetti non saranno risolti, l’agenzia non sarà in grado di fornire garanzie che il programma nucleare iraniano sia esclusivamente pacifico.”
Ne è seguita una diffusione mediatica del tutto falsa sintetizzata nella frase “ l’Iran è a un passo dal farsi la bomba”, cosa che Israele ha preso a pretesto per “giustificare” i bombardamenti: l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha dichiarato che l’operazione “Rising Lion” contro le infrastrutture nucleari e missilistiche dell’Iran ha l’obiettivo di eliminare una minaccia esistenziale e immediata per i cittadini di Israele e del mondo intero.
Quello che i mezzi di informazione (e soprattutto Israele) non dicono è che il grado di arricchimento dell’uranio iraniano è al 60% mentre per fabbricare una bomba in grado di esplodere l’arricchimento necessario è per lo meno del 90%, differenza che non è affatto facile da colmare e che richiede molto più tempo di quello impiegato per raggiungere il 60% di arricchimento.
Inoltre il discusso report del 12 giugno scorso è frutto di una forzatura politica imposta al consiglio direttivo IAEA dai rappresentanti di Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania (gli stessi paesi a cui Israele ha comunicato in anticipo l’attacco all’Iran), ma con il voto contrario di Russia e Cina, suscitando le proteste dell’Iran che è arrivato ad accusare l’IAEA di collusione con Israele per avergli fornito informazioni relative ai suoi siti nucleari e al personale scientifico addetto al programma.
Dunque la tesi che sta passando e che Israele ha già utilizzato quando bombardò il reattore iraqeno di Osirak nel 1981 e quello siriano di Al-Kibar nel 2007, è quella dell’attacco preventivo per eliminare la minaccia costituita dal programma nucleare iraniano e non c’è nessuno che chieda conto ad Israele del suo arsenale nucleare, di quali inganni e bugie si sia servito -con la complicità della Francia e poi degli Stati Uniti- per fabbricarselo e per usarlo come minaccia, questa sì concreta, verso tutti i paesi arabi, con l’aggravante che in questo caso si da ragione ad un paese (Israele) che non avendo mai aderito al TNP e neppure accettato ispezioni dell’IAEA, ne aggredisce uno che invece queste regole le ha sempre accettate.
Comunque si risolva questa ennesima guerra del Medio Oriente, non si potrà prescindere dall’affrontare e risolvere una volta per tutte la questione delle armi di distruzione di massa presenti in questa area, nucleari chimiche e biologiche. I paesi occidentali che invocano come un mantra il diritto di Israele a difendersi, sono i maggiori responsabili di questa situazione. Consentendo che Israele sviluppasse segretamente e incondizionatamente il suo programma nucleare, essi hanno dato vita ad una “creatura” che, pur non arrivando ad odiare i suoi creatori come avviene per il mostro di Mary Shelley, è divenuta incontrollabile, proterva e ostile a qualsiasi regola che possa mettere in discussione il monopolio di quella forza che i suoi creatori le hanno irresponsabilmente fornito.
E’ tempo di riparare questo errore, di disinnescare la minaccia rappresentata dall’arsenale nucleare di Israele, facendo del Medio oriente un’area libera dalle armi nucleari e da ogni altra arma di distruzione di massa.
Facciamo di questo questo programma una bandiera del disarmo, sosteniamo e firmiamo la petizione che chiede al governo italiano di dichiararsi favorevole all’istituzione di questa area in Medio Oriente -come è nelle intenzioni della apposita Conferenza permanente istituita in sede ONU- e di adoperarsi in sede europea affinché altri paesi facciano altrettanto.
https://www.mediorientesenzarminucleari.org
In Cisgiordania la più devastante operazione militare israeliana da oltre vent’anni - Riccardo Noury
L'esercito israeliano ha distrutto sistematicamente centinaia di abitazioni all’interno dei campi e nei quartieri adiacenti. "L'avevamo costruita con le nostre mani. Lì siamo cresciuti"
Nei quasi cinque mesi trascorsi dal 21 gennaio, Israele ha portato avanti nella Cisgiordania occupata la più devastante operazione militare dai tempi della seconda intifada. Di questa operazione militare, oscurata dal concomitante genocidio nella Striscia di Gaza, si occupa una recente ricerca di Amnesty International.
Fino al 4 giugno i palestinesi uccisi erano stati almeno 80, tra cui 14 minorenni. Secondo la Commissione palestinese per le persone detenute, dall’inizio dell’operazione ne sono state arrestate circa un migliaio: 700 nella zona di Jenin e 300 in quella di Tulkarem.
L’operazione militare israeliana è iniziata il 21 gennaio nel campo rifugiati di Jenin, per poi estendersi, il 27 gennaio, a quelli di Tulkarem e successivamente alla cittadina di Tammoun e al campo di al-Far’ah. Sebbene le forze israeliane si siano ritirate da al-Far’ah il 12 febbraio, rimangono ancora stanziate nei campi di Jenin e Tulkarem.
Il 23 febbraio, per la prima volta in oltre vent’anni, l’esercito israeliano ha dispiegato carri armati a Jenin. Lo stesso giorno, il ministro della Difesa israeliano ha ordinato all’esercito di “prepararsi a una lunga permanenza nei campi sgomberati” e di “impedire il ritorno delle persone residenti”. Secondo quanto riportato dai media israeliani, che citano fonti militari, l’operazione è destinata a durare mesi: centinaia di soldati resteranno nei campi per attività di “sorveglianza”.
L’esercito israeliano ha dichiarato i campi rifugiati di Jenin, Nur Shams e Tulkarem “zone militari chiuse”, stanziando sul posto proprie forze che impediscono agli abitanti di accedere alle loro case o a ciò che ne rimane. Testimoni hanno riferito che le forze israeliane aprono il fuoco contro chiunque tenti di tornare anche solo per verificare lo stato delle proprie abitazioni o recuperare oggetti personali.
Durante l’operazione militare, l’esercito israeliano ha distrutto sistematicamente centinaia di abitazioni all’interno dei campi e nei quartieri adiacenti, sia mediante azioni armate sia con ordini di demolizione. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, nel solo campo rifugiati di Jenin, i militari israeliani hanno raso al suolo centinaia di case e ne hanno danneggiate molte altre, rendendole inabitabili. Il 1° maggio l’esercito israeliano ha emesso nuovi ordini di demolizione per 106 abitazioni nei campi rifugiati di Tulkarem.
Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha verificato 25 video condivisi sui social media da abitanti o soldati, che mostrano la distruzione di proprietà civili da parte delle forze israeliane nei campi rifugiati di Jenin, Tulkarem e Nur Shams tra il 31 gennaio e il 1° giugno. Le immagini documentano numerosi edifici demoliti con esplosivi posizionati manualmente, nonché strade, palazzi e veicoli distrutti coi bulldozer e le conseguenze di tutto ciò: abitazioni civili ridotte in macerie. In molti casi, le forze israeliane sembrano aver effettuato operazioni di sgombero e di successiva demolizione solo per allargare o creare nuove strade.
Amnesty International ha inoltre analizzato 32 ulteriori video e fotografie forniti direttamente da residenti palestinesi, che documentano danni ad abitazioni e beni personali. Le immagini mostrano interni devastati, finestre in frantumi, mobili distrutti, porte divelte, armadi svuotati, oggetti personali sparsi ovunque e resti di cibo abbandonati nelle stanze.
Un abitante del campo rifugiati di Nur Shams, Ibraheem Khalifa, ha raccontato come la sua famiglia sia stata sfollata con la forza il 9 febbraio e la loro casa sia stata poi demolita:
“Siamo tornati… per assistere alle demolizioni delle case dei nostri vicini e stare con loro [in segno di solidarietà]. Tuttavia, mentre eravamo lì seduti, ci siamo accorti che [il bulldozer militare] stava iniziando a demolire anche casa nostra. L’avevamo costruita con le nostre mani. Lì siamo cresciuti, abbiamo condiviso momenti di gioia e dolore. In quella casa ci siamo sposati, abbiamo celebrato ricorrenze, affrontato difficoltà… tutto. Quella casa ha visto tutto. Ora le nostre abitazioni e tutti i nostri beni non esistono più”.
Nel corso dell’operazione le forze israeliane hanno anche sistematicamente distrutto infrastrutture essenziali: oltre alle strade, anche reti idriche ed elettriche. Anche l’accesso ai campi rifugiati e la libertà di movimento sono stati gravemente compromessi: le forze israeliane hanno bloccato gli ingressi e le strade principali con cancelli metallici o posti di blocco e utilizzato bulldozer per creare barriere di terra e recinzioni con filo spinato.
Sempre da Nur Shams, Fatima Ali ha raccontato che il 9 febbraio le forze israeliane si sono impossessate della sua casa, trasformandola in un avamposto militare. L’irruzione ha costretto la famiglia di suo fratello a lasciare l’edificio, mentre lei – malata e impossibilitata a camminare a causa delle strade distrutte – è stata confinata in una stanza mentre la casa veniva utilizzata temporaneamente come postazione militare:
“Dalla mia casa si vede in tutte le direzioni, ho un balcone e una porta a ovest e un’altra a nord, così loro [i soldati] sono arrivati e l’hanno occupata. All’inizio mi hanno rinchiusa in una stanza. Quando arrestavano qualcuno, lo portavano nella mia abitazione. Mi hanno detto di andarmene ore dopo e ho avuto bisogno dei soccorsi per lasciare il campo perché tutte le strade erano state scavate e distrutte”.
L’operazione militare ha inciso anche su altri diritti sociali ed economici, tra cui il diritto all’istruzione: molti bambini e bambine hanno perso settimane di scuola.
A Tulkarem, quasi 700 attività commerciali sono state distrutte, danneggiate o costrette alla chiusura.
“Tulkarem è diventata una città fantasma. I negozi in città chiudono alle 18 perché non ci sono visitatori o clienti da fuori. Le persone che coltivano non riescono a raggiungere i loro terreni e chi lavora non può uscire per via delle chiusure dei posti di blocco. La situazione economica della città è catastrofica”, ha dichiarato Qais Awad della Camera di commercio di Tulkarem.
Amnesty International chiama in causa il fallimento della comunità internazionale, il cui silenzio sulle violazioni commesse contro la popolazione palestinese rafforza il sistema israeliano di apartheid e incentiva ulteriori violazioni dei diritti umani.
Eppure, nel suo Parere consultivo del luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia era stata chiarissima: la presenza di Israele nel Territorio palestinese occupato è illegale e deve finire al più presto. Quasi un anno dopo, quella presenza sta avendo conseguenze sempre più gravi.
Il "Male assoluto", se esiste, siete voi (e i carnefici che applaudite) - Lorenzo Borrè
Premetto, e ammetto, che non sono mai stato né in Israele né in Iran.
Le mie informazioni dipendono dunque esclusivamente da quel che ho letto e leggo sui media e dalle impressioni di viaggio di amici cari degni di fede, ma volendomi limitare alle prime mi riesce arduo capire perché i malvagi siano quelli che impongono il velo alle donne e non quelli che le uccidono perché portano il velo (uccidendo spesso e volentieri anche quelle che non lo portano, come avviene per le vittime civili a Gaza e in Iran).
Mi è difficile capire chi proclama che uno Stato che ha diversi ordigni nucleari ha il diritto di bombardare uno Stato che vuole dotarsi di energia nucleare per il proprio sviluppo e auspica che l'Iran sprofondi in uno stato di economia pastorale.
Mi è impossibile capire poi quelli che in nome dei diritti umani giustificano (non da ora, bisogna essere onesti: lo hanno fatto anche per l' invasione dell' Iraq e dell' Afghanistan, ma anche per tutte le nazioni colpite dal "metodo Giakarta") i continui crimini contro l' umanità, dai massacri indiscriminati all' impedimento dell' ingresso di cibo, acqua e medicinali a Gaza.
Mi è però chiara la disumanità di chi descrive (o commenta) le cronache del genocidio in atto a Gaza e delle azioni criminali ai danni del popolo iraniano con la stesso leggero spirito di uno che descriva o racconti una giornata di battuta di caccia.
Il "Male assoluto", se esiste, siete voi (e i carnefici che applaudite).
Il volto nudo dell’occupazione - Michele Agagliate
Il colonialismo sionista, l’ipocrisia occidentale e la verità negata: perché la Palestina oggi non ha futuro — e perché abbiamo il dovere morale di dirlo.
Non è (solo) Netanyahu. È Israele. È il suo sistema. È la sua ideologia fondativa. È l’impalcatura culturale, religiosa e militare che regge da decenni uno Stato costruito sulla rimozione sistematica del popolo palestinese e sulla trasformazione della propria identità da rifugio per un popolo perseguitato a potenza teocratica, fanatica e colonialista.
La narrazione dominante in Europa – e, in modo ancora più accentuato, negli Stati Uniti – racconta una favola rassicurante: che esisterebbe un “buon Israele” laico, democratico, pluralista, insidiato solo recentemente da un estremismo politico incarnato da Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati ultranazionalisti e ortodossi. Ma questa narrazione è falsa. O meglio: è consolatoria, perché serve a scindere ciò che invece è organicamente unito.
La verità è che Netanyahu non è un incidente. Non è un’eccezione. Non è neppure una degenerazione. È l’espressione più efficace – e oggi più trasparente – del sionismo contemporaneo. E il sionismo, nel 2025, non è più una dottrina di autodifesa ebraica. È diventato, nella sua forma concreta e statuale, una dottrina suprematista, segregazionista, esclusivista. È l’unica ideologia politico-religiosa del mondo occidentale ad essere ancora al potere in uno Stato armato fino ai denti, che gode dell’impunità diplomatica delle democrazie occidentali e del sostegno economico-militare di Washington.
Il problema non è la destra. Il problema è la maggioranza. Perché anche oggi, mentre i carri armati devastano Gaza e gli F-16 colpiscono il nord dell’Iran, meno del 20% degli israeliani dichiara di opporsi in modo netto alla politica estera e militare del proprio governo. Un dato in calo, secondo le rilevazioni del Israel Democracy Institute. La maggioranza della popolazione sostiene le operazioni militari, la retorica dell’annientamento del nemico, la giustificazione preventiva dell’uso della forza come unica grammatica geopolitica.
Questo non accade in un vuoto neutro. Accade in uno Stato che, pur presentandosi come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, esclude per legge milioni di palestinesi dal diritto di voto, confina due milioni di persone a Gaza in una prigione a cielo aperto, militarizza la scuola, la religione, l’identità. Uno Stato che ha codificato nella propria legge fondamentale – nel 2018 – il principio per cui solo il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. Come si può ancora parlare di democrazia?
Israele non è uno Stato come gli altri. È uno Stato fondato su una religione, per una sola etnia, contro un’altra popolazione, e difende questo principio con le armi. Si può discutere all’infinito sulla natura del sionismo originario – socialista, laico, pluralista – ma ciò che conta è ciò che il sionismo è oggi: un progetto etnocratico protetto da una dottrina teologica che considera i territori occupati non come oggetto di negoziazione, ma come eredità divina.
Da qui, l’uso della Bibbia come mappa politica, dei rabbini come consiglieri militari, dei coloni come avanguardia armata. Da qui, il fanatismo non più marginale, ma centrale. Un fanatismo benedetto, non censurato. E che l’Occidente finge di non vedere.
Allora no, non è (solo) Netanyahu. È tutto il castello. È l’ideologia, la pedagogia, la scuola, la memoria, il modo in cui si cresce un bambino israeliano a vedere l’altro come nemico. È il potere della religione sul diritto. È il fondamentalismo istituzionale. È il sostegno popolare a una guerra permanente. È la negazione strutturale dell’altro – arabo, palestinese, islamico – come soggetto umano e politico.
Israele è uno Stato-nazione che ha sostituito la Shoah con il trauma eterno, la giustizia con la vendetta, la difesa con l’aggressione preventiva. E ha trasformato la condizione della vittima storica in una licenza perenne di impunità.
Non è (solo) Netanyahu. È Israele. Ed è ora che l’Occidente smetta di nascondere la testa sotto la sabbia.
Ogni volta che un esponente occidentale apre bocca su Gaza, su Hamas, su Israele, la parola magica è sempre la stessa: conflitto. Come se fosse una rissa, una lite fra due vicini, un duello tra eguali. Come se davvero si potesse parlare di due parti in guerra, due eserciti, due popoli armati che si contendono una terra da spartire. Niente di più falso, niente di più tossico. Chiamarlo “conflitto” serve solo a mantenere in vita l’equilibrismo criminale dell’Occidente, a fingere che la verità sia nel mezzo, a giustificare l’ingiustificabile.
Ma la verità, cruda e bruciante, è che questa non è una guerra. È una struttura coloniale. È una forma storica di dominio, aggiornata al XXI secolo, che riproduce i meccanismi classici del colonialismo d’insediamento: occupazione del territorio, esproprio delle risorse, segregazione della popolazione indigena, cancellazione della sua identità. E tutto questo, nel caso israeliano, viene portato avanti con gli strumenti moderni della tecnologia, dell’intelligence, della retorica democratica e dei media embedded.
Israele non è solo uno Stato che ha occupato militarmente la Cisgiordania e assediato Gaza. Israele è, a tutti gli effetti, un progetto coloniale d’insediamento, fondato sull’idea che la Terra Promessa non appartenga a chi la abita, ma a chi la reclama in nome di un mito, di una religione, di una narrazione identitaria esclusiva. I palestinesi non sono visti come cittadini da integrare o vicini con cui convivere: sono ostacoli da contenere, bombe a orologeria da neutralizzare, presenze da confinare o far scomparire.
Lo storico Patrick Wolfe l’ha detto senza giri di parole: “Il colonialismo d’insediamento è una struttura, non un evento.” E in Israele questa struttura è visibile ovunque. Nelle centinaia di insediamenti illegali costruiti in Cisgiordania (oltre 700.000 coloni, sostenuti da miliardi in fondi pubblici israeliani), nelle strade riservate solo agli israeliani, nei checkpoint che trasformano ogni spostamento palestinese in un’odissea, nel muro dell’apartheid lungo più di 700 chilometri, che taglia villaggi, separa famiglie, distrugge campi e spezza la continuità territoriale.
È visibile nella pratica sistematica dell’espulsione: basti pensare a Sheikh Jarrah, a Silwan, a Hebron. È visibile nella legislazione discriminatoria: la “Legge sullo Stato-Nazione” del 2018 ha sancito che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione nello Stato di Israele. E gli altri? Esseri umani di serie B. Reietti nel proprio Paese.
È visibile soprattutto in una cosa: il diritto al ritorno negato a milioni di rifugiati palestinesi, mentre chiunque, ovunque nel mondo, possa dichiararsi ebreo, ha diritto automatico alla cittadinanza israeliana. L’ebreo argentino che non ha mai messo piede in Medio Oriente ha più diritti del palestinese nato a Haifa o Jaffa, costretto da tre generazioni a vivere in un campo profughi in Libano.
Non è un “conflitto”. È una sostituzione etnica lenta, normalizzata, difesa dalla diplomazia occidentale e coperta da un racconto tossico che dipinge Israele come “unico baluardo democratico del Medio Oriente”. Come se le democrazie potessero sopravvivere praticando l’apartheid. Come se la democrazia potesse coesistere con l’occupazione militare e con la negazione sistematica dei diritti umani a milioni di persone.
Il dramma è che questo sistema coloniale non solo è sopravvissuto alla decolonizzazione del Novecento, ma si è adattato: ha imparato a usare il linguaggio dei diritti solo per sé, ha colonizzato il linguaggio stesso. “Sicurezza”, “difesa”, “terrorismo”, “ordine pubblico”: parole usate per giustificare qualsiasi cosa. Anche un missile su un ospedale. Anche la fame imposta a due milioni di persone.
E l’Occidente, intellettualmente e politicamente complice, finge di non vedere. Finge che si tratti di una faida religiosa, di un ciclo eterno di vendette, di un ennesimo scoglio nei difficili equilibri del Medio Oriente. Ma è tutto più semplice, e più crudele: c’è un popolo colonizzatore e uno colonizzato. C’è chi ha il potere e chi ha solo la memoria. C’è chi bombarda e chi scava sotto le macerie per trovare il corpo di un figlio.
Ecco perché parlare di “conflitto israelo-palestinese” è già una scelta politica, e una scelta infame. Perché è il modo più raffinato e subdolo per negare che qui siamo davanti a un colonialismo attivo, presente, militante. E finché non lo chiameremo così, finché ci limiteremo a invocare “pace” senza giustizia, senza parità, senza verità, allora non faremo che alimentarlo.
La pace non è possibile se non si riconosce la realtà. E la realtà si chiama occupazione, esproprio, apartheid. La realtà si chiama colonialismo sionista. Solo chiamandolo per nome possiamo cominciare a smontarlo. E a restituire ai palestinesi non solo la terra, ma la dignità di essere visti, capiti, difesi.
Ma per restituire dignità, serve anche verità. E la verità è che da tempo nessuno ci crede più.
Ci fu un tempo — neanche troppo lontano, appena qualche decennio fa — in cui perfino l’Occidente più ipocrita si aggrappava, almeno a parole, a una formula di salvezza: “due popoli, due Stati”. Lo dicevano gli europei in cerca di equilibrio, lo ripetevano gli americani per non perdere la faccia, lo sottoscrivevano gli israeliani moderati per conservare l’anima, lo invocavano i palestinesi come diritto storico. Oggi quella formula è un’eco svuotata, un palliativo diplomatico, un relitto semantico senza corpo. Non esiste più alcun processo di pace. Non c’è un negoziato in corso. Non c’è una road map, né una volontà politica, né un progetto concreto che possa anche solo far immaginare la nascita di uno Stato palestinese. Nessuno lo dice apertamente, ma tutti lo sanno.
La pace, quella vera, è stata sepolta sotto le ruspe delle colonie, sotto gli spari nei campi profughi, sotto il disprezzo sistemico della dignità araba. È stata asfaltata dall’ideologia del “muro di sicurezza”, addomesticata nei salotti ONU e infine dimenticata, come una promessa rotta da troppo tempo per poter essere ancora rinfacciata. E se questo è vero da anni, oggi è tragicamente evidente: non solo non ci sarà uno Stato palestinese in tempi ragionevoli, ma non c’è nemmeno qualcuno che lo stia davvero chiedendo, al potere.
Eppure, di questo fallimento nessuno si assume la responsabilità. L’Occidente finge che sia colpa del terrorismo, come se le decine di risoluzioni ONU ignorate da Israele non esistessero. Israele finge che sia colpa dell’intransigenza palestinese, mentre colonizza la Cisgiordania metro per metro. Ma il punto è proprio questo: Israele non ha mai voluto davvero due Stati. E oggi meno che mai.
Il governo attuale, guidato ancora una volta da Benjamin Netanyahu, è il più fanatico, ideologizzato e violento della storia d’Israele. Non è un’opinione, è un dato. Basta leggere i nomi e ascoltare le parole. Al suo interno siedono Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, e Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale — due esponenti dell’estrema destra religiosa ebraica, entrambi noti per le loro posizioni suprematiste, razziste e messianiche. Smotrich ha detto testualmente: “Sono un omofobo, razzista, fascista. E non mi vergogno di esserlo.” Parole sue. Eppure è ministro. Anzi: è determinante.
Perché Netanyahu, che ama apparire come stratega moderato, è politicamente tenuto per la gola proprio da questi estremisti. La sua coalizione esiste grazie a loro. Senza di loro, il governo crollerebbe. E loro lo sanno. È un ricatto aperto, sfacciato, e funziona: se Bibi anche solo ipotizzasse una tregua duratura, verrebbe abbandonato. E probabilmente sostituito da qualcuno ancora più spietato.
E qui si manifesta il timore più amaro: che la Palestina non abbia più alcun orizzonte davanti a sé, se non quello della resistenza disperata, della sopravvivenza sotto assedio, del martirio quotidiano. Perché oggi, in Israele, non c’è solo chi rifiuta lo Stato palestinese: c’è chi vuole completare la pulizia etnica. Chi parla apertamente di “trasferimento”. Chi sogna un solo Stato ebraico, esclusivo, monoreligioso, senza arabi, senza musulmani, senza “nemici interni”. E questo sogno, oggi, è seduto al governo.
Ben Gvir, del resto, ha sempre inneggiato a Meir Kahane, il rabbino razzista la cui organizzazione fu messa fuorilegge perfino da Israele per terrorismo. Oggi Kahane è vendicato dal potere. Smotrich, da parte sua, ha giustificato il pogrom dei coloni a Huwara dicendo che “il villaggio andava raso al suolo dallo Stato”. Parole da criminale di guerra. Pronunciate da un ministro. E tutto questo avviene con il silenzio assenso degli alleati occidentali, più preoccupati di non irritare lobbies e mercati che di difendere il diritto internazionale.
Netanyahu ha tutto l’interesse a portare la guerra fino in fondo. La guerra lo tiene in vita. Politicamente e giudiziariamente. La guerra gli permette di non affrontare i suoi processi per corruzione. La guerra anestetizza l’opinione pubblica israeliana, sempre più radicalizzata e militarizzata. La guerra gli consente di essere “l’uomo forte” in un Medio Oriente debole. E anche se Smotrich e Ben Gvir lo minacciassero di uscire dalla coalizione, le elezioni non sarebbero un pericolo per lui: i sondaggi dicono che il blocco di destra ultraortodossa è ancora in vantaggio. Questo non è solo un governo. È un consenso.
E allora che fare? Continuare a credere che Israele tornerà alla ragione? Che si sveglierà una sinistra sionista? Che i coloni si ritireranno? Che l’Occidente smetterà di fornire armi, scudi politici e silenzio? No. Bisogna avere il coraggio di dirlo: la pace, oggi, non è all’orizzonte. Non perché sia impossibile in sé, ma perché nessuno dei potenti la vuole davvero.
Eppure, anche questo non ci autorizza a cedere al nichilismo. Il dovere morale della denuncia resta. Il dovere storico della memoria resta. Il dovere politico del boicottaggio civile resta. Ma soprattutto resta il dovere umano di dire che chi vuole cancellare un popolo non potrà mai essere chiamato “democratico”, né tantomeno “vittima” permanente.
Israele non è solo Netanyahu. È una struttura. Una cultura. Un paradigma coloniale. E come ogni paradigma, deve essere decostruito, non con odio ma con verità. La prima delle quali è questa: non può esistere libertà per gli ebrei, se è costruita sulla schiavitù dei palestinesi.
Tutto questo, mentre chi poteva alzare la voce ha preferito attendere.
Meglio tardi che mai. Ma nel frattempo, sono morti in 60.000. A Gaza. Sotto le bombe. Sotto le ruspe. Sotto il silenzio.
La grande manifestazione di Roma per la Palestina — quella del 7 giugno, finalmente unitaria, finalmente in Piazza San Giovanni, finalmente con PD, M5S e AVS insieme — è arrivata dopo otto mesi. Mesi in cui i bambini venivano sepolti senza nome, in sacchi di plastica. Mesi in cui si bombardavano scuole, edifici, ambulanze.
Non basta una piazza. Ce ne volevano cento. Una a settimana, in tutte le città. Se davvero volete difendere il diritto di esistere di un popolo, non basta un palco: serve una campagna politica quotidiana, popolare, visibile.
Invece, fino a pochi giorni prima, c’era chi – da Italia Viva ad Azione, passando per i “moderati” del PD – firmava manifesti cerchiobottisti dal titolo grottesco: “Due popoli, due stati”. Un modo elegante per dire: “Lasciateci in pace”.
Ma due popoli, due stati, dove, esattamente? Su quale mappa? Con quale governo palestinese, con quale territorio, con quali frontiere, con quali garanzie? Non è più una formula di pace, è un alibi.
E intanto, il PD resta un partito atlantista fino al midollo. Non si può difendere la pace mentre si votano le armi. Non si può difendere i diritti umani mentre si tace sulla NATO che protegge Netanyahu.
Quello che accade oggi non è un incidente della storia. È il frutto di tutte le ambiguità, di tutte le reticenze, di tutte le neutralità comode. E non basta più la vergogna. Serve la rottura. Etica. Politica. Umana.
Il problema non è solo Netanyahu. Non è solo l’estrema destra messianica che oggi lo tiene in ostaggio: Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir, fanatici religiosi che minacciano la caduta del governo se la guerra si ferma. No: il problema è strutturale. È il sionismo stesso, nel modo in cui si è storicamente realizzato. Il problema è uno Stato fondato su basi etnico-religiose, su un’idea di superiorità storica, su un progetto coloniale mai terminato.
Non sono antisemita. Non lo sono mai stato. Difendo la memoria della Shoah, ebraica e universale. Ma se il sionismo è quello che vediamo oggi, allora non possiamo più difenderlo. Allora, essere antisionisti etici non è odio: è giustizia.
E forse, a questo punto, la verità va detta con dolore, ma senza più infingimenti: lo Stato di Palestina, oggi, non esiste. E difficilmente esisterà, almeno nel futuro prossimo. Non con questa Israele. Non con questa Europa. Non con questo silenzio.
Ma almeno, almeno, possiamo iniziare a dire le cose come stanno. Senza più ipocrisie, senza più slogan, senza più diplomazie assassine. Le parole non bastano più. Ma almeno scegliamole bene.
Sulla Palestina molti hanno fatto finta di nulla per anni: anche così si è legittimato il genocidio - Dalia Ismail
Si è creduto alle fake news su Hamas lanciate nel 2023 – i bambini decapitati, gli stupri di massa – non perché non si potesse sapere altro, ma perché chi si definisce “progressista”, chi si sente “dalla parte giusta” solo perché parla di diritti civili e critica Meloni, ha scelto di dare credito a chi le diffondeva. Perché ha voluto continuare a credere nei propri riferimenti giornalistici, trascurando la Palestina.
Qualcuno di voi si è indignato davanti al video di Enrico Mentana dove nega che sia in corso un genocidio a Gaza, con argomentazioni a mio avviso aberranti? Eppure Mentana non è mai stato ambiguo sulla Palestina: è sempre stato apertamente sionista. La sua posizione era chiara. A renderla ambigua e normalizzarla sono stati tutti quelli che hanno scelto di chiudere gli occhi per non mettere in discussione le proprie convinzioni. Molti hanno detto: “Vabbè, ma per il resto è bravo”, “non è così grave”, “su altre cose è dalla parte giusta”.
Per anni la questione palestinese è stata messa da parte, trattata come un dettaglio trascurabile nel curriculum di questi personaggi “progressisti”. Un tema troppo spinoso o scomodo da affrontare. Qualcosa da ignorare per non turbare la narrazione rassicurante della “sinistra civile”, “equilibrata” e “liberale” che si oppone ai “cattivi” di destra.
La verità è che la Palestina ha sempre dato fastidio. Non perché non fosse chiara, ma perché smontava tutte le certezze. Perché mostrava che chi si dice “progressista” può tranquillamente sostenere un sistema coloniale e oppressivo. E allora si è preferito raccontarsi che la questione era troppo complessa. Che meglio limitarsi a difendere i civili “da entrambe le parti”. A difendere i palestinesi con i preamboli. Che Mentana raccontava solo i fatti. Lo si è fatto per quieto vivere, per non rompere l’illusione di essere “bravi”.
E intanto noi – la comunità palestinese in Italia e tutte le persone che da anni prestano attenzione alla Palestina e ne denunciano l’oppressione in modo serio e responsabile – lo dicevamo già nelle offensive sioniste contro Gaza nel 2021, nel 2014, 2011, 2008 e prima ancora: normalizzare questo approccio mediatico è pericoloso. Eravamo pochi, e molti dicevano che esageravamo, che eravamo emotivi, ideologici, complottisti.
Poi sono arrivati tutti questi morti (il numero vero è ancora da definire). E ora in molti si dicono scioccati, si mobilitano, si indignano. Ma se i morti fossero rimasti 5000, avrebbero continuato con l’ambiguità. Avrebbero continuato a raccontarsi che la questione era complicata, che non si poteva sapere, che i propri idoli mediatici sono comunque “meglio di altri”. Si è legittimato il genocidio, costruito la propria identità politica su un’omertà colpevole.
Ora, invece di limitarsi a post indignati e qualche manifestazione, è il momento di chiedere scusa e mobilitarsi ogni giorno, senza cercare giustificazioni. La Palestina non è mai stata un dettaglio. È la verità scomoda che molti hanno evitato di guardare, perché farlo avrebbe significato smettere di sentirsi “buoni”.
La sinistra dalla parte sbagliata della storia - Antonio Castronovi
Quelli "di sinistra", spesso intellettuali che si definiscono pure "pacifisti", abboccano come pesci all'amo della propaganda di guerra nazi-NATO-Ucraina, oggi sui morti di Sumy e ieri su quelli di Bucha, senza avere alcun dubbio dell'essere possibili oggetto di manipolazione per alimentare la fobia antirussa. Non si rendono conto che stanno in questo modo essi stessi fornendo carburante per alimentare le fiamme della presunta"guerra giusta" contro la Russia e il mondo multipolare, cioè per giustificare una nuova guerra mondiale. Ragionano con l'emotività scatenata da una comunicazione tossica che neutralizza la razionalità di giudizio e impedisce di vedere la realtà dei fatti e la manipolazione in atto. Devo purtroppo dire che gli ideatori della guerra psicologica della NATO sono proprio bravi! Riescono sempre nel loro intento di convincerci che le guerre che combattono e che fanno combattere siano giuste, che i loro nemici, Saddam - Gheddafi - Assad - Putin, ecc…, siano pericolosi dittatori e autocrati, e che sia giusto eliminarli anche esportando la nostra finta democrazia con le guerre. I "più buoni", i "pacifisti di sinistra", invece preferirebbero eliminarli in modo non violento, appunto con mezzi pacifici. Infatti hanno applaudito le rivoluzioni colorate riuscite o fallite contro i governi sgraditi all'Occidente. Non amano i sistemi politici, i valori dei popoli e delle culture orientali e comunque non liberali, in quanto li ritengono espressione di dittature antidemocratiche di autocrati che opprimono i loro popoli, che vanno quindi liberati per poter aderire finalmente ai nostri valori verso cui anelerebbero naturalmente.
Spesso non lo dicono tutti così apertamente, penso per pudore, ma lo pensano e si comportano di conseguenza.
In questo modo la vecchia cultura di sinistra non solo diventa inservibile per comprendere il mondo attuale, ma produce altresì consensi a quel mostro del moderno globalismo finanziario, espressione ultima dell'imperialismo e del colonialismo occidentale che ha infestato e vampirizzato il mondo e prodotto guerre, razzismo, devastazioni e genocidi di intere popolazioni negli ultimi cinquecento anni.
In questo senso questa cultura non solo è inservibile, ma diventa oggettivamente pericolosa e reazionaria, in quanto serve un mondo di dominatori secolari che non vuole morire e che vuole impedire la nascita di un nuovo mondo di popoli e di stati liberi e sovrani, anche a costo di scatenare un olocausto nucleare.
Il vero pacifismo oggi deve essere "armato", deve saper resistere alle forze criminali dei padroni universali, sostenere chi li combatte anche con le armi, sottrarsi alla propaganda di guerra psicologica condotta col sostegno decisivo del sistema mediatico a loro asservito e che manipola le nostre coscienze e le nostre emozioni. Deve rifiutare loro, di conseguenza, il nostro consenso non mediato da un approccio razionale e critico che una volta i marxisti utilizzavano per analizzare i fenomeni sociali e storici fuori dalla falsa coscienza della ideologia e dell'umanitarismo facile a buon prezzo. Umanitarismo emotivo che serve al massimo a placare la nostra hegeliana "coscienza infelice", ma non serve la causa di una rivoluzione mondiale in atto contro i padroni del mondo, posizionandosi così dalla parte sbagliata della Storia.
La verità amara purtroppo è questa: quella che fu la sinistra in Occidente, tranne poche isolate eccezioni, è diventata un ostacolo politico, ideologico e sociale al nuovo processo storico di liberazione e di autodeterminazione dei popoli che si stanno scrollando di dosso i residui del vecchio colonialismo e delle vecchie dipendenze. Non sta più alla testa dei popoli in marcia per spezzare le catene delle schiavitù, ma marcia accanto ai suoi nemici in nome di un idealismo globalista e democratico-liberale, ritenuto un punto di non ritorno della storia del pensiero e della filosofia politica. Alla faccia di Marx e della rivoluzione socialista.
Stati canaglia: l’illegalità degli attacchi israeliani contro l’Iran sostenuti dagli Stati Uniti - Craig Mokhiber
L’attacco all’Iran è solo l’ultimo Crimine nel percorso di distruzione del Regime israeliano in Medio Oriente. La sua impunità, sostenuta dall’Occidente, è diventata una minaccia globale.
Il Regime israeliano, drogato dell’impunità sostenuta dall’Occidente, ricco di armi fornite dall’Occidente e guidato da una violenta ideologia Razzista di matrice Occidentale, sta imperversando in Medio Oriente, lasciando dietro di sé una scia di sangue e distruzione.
Il palese atto di aggressione del Regime israeliano contro l’Iran è solo l’ultimo Crimine perpetrato dal Regime nell’attuale orgia di violenza che dura da venti mesi nella Regione.
Ma Israele non è uno Stato Canaglia solitario. E non potrebbe farla franca con i suoi Crimini senza un potente sostenitore.
Gli Stati Uniti hanno fornito al Regime israeliano il via libera per il suo attacco a sorpresa, la distrazione di colloqui diplomatici (forse in malafede) per facilitare l’attacco, i soldi delle tasse statunitensi per finanziare l’operazione, le informazioni per colpire, le armi e le munizioni per uccidere, la copertura diplomatica per proteggerlo dall’azione del Consiglio di Sicurezza, le forze statunitensi per intercettare la risposta difensiva dell’Iran, la promessa di un sostegno militare diretto degli Stati Uniti se Israele lo richiedesse e la copertura propagandistica di società mediatiche statunitensi complici. Ora gli Stati Uniti sembrano pronti a intervenire direttamente nell’attacco militare.
Ancora una volta, gli Stati Uniti sono complici dei Crimini di Israele.
La conseguente impunità israeliana, principale conseguenza della collaborazione degli Stati Uniti con il Regime israeliano, minaccia non solo l’autodeterminazione palestinese e la sovranità dei Paesi della Regione, ma anche la pace e la sicurezza globali.
La minaccia globale dell’impunità israeliana
Negli ultimi mesi, il Regime israeliano ha perpetrato Genocidio e Apartheid in Palestina, un attacco terroristico transnazionale con cercapersone esplosivi in Libano, migliaia di attacchi armati contro Libano, Siria, Yemen e Iran, l’Occupazione illegale di Territori palestinesi, libanesi e siriani, diverse esecuzioni extragiudiziali in territorio straniero, l’assalto e il sequestro della nave della flottiglia umanitaria Madleen, innumerevoli attacchi al personale e alle strutture delle Nazioni Unite e l’uso dei suoi rappresentanti nei Paesi occidentali per vessare i difensori dei diritti umani e corrompere i governi.
Israele possiede scorte di armi convenzionali, ad alta tecnologia, nucleari, chimiche e biologiche, non ne consente l’ispezione internazionale e si rifiuta di ratificare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Ed è governato da un Regime di estrema destra, profondamente Razzista e fondamentalmente violento, che non è vincolato da alcuna norma di Diritto Internazionale, diplomazia internazionale o moralità comune.
Aggiungete l’ingrediente dell’impunità e avrete la formula per un disastro globale. L’impunità garantita dall’Occidente di cui ha goduto il Regime israeliano è ciò che ha prodotto la sua Criminalità Seriale. E questa Criminalità minaccia l’intera Regione e, potenzialmente, il mondo.
Ancora peggio, per isolare ulteriormente il Regime israeliano, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sistematicamente corrotto, catturato o schiacciato praticamente ogni governo della Regione, e hanno colpito duramente le zone del Libano (Hezbollah) e dello Yemen (Ansar Allah) che ancora sfidano il Regime e il suo violento Progetto Egemonico. Solo l’Iran è rimasto in piedi. In quanto tale, rappresenta un elemento intollerabile per il Regime israeliano e il suo sponsor statunitense: la deterrenza.
Una guerra per l’egemonia regionale tra Stati Uniti e Israele
Pertanto, l’Iran è preso di mira perché è l’ultimo Stato indipendente ancora in piedi nella Regione, in seguito alla corruzione e alla presa di potere della maggior parte dei governi arabi da parte degli Stati Uniti, e alla sistematica distruzione di quelli che si sono rifiutati di sottomettersi (ad esempio, Iraq, Libia, Siria).
L’essenza di questo Piano è stata rivelata più di vent’anni fa dal Generale statunitense ed ex comandante della NATO Wesley Clarke, quando descrisse i Piani statunitensi per “attaccare sette Paesi musulmani in cinque anni”. Nella lista figuravano Iraq, Libia, Siria, Libano, Somalia, Sudan e, naturalmente, l’Iran.
Anche dopo decenni di sanzioni, sabotaggi, aggressioni, tentativi di destabilizzazione e l’ingerenza delle agenzie di spionaggio occidentali, l’Iran si è rifiutato categoricamente di sottomettersi agli Stati Uniti. Nonostante le continue pressioni, si è rifiutato di abbandonare il popolo palestinese, di normalizzare il Colonialismo israeliano e l’Apartheid, o di guardare dall’altra parte mentre Israele perpetra un Genocidio.
È importante sottolineare che si è anche rifiutato di cedere il controllo delle sue risorse naturali (comprese significative riserve di petrolio e gas) all’impero statunitense. E, notoriamente, si rifiuta di rinunciare al suo diritto, in quanto Stato Sovrano, di sviluppare energia nucleare pacifica a beneficio della sua economia in via di sviluppo.
Poiché decenni di sforzi dell’Asse USA-Israele per strangolare e destabilizzare il Paese (causando al contempo grandi sofferenze alla popolazione civile) non sono riusciti a costringere l’Iran a sottomettersi, Stati Uniti e Israele sono ora passati a un’aggressione militare su larga scala, rispolverando le vecchie e inventate giustificazioni delle “armi di distruzione di massa” che li hanno così ben serviti a giustificare la loro aggressione nel vicino Iraq più di vent’anni fa.
Ma, in questo caso, hanno esteso l’argomento a livelli assurdi, basando la loro giustificazione per la guerra non sull’affermazione che l’Iran possiede armi di distruzione di massa, ma sul fatto che un giorno potrebbe acquisirle. Un’accusa resa ancora più ridicola dal fatto che gli stessi aggressori, sia gli Stati Uniti che Israele, possiedono effettivamente tali armi e che entrambi sono colpevoli di ripetuti atti di aggressione, mentre l’Iran non lo è.
Diritto di guerra: il crimine di aggressione
L’attacco immotivato del Regime israeliano sostenuto dagli Stati Uniti contro l’Iran è stato un Crimine ai sensi del Diritto Internazionale. Infatti, si è trattato di un attacco a tradimento, lanciato nel bel mezzo dei negoziati statunitensi in corso, e che ha preso di mira persino il funzionario iraniano responsabile dei negoziati. (E, tra l’altro, subito dopo che Israele ha interrotto internet a Gaza, calando una cortina digitale sul suo Genocidio in rapida accelerazione).
L’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce il diritto all’autodifesa solo in risposta a un “attacco armato” o quando specificamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. Qualsiasi altro attacco armato costituisce il Crimine di Aggressione secondo il Diritto Internazionale.
Ciò significa che il Regime israeliano sta usando la forza contro l’Iran illegalmente, in violazione dell’Articolo 2 Paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite, che proibisce la minaccia o l’uso della forza, e, in quanto tale, sta commettendo il Crimine di Aggressione. In questo caso, per legge, il diritto all’autodifesa spetta all’Iran, e decisamente non a Israele (o agli Stati Uniti).
Inoltre, contrariamente a quanto sostengono i rappresentanti del Regime israeliano in Occidente, il Diritto Internazionale non ammette la cosiddetta “autodifesa preventiva” o i cosiddetti “attacchi preventivi”.
Alcuni, come l’amministrazione Bush nel periodo precedente l’aggressione all’Iraq, hanno cercato di sostenere che l’autodifesa preventiva fosse ammissibile. Ma tale argomentazione è stata ampiamente respinta, poiché l’intento della Carta era quello di vietare le rivendicazioni di autodifesa a meno che e fino a quando non si fosse verificato un attacco armato, o l’uso della forza militare non fosse stato autorizzato dal Consiglio di Sicurezza.
Persino l’idea di autodifesa preventiva, propria del Diritto Internazionale Consuetudinario del diciannovesimo secolo, sostenuta da alcuni prima dell’adozione della Carta delle Nazioni Unite, non si spinse fino alla distorsione di Bush. Prima dell’adozione della Carta, il Test Caroline* consentiva una sorta di autodifesa preventiva, ma solo se la minaccia era “istantanea, schiacciante e non lasciava alcuna scelta di mezzi, né alcun momento per la deliberazione”, chiaramente non il caso dell’attacco israeliano all’Iran. (* Il Test Caroline è una formulazione del Diritto Internazionale Consuetudinario, riaffermata dal Tribunale di Norimberga dopo la Seconda Guerra Mondiale, secondo cui la necessità di autodifesa preventiva deve essere “immediata, impellente, senza possibilità di scelta di mezzi né tempo per la deliberazione”. Il Test prende il nome dal Caso Caroline, l’insurrezione del Canada contro la Gran Bretagna del 1837.)
Altri hanno cercato di trovare una via di mezzo, affermando che l’azione preventiva può essere ammissibile ogniqualvolta un attacco sia considerato “imminente”. Anche questa è un’argomentazione dubbia, poiché non esiste alcuna traccia di tale eccezione nel Diritto Internazionale. In ogni caso, nel caso dell’Iran, nessun attacco del genere era imminente, e il Regime israeliano non ha nemmeno affermato che lo fosse.
Certo, Israele, il Regime Canaglia per eccellenza, avvolto nell’armatura dell’impunità garantita dagli Stati Uniti, si preoccupa poco della legalità. Ma i suoi rappresentanti e i suoi mandatari cercheranno spesso di adottare una parvenza di legalità come parte degli sforzi propagandistici del Regime sui media occidentali.
In quanto tali, i mandatari di Israele hanno cercato di distorcere ulteriormente l’idea di autodifesa preventiva, rivendicando il diritto di attaccare chiunque in futuro decidesse di attaccare Israele. Cercano di affermare che l’Iran potrebbe un giorno sviluppare armi nucleari, che potrebbe usarle contro Israele se le sviluppasse, e che quindi Israele non ha altra scelta che attaccare l’Iran ora.
Chiaramente, in base al Diritto Internazionale, ciò è del tutto inammissibile. Se questa fosse la regola, qualsiasi Stato potrebbe legittimamente attaccare qualsiasi altro Stato in qualsiasi momento, semplicemente rivendicando una potenziale minaccia futura. E questo di fatto annullerebbe la Carta delle Nazioni Unite.
Ma, per Israele, questo ha perfettamente senso. Israele è, in sostanza, uno Stato Annientatore. È stato creato con la violenza, si è espanso attraverso la violenza ed è sostenuto da una violenza costante. La sua ideologia ufficiale si basa su una concezione militarizzata della sicurezza che essenzialmente afferma che chiunque non si sottometta a noi deve essere distrutto, affinché un giorno non cerchi di reagire.
Quindi, l’intera storia del Regime israeliano è stata caratterizzata da Militarizzazione, Conquista, Colonizzazione, Espansione e Aggressione. In termini pratici, ciò ha significato Genocidio contro la popolazione nativa della Palestina e continui attacchi contro i vicini del Regime.
Ma anche secondo le più ampie argomentazioni possibili di autodifesa preventiva (che, ancora una volta, è respinta da quasi tutta la disciplina del Diritto Internazionale), l’uso della forza da parte di Israele contro l’Iran sarebbe comunque illegale.
Non è un caso difficile. (1) L’Iran non possiede armi nucleari, (2) non vi sono prove che stia sviluppando armi nucleari, (3) non vi sono prove che userebbe tali armi contro il Regime israeliano anche se le ottenesse, (4) non vi era alcuna minaccia imminente e (5) il Regime israeliano non ha esaurito i mezzi pacifici, come richiesto dal Diritto Internazionale.
In sintesi, questa è l’aggressione per eccellenza, considerata il Crimine Supremo dal Diritto Internazionale e perpetrata dallo stesso Regime che sta attualmente perpetrando l’altro Crimine dei Crimini, il Genocidio. In questo contesto, qualsiasi complicità degli Stati Uniti in questi Crimini israeliani rende gli Stati Uniti altrettanto Criminali.
DIRITTO NELLA GUERRA: ATTACCHI A CIVILI E INFRASTRUTTURE CIVILI
Oltre al Crimine di Aggressione, gli attacchi del Regime israeliano contro l’Iran hanno incluso una serie di altre gravi violazioni del Diritto Internazionale Umanitario. Al momento della stesura di questo articolo, il Regime israeliano ha già ucciso centinaia di iraniani, in gran parte civili. Ha preso di mira condomini, sedi di media e almeno un ospedale. E ha assassinato diversi scienziati iraniani. Inutile dire che tali atti violano il principio di distinzione e il divieto di prendere di mira persone protette e infrastrutture civili protette.
L’Uccisione di scienziati è un esempio calzante. Solo se uno scienziato è un membro delle Forze Armate (ovvero, non un civile che lavora per le Forze Armate), allora, in alcune circostanze, può essere un bersaglio legittimo. Ma la maggior parte degli scienziati, compresi gli scienziati iraniani, sono civili, anche se lavoravano su armi. (E gli scienziati iraniani non lavorano nemmeno su armi, ma solo sull’energia nucleare.) Pertanto, prenderli di mira è del tutto illegale. E, inutile dirlo, è inammissibile, per legge, prendere di mira le persone nelle loro case solo perché sono scienziati che un giorno potrebbero lavorare sulle armi. Questo, in parole povere, è il reato di omicidio.
Allo stesso modo, l’attacco da parte di Israele a infrastrutture civili (ad esempio, condomini) per uccidere uno scienziato (civile o militare) non potrebbe superare i criteri di precauzione, distinzione o proporzionalità previsti dal Diritto Internazionale Umanitario, ed è quindi illegale. Inoltre, attaccare scienziati perché un giorno potrebbero costruire una bomba sarebbe di per sé illegale. Nell’attuale conflitto, questi scienziati non possono essere considerati in alcun modo una minaccia per le forze israeliane e non costituiscono obiettivi militari legittimi.
Accettare le oltraggiose argomentazioni del Regime israeliano equivarrebbe ad adottare una regola in base alla quale sarebbe lecito sparare a vista a tutti gli uomini, semplicemente perché un giorno potrebbero diventare soldati. Inutile dire che questo non è permesso.
Anche gli attacchi di Israele alle infrastrutture energetiche iraniane sono illegali. Tali impianti sono generalmente protetti dal Diritto Internazionale Umanitario, poiché essenziali per la sopravvivenza dei civili. Solo in circostanze molto limitate possono diventare obiettivi militari (ad esempio, quando i soldati sparano da essi e tutti i principi del Diritto Umanitario sono rispettati). Tali condizioni chiaramente non sono soddisfatte nel caso in questione. Nell’attuale conflitto, queste strutture non sono state utilizzate per minacciare in alcun modo le forze israeliane. Attaccarle è inammissibile per legge.
Attacchi agli impinati nucleari
Particolarmente eclatanti, sia dal punto di vista del Diritto che dell’Umanità, sono gli attacchi del Regime israeliano agli impianti nucleari iraniani. Nel Diritto Internazionale Umanitario, gli attacchi contro impianti pericolosi, come le centrali nucleari e altri impianti che ospitano quelle che la legge definisce “forze pericolose”, sono generalmente proibiti. Infatti, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha affermato che tali attacchi sono proibiti dal Diritto Internazionale e costituiscono una violazione della Carta delle Nazioni Unite.
Questi impianti sono protetti dal Diritto Internazionale a causa del potenziale danno grave che potrebbero causare alla popolazione civile in caso di attacco. Sebbene in teoria possano esserci circostanze in cui tali attacchi sono consentiti, in pratica sarebbe quasi impossibile per una parte in conflitto soddisfare le condizioni necessarie per attaccare legalmente tali impianti.
Le uniche circostanze in cui può essere consentito sono quando (1) questi impianti sono utilizzati direttamente per scopi militari (come il lancio di attacchi), (2) esiste un obiettivo militare legittimo, (3) l’attacco è necessario per tale obiettivo, (4) viene fornito un avvertimento efficace e (5) l’azione militare soddisfa i requisiti legali di precauzione, distinzione e proporzionalità. Tale criterio è quasi impossibile da soddisfare per quanto riguarda un impianto nucleare, a causa del rischio di perdite e diffusione di radiazioni e del potenziale danno esteso alla popolazione civile.
Inoltre, il Diritto Internazionale Umanitario proibisce anche qualsiasi mezzo di guerra che sia inteso o possa causare danni estesi, duraturi e gravi all’ambiente naturale. Il diritto di neutralità impone alle parti in conflitto di non causare danni transfrontalieri a uno Stato neutrale a causa dell’uso di un’arma in uno Stato belligerante, cosa che sarebbe inevitabile con il rilascio di emissioni nucleari.
In quanto tali, gli attacchi del Regime israeliano contro gli impianti nucleari iraniani sono illegali.
Frenare i criminali
L’aperta illegalità del Regime israeliano e dei suoi sostenitori ha devastato sia i Paesi e i popoli del Medio Oriente, sia la legittimità stessa del Diritto Internazionale. Denunciare i Crimini di questi Stati e perseguire le loro responsabilità è essenziale per la causa della giustizia.
Mentre l’Occidente è ossessionato dai rischi dei programmi nucleari pacifici, la vera minaccia alla sicurezza globale in questo momento storico non risiede in reattori e centrifughe, ma piuttosto nell’Aggressione, nel Genocidio e nell’Impunità. Contenere queste minacce è un imperativo globale.
Craig Mokhiber è un avvocato internazionale per i diritti umani ed ex alto funzionario delle Nazioni Unite. Ha lasciato l’ONU nell’ottobre del 2023, scrivendo una lettera pubblica che metteva in guardia dal Genocidio a Gaza, criticava la risposta internazionale e chiedeva un nuovo approccio alla Palestina e a Israele basato sull’uguaglianza, sui diritti umani e sul Diritto Internazionale.
Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
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