Tra le omissioni più gravi dei nostri media sul massacro in Palestina – quei silenzi che nella tessitura di una narrazione possono essere più efficaci della menzogna – una, fondamentale, andrebbe ricordata. Vale a dire la ragione sostanziale per cui l’esercito israeliano sta uccidendo, affamando, scacciando la popolazione inerme di Gaza: appropriarsi del suo territorio. Perché è questo il fine strategico fondamentale del disegno sionista, non la difesa da Hamas, che ne costituisce il pretesto.
Come hanno
ricordato autorevoli storici israeliani, da Benny Morris a Ilan Pappé, quello
di Israele è sempre stato un «colonialismo d’insediamento». Di che si
tratta? Il colonialismo classico, poniamo quello dei britannici in India,
consisteva nel dominare l’economia e la vita politica di quel paese. Ma
il Governo di Londra non cacciava gli indiani dalle loro terre, si
limitava a sfruttarli. E così tutti i colonialismi dell’Europa, fiaccola di
civiltà nel mondo, compreso il nostro “colonialismo straccione”, in Africa
orientale. Il colonialismo di Israele, non meno oppressivo di quello
britannico, si è progressivamente impossessato dei territori della Palestina a
ogni conflitto concluso con successo. È accaduto con la guerra del 1948,
allorché l’occupazione delle terre venne preventivamente pianificata con uno
studio accurato delle mappe e delle proprietà arabe. E i metodi furono già
allora sanguinari. Mi limito qui a indicare la tecnica adottata dai militari
ebrei per svuotare i villaggi che dovevano essere rasi al suolo al fine di
costruire il nuovo stato di Israele. È il caso dei villaggi costieri fra Tel
Aviv e Haifa: «Nel periodo compreso fra la fine di aprile e la fine di luglio
1948 una scena piuttosto feroce fu replicata pressoché in ciascun villaggio.
Soldati israeliani armati circondavano i villaggi da tre lati e costringevano
gli abitanti a fuggire dal quarto lato. In molti casi, se gli abitanti del
villaggio si rifiutavano di andarsene, erano caricati su autocarri e
trasportati a est in Cisgiordania. In alcuni villaggi, volontari arabi presenti
resistettero con la forza; una volta conquistati, i villaggi furono fatti
saltare in aria e distrutti (Ilan Pappé, Storia della Palestina
moderna. Due popoli due stati, Einaudi, 2014).
Ma la
più vasta occupazione si realizzò in seguito alla guerra del 1967. In
quell’occasione Israele si impossessò della Cisgiordania, di Gaza, del Sinai e
delle alture del Golan, portando a ben 5000 km² i territori sottratti alla
Palestina dall’anno della sua fondazione, nel 1948. Vale a dire le regioni che
la Corte Internazionale di Giustizia nel 2024 ha ritenuto occupati illegalmente
da Israele. E allora non si trattò di semplice occupazione di guerra, ma di un
passo verso «l’originale progetto sionista di uno Stato ebraico comprendente
l’intera Palestina» (Benny Morris). Nel corso dei decenni che seguirono la
storia dei rapporti tra Israele e la Palestina è stata una lunga serie
di conflitti seguiti da occupazioni, distruzione di villaggi, colonie
d’insediamento, espulsione di popolazione, annessione di nuovi brandelli di
territorio.
Ma un’altra
omissione grave dell’informazione su questo conflitto va segnalata: il
potere di seduzione che il progetto sionista del Grande Israele ha avuto su
tutta l’élite ebraica e sulla maggioranza della popolazione di quel paese.
Una rilevantissima notazione di Ilan Pappé ci informa che all’indomani della
Guerra dei Sei giorni, nel 1967, si formarono i governi più pluralisti della
storia d’Israele, in cui erano rappresentati tutti i partiti politici, dai
laburisti agli ebrei ultraortodossi. Ebbene, gli atti delle riunioni dei
governi puntualmente registrate, sono stati recentemente desecretati e sono
consultabili nell’archivio di Stato di Israele. E da esse «conosciamo nei
minimi dettagli le decisioni prese allora e le giustificazioni fornite».(Brevissima
storia del conflitto tra Israele e Palestina, Fazi, 2024). Tutti i
partiti politici hanno acconsentito all’occupazione dei territori, alla
prosecuzione del colonialismo d’insediamento. Dunque, oggi con un vasto
consenso, il Governo di Netanyahu, forte dello shock provocato
dall’eccidio del 7 ottobre, sta coerentemente completando l’opera, la soluzione
finale, secondo la pretesa messianica del sionismo. Del resto il premier
israeliano lo ha rivendicato solennemente. Come ha ricordato Jeffrey Sachs, il
27 settembre 2024, all’Assemblea Generale dell’Onu, Netanyahu «ha riproposto
ancora una volta la rivendicazione di Israele sulla terra palestinese su basi
bibliche: “Quando ho parlato qui l’hanno scorso, ho detto che ci troviamo di
fronte alla stessa scelta senza tempo che Mosè pose di fronte al popolo di
Israele migliaia di anni fa, quando stavamo per entrare nella Terra Promessa”»
(Il Fatto quotidiano, 3 ottobre 2024). Dunque, diversamente
dall’olocausto perpetrato dai nazisti, il genocidio a cui stiamo
assistendo avviene in nome di Dio. Il Governo di Tel Aviv, ricorda
ancora Sachs si ispira «al libro biblico di Giosué, secondo il quale Dio
promise agli Israeliti la terra “dal deserto del Negev a sud fino alle montagne
del Libano a Nord, dal fiume Eufrate a est fino al Mar Mediterraneo” (Giosué 1,
4)». E, come dovrebbe essere noto, non c’è guerra più convinta e feroce
di quella combattuta da chi, oltre a godere delle armi della più grande potenza
del pianeta, si avvale di una solenne promessa fatta addirittura da Dio.
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