sabato 31 ottobre 2015

esercizio di dignità docente

Molti, e anche più, sono disposti a svolgere a casa il lavoro che può, e deve, essere svolto a scuola, con attrezzature della scuola.
Non tutti capiscono questo piccolo esercizio di dignità docente, che dovrebbe essere svolto in ogni scuola.
Noi ci proviamo.


Al dirigente scolastico dell’istituto ……..
Oggetto: richiesta di materiale indispensabile al lavoro dei docenti.
I sottoscritti docenti, data l’insufficienza della dotazione informatica presente in sala professori, ridotta ad un solo computer dal sistema operativo obsoleto e privo di antivirus efficiente (dunque vulnerabile ad ogni tipo di infezione virale) e data l’assenza di ulteriori spazi appositi dove i docenti possano, alla bisogna, usufruire di computer, connessione internet e stampanti per ottemperare alle molteplici incombenze didattico burocratiche richieste dalla scuola,

chiedono

alla Signoria Vostra la disponibilità di almeno altri due computer in sala professori, corredati di stampante, in aggiunta a quello già presente dalla funzionalità assai limitata. L’aggiunta di questi ulteriori strumenti faciliterebbe non di poco l’attività dei docenti, nel reperimento di materiali didattici, preparazione di verifiche, verbalizzazioni, ricerche su internet (quando funziona), compilazioni di documenti, etc.

Certi del suo intervento, la ringraziamo anticipatamente per la disponibilità.

Ligabue - Marco Ongaro (un capolavoro, per me)

venerdì 30 ottobre 2015

Nessuno Stato, Nessuna Frontiera, Nessuna Identità

Il manifesto parigino No-border

La tradizione anarchica internazionalista dopo Ventimiglia non molla e rilancia con una rete europea ormai unificata e un Manifesto comune: molto chiaro nel mettere in luce il gioco politico sugli “stranieri”.


QUALCHE CONSIDERAZIONE SU UN PROGETTO DI LOTTA PER LA DISTRUZIONE DELLE FRONTIERE
Assistiamo ogni giorno a un’intensificazione del massacro perpetuato dalle frontiere degli Stati. Migliaia di uomini e donne che fuggono le guerre, la miseria e le catastrofi ecologiche, conseguenze dirette dello sfruttamento delle materie prime e delle persone ridotte allo stato di materie prime. Assistiamo quotidianamente a ciò che assomiglia sempre più a un’ecatombe, alle porte dei luoghi dove viviamo, e ci abituiamo a essere spettatori dell’orrore di questa normalità.
Di fronte a questa massa di esseri umani che, rischiando la loro vita, sfidano le frontiere e affrontano i cani da guardia dell’Europa, gli uomini di Stato si riempiono la bocca di discorsi sui valori democratici e proclamano la necessità di regolarizzare una parte di loro, stabilendo i criteri necessari per smistarli, selezionare la buona mercanzia e respingere quella avariata. Si stabiliscono politiche comuni, si costruiscono grandi centri di smistamento, si rinforzano gli apparati burocratici e militari e la sorveglianza delle frontiere.
Frontiere che oggi non sono solamente limiti territoriali fra Stati ma che si materializzano anche nei controlli e nelle raffiche, nei trasporti pubblici e nelle stazioni, nei posti di lavoro e nei rapporti di sfruttamento, agli sportelli di banche e amministrazioni, nei centri di detenzione amministrativa e nel lavoro dei gestori umanitari.
Questi ultimi mesi, nelle strade di Parigi, centinaia di uomini e donne hanno vissuto sulla loro pelle l’accoglienza dello Stato francese. Cacciati da ogni piazza, da ogni strada, da ogni parco, da ogni sottoponte in cui cercavano di trovare rifugio, picchiati e intossicati con il gas dagli sbirri poiché continuavano a restare insieme. Questa situazione ha portato alla creazione di “gruppi di sostegno” da parte di cittadini, militanti di diverse estrazioni. Tra di loro, alcuni individui sinceri, animati dalla rabbia o l’indignazione, e altri, rappresentanti di partiti o di organizzazioni umanitarie, per i quali i migranti costituiscono un mezzo per accrescere la propria visibilità nelle strade e nei media, aumentare il proprio potere politico e così
ottenere maggiori finanziamenti pubblici e privati. Nel complesso, questi gruppi hanno cercato di fornire il loro sostegno materiale e appoggiare politicamente le rivendicazioni portate dalla maggior parte di questi uomini e donne: le loro richieste di asilo e alloggio. Rivendicazioni che invocano i diritti dell’uomo e considerano come interlocutore lo Stato. Quello stesso Stato che, più o meno direttamente, è implicato in sanguinosi affari nei loro Paesi di origine, che li massacra alle frontiere e che li bracca perché dormono per strada, accogliendoli con gas e manganelli per sbarazzare la vetrina turistica che è Parigi da questa gentaglia.
Probabilmente molti di loro riusciranno a ottenere i documenti e a farsi scannare per le vie legali dello sfruttamento del sistema economico francese, grazie a mobilitazioni più o meno cittadine. Molti altri continueranno a morire alle frontiere o resteranno nella massa di indesiderabili agli occhi del mercato e dello Stato, condannati alla
miseria e alla repressione.
Fino a quando esisteranno gli Stati e le loro frontiere, ci saranno persone “senza documenti” e indesiderabili. Fino a quando ci saranno guerre e continuerà lo sfruttamento capitalista milioni di persone non avranno altra scelta che esiliarsi per sopravvivere. Fino a quando esisteranno i documenti, la cui sola ragione di esistere è il controllo del bestiame umano, la gestione degli inclusi e degli esclusi, certe persone
avranno i “buoni” documenti e altri i “cattivi”, altri ancora non li avranno affatto, essendo sempre gli Stati a gerarchizzare le vite umane secondo i propri criteri. E’ per questa ragione che allo slogan «documenti per tutti e tutte» noi preferiamo questo slogan irragionevole «né documenti né frontiere», che non intende chiedere nulla agli Stati, auspicando piuttosto la loro distruzione, poiché non saremo mai liberi fino a quando ognuno e ognuna non potrà vivere come preferisce e andare laddove le sue scelte lo portano.
D’altra parte, nessuno scappa alle grinfie del capitalismo. Gli sfruttati e le sfruttate affrontano ovunque la violenza dell’economia e dello Stato, ed è la stessa logica di sopravvivenza che uccide i nostri corpi e nostri spiriti a fuoco lento. E’ la ragione per cui vogliamo far saltare le barriere (e il linguaggio stesso forma la parte più visibile dell’iceberg) erette fra un “noi” immaginario e i “migranti”. Uscire definitivamente dalla logica del “sostegno” che apporta un’assistenza a un soggetto creato sulla base di una discriminazione positiva, incarnando la figura dell’oppresso per eccellenza. Poiché è proprio facendo di una molteplicità di uomini e donne un tutto omogeneo che si dimentica che hanno traiettorie e idee differenti. Ed è proprio sulla base di tali differenze che possiamo condividere momenti di complicità e di lotta, poiché come ogni oppresso, un “migrante” può rivoltarsi contro la sua condizione o servire fedelmente i suoi oppressori per ottenerne vantaggi.
Noi apprezziamo e valorizziamo l’aiuto reciproco che comprendiamo come uno slancio del cuore ma, in una prospettiva liberatrice, questa forma di solidarietà non può sostituirsi alla necessità dello scontro con gli uomini e le strutture dello Stato, la polizia e il controllo. Non può insomma accomodarsi negli ingranaggi democratici, mettendo da parte con il pretesto dell’urgenza, l’insieme molteplice e variegato di atti di rottura – o almeno che tentano di crearne una – con l’ordine esistente. In caso contrario, ciò contribuirebbe ad aiutare lo Stato nel suo lavoro di gestione, ad assicurare i servizi in sua assenza, a impedire che la situazione diventi realmente incontrollabile. Poiché è questo ciò che teme – e con ragione – lo Stato.
***
Ciò che ci muove è l’idea di un mondo senza Stato e dominio, dunque concretamente la loro distruzione, così come l’idea di un mondo libero dal capitalismo, dunque concretamente la sovversione dell’insieme dei rapporti esistenti. Queste idee, a priori minoritarie, non sono un fagotto che apriremmo di tanto in tanto per rassicurarci o darci una speranza nel marasma quotidiano, esse costituiscono la nostra bussola. Per quello che riguarda la rivolta, la rabbia, la ribellione, l’insubordinazione, nelle diverse forme in cui esse si esprimono, sappiamo che sono reazioni diffuse e numerose, proprie dei diversi antagonismi che attraversano la società. Queste due parti di noi stessi sono inseparabili: non siamo disposti a mettere da parte le nostre idee per aggregarci, per esempio, a un momento di lotta collettiva; e allo stesso modo non storciamo sempre il naso di fronte a una lotta di cui non condividiamo necessariamente l’insieme dei mezzi e dei contenuti .
«Io cerco una forza, poiché l’idea fa solo il suo compito. E se l’idea propone, la forza dispone» diceva un rivoluzionario. Secondo noi, questa – mal nominata – forza è la conflittualità sociale stessa, e si pone dunque la questione del nostro intervento all’interno di questa conflittualità.
Noi non ricerchiamo alcuna legittimità, poiché anche quando avviene indirettamente, è il potere che differenzia ciò che è legittimo da ciò che non lo è. La legittimità è dunque il riflesso di una sottomissione all’autorità, e quella della maggioranza (la cosiddetta “opinione pubblica”) non è meno temibile. Poiché la legittimità è per l’opinione pubblica ciò che la legalità è per lo Stato, cioè la negazione dell’auto-determinazione delle nostre vite. Una rivolta legittima è incapace di sabotare i fondamenti della società, essa propone solamente una ridefinizione della società fondata sul mito di uno Stato e di leggi più “umane”, di una giustizia più “giusta”, di un’economia più “ugualitaria” e attende un riconoscimento dalla “opinione”.
Lontani da ogni opportunismo politico, il nostro intervento in una lotta sociale deve farsi sulle nostre proprie basi: noi non lottiamo per “aiutare i migranti a ottenere i documenti” ma contro la dominazione degli Stati su tutti e tutte. Avere una presenza nelle strade non per esserne in testa, e nemmeno per offrire un servizio a chicchessia, ma per diffondere idee e pratiche insurrezionali, per avanzare nella prospettiva di una rivoluzione sociale.
Per poter governare, ogni potere ha bisogno di creare categorie e di produrre divisioni che gli sono utili, assegnando a ciascuno i ruoli che costituiscono altrettante catene destinate a favorire la servitù e l’assoggettamento. Come abbiamo già detto, noi vogliamo far saltare le barriere instaurate dal potere ed è per questo che non è l’appartenenza per default degli individui a tali supposte comunità –
siano nazionali, culturali o etniche – o categorie (immigrati, clandestini, “indocumentati”, devianti, fuorilegge, lavoratori, disoccupati, diplomati) a condizionare i nostri rapporti con loro, bensì il modo in cui essi si relazionano a tali appartenenze. Ciò che conta per noi è l’impegno, le posizioni, le scelte e i rifiuti che adottano gli individui reali in situazioni particolari, così come le ragioni che li animano.
***
Qualche anno fa, in Francia, la “lotta contro la macchina delle espulsioni” aveva un vantaggio che la lucidità ci fa riconoscere oggi con amarezza come obsoleto: quello della chiarezza. Gli incendi volontari dei centri di detenzione amministrativa (quello di Vincennes, Mesnil-Amelot, Nantes, Plaisir, Bordeaux, Toulouse), le evasioni, le manifestazioni, l’appoggio agli accusati dell’incendio di Vincennes, i volantini, i manifesti e i molteplici attacchi, tutto questo – leggiamo oggi su un bollettino dell’epoca – non lasciava spazio a equivoci: «o lottiamo contro i centri di detenzione e niente di meno che per la loro soppressione, come lo hanno sperimentato una parte dei sans-papiers a partire dalla loro situazione concreta, o desideriamo mantenerli». La distruzione volontaria del centro di Vincennes ha «portato via con sé la sua vernice umanitaria: i reclusi hanno lottato praticamente per una rimessa in libertà pura e semplice, e non per un miglioramento di questa gabbia situata fra una scuola di polizia e un ippodromo».
La questione della solidarietà poteva non solamente superare la semplice affermazione, ma anche proporre un altro percorso rispetto a quello del sostegno. Puntando l’insieme della macchina delle espulsioni e non i soli centri di detenzione, ed esprimendo un contenuto chiaro che non si poneva all’esterno, le azioni inserite nell’antagonismo diffuso potevano aprire un cammino a una solidarietà risolutamente offensiva.
Attualmente, almeno negli ultimi mesi, le nostre idee non hanno avuto abbastanza eco e non abbiamo contribuito sufficientemente con i nostri atti a sovvertire una situazione che era potenzialmente ricca di possibilità. Non siamo riusciti a influire abbastanza affinché la rivolta prenda il sopravvento sulla logica del sostegno. D’altra parte – contrariamente agli anni riassunti qui sopra – gli atti di rivolta ai quali vogliamo esprimere una solidarietà offensiva sono stati rari.
Ma la rivolta è latente, a volte scoppia e non conosce frontiere come mostrano gli avvenimenti recenti: il 22 agosto migranti venuti dalla Grecia si scontrano con la polizia macedone alla frontiera fra i due Paesi. Sebbene due giorni prima fosse stato dichiarato lo stato di emergenza, l’esercito e le forze speciali di polizia inviate sul posto non sono in grado di arginare la situazione. Coloro che riescono a passare prendono d’assalto la stazione di Gevgelija per recarsi in treno in Serbia. A Calais (in Francia) la notte del 31 agosto, dopo l’arrivo del primo ministro, 200 persone corrono sull’autostrada d’accesso al sito dell’Eurotunnel e la bloccano. Il 3 settembre varie persone bloccano l’entrata del centro Jules-Ferry (gestito dall’associazione La Vie Active) dove ha luogo la distribuzione dei pasti, protestando contro l’aiuto umanitario e le condizioni di vita nelle quali esse sono mantenute. Qualche giorno più tardi, al centro di detenzione di Saint-Exupéry, vicino all’aeroporto di Lione, i detenuti ammassano materassi e lenzuola accendendo un fuoco. Respingono le guardie, distruggono mobili e vetrate, mentre due persone salgono sul tetto per evadere. Nello stesso periodo a Roszke, in Ungheria, un migliaio di migranti forza un cordone della polizia rifiutando di essere condotti a un centro di accoglienza e identificazione nelle vicinanze. Una parte di loro scavalca una barriera per accedere a un’autostrada che porta a Budapest e continuare il loro tragitto a piedi. A Bicske (in Ungheria) alcuni migranti salgono sui treni pensando che si dirigano in Germania, rifiutano di essere deportati quando comprendono che questi treni hanno per destinazione i centri di identificazione e di smistamento. Il 5 settembre, sull’isola di Lesbos, in Grecia, per il secondo giorno consecutivo i migranti si scontrano con la polizia. Qualche ora prima, un migliaio di loro era uscita da un centro di accoglienza temporanea e aveva bloccato una strada dell’isola. Sempre a Lesbos, un migliaio di migranti si è raggruppato e ha tentato con la forza di salire su una barca in direzione Atene. Il 6 settembre a Valencia (Spagna) una quarantina di prigionieri del centro di detenzione si ribella contro gli sbirri e riesce a impadronirsi delle chiavi. Un gruppo cerca di
evadere mentre all’interno materassi sono incendiati, materiale distrutto e cinque sbirri feriti. Il 7 a Bedford, in Inghilterra, alcune donne detenute nel centro di detenzione Yarl’s Woos occupano il cortile e dichiarano «Siamo nel cortile e protestiamo (…). Esigiamo la nostra libertà. Cantiamo per la nostra libertà. Gridiamo (…). Non vogliamo il loro cibo. Non vogliamo le loro attività. Vogliamo semplicemente la nostra libertà».
Ogni settimana porta con sé il suo lotto di morti che ci torce le budella e ci spacca il cuore. Di fronte a quest’orrore nel quale centinaia di migliaia di persone sono immerse, di fronte a questa guerra di tutti i giorni che costituisce il capitalismo, ecco la nostra rabbia contro questo mondo e la sua vita al ribasso che si acuisce di giorno in giorno. Ma, come è stato già detto in passato, noi non siamo solidali con la miseria, bensì con il vigore di uomini e donne che non la sopportano: alla solidarietà nell’oppressione noi opponiamo la complicità nella rivolta. Allora, se con difficoltà troviamo prospettive offensive concrete a cui esprimere una solidarietà particolare, vogliamo credere che è possibile pensare a tali prospettive per esprimere un rabbia – che d’altra parte non ha bisogno di tali prospettive per esprimersi – che noi sappiamo essere diffusa, e che per questa ragione potrebbe aprire la via a momenti di scontro e rottura con l’ordine esistente. E durante questo percorso, una volta sbarazzati del racket politico, della vernice umanitaria, di questa putrida indignazione del cittadino “che si lamenta ma che vuole il mantenimento del sistema” – vera chiave di volta della servitù democratica – si creeranno occasioni in cui la solidarietà potrà acquisire una maggiore portata.
«Dire che nulla può cambiare, che non possiamo deviare la marcia del destino, è l’incentivo accordato a tutte le nostre debolezze».
«Non esistono cose fatte, vie preparate, non esiste modo o lavoro finito, grazie al quale tu possa pervenire alla vita. Non esistono parole che possano darti la libertà: poiché la via consiste precisamente nel creare tutto a partire da sé stessi, a non adattarsi ad alcuna via. La lingua non esiste ma tu la devi creare, devi creare il suo modo, devi creare ogni cosa: affinché la vita sia la tua».
Non c’è alcuna buona ragione di attendere per compiere ciò che il nostro cuore e la nostra ragione suggeriscono, né movimento sociale, né appuntamento con la storia. Se rifiutiamo di rinviare la diffusione delle nostre idee e delle pratiche che ne derivano a ipotetici domani più propizi, sentiamo allo stesso tempo la necessità di contribuire a creare le condizioni che rendono possibile un capovolgimento dell’ordine sociale, un fatto sociale ancora sconosciuto, imprevedibile ma devastante. (Parigi 13 settembre 2015)
(*) ripreso da «Ventimiglia_noborders mailing list»:

o
da qui

Insegnanti di ruolo condividono bonus 500 euro con colleghi precari

mi sembra un'idea e una proposta meritevole e bella, io ci sto - franz

dice Giulia:
Ricordo molto bene cosa significhi essere supplenti precari, le scuole versano con quattro, o addirittura sei mesi di ritardo il primo stipendio dell'anno. Calcolando anche i significativi ritardi per avere la disoccupazione, oggi in moltissimi si trovano senza vedere un soldo da giugno.
Inutile andare a chiedere spiegazioni in segreteria, con l'aria più serena del mondo loro spiegano che i fondi per pagare i supplenti non sono ancora arrivati. A incrementare la sofferenza per questa assenza di stipendio c'è il tanto parlare dei 500 euro per l'autoformazione arrivati ai docenti di ruolo.
I precari si chiedono se non sarebbe stato meglio dare quei soldi prima a loro, temono che i docenti di ruolo presi dall'entusiasmo per la somma ricevuta dimentichino tutto il resto, ovvero le perplessità sulla Buona Scuola, ciò che aveva visto uniti nei mesi scorsi precari e non.
La mia risposta come docente di ruolo è che questi 500 euro non mi cambiano nulla nella vita, l'aumento sarebbe dovuto essere quantomeno mensile, per avvicinarci agli standard europei, e senza vincoli su come spendere i soldi. La mia proposta è che ogni docente di ruolo dia i 500 euro ad un collega precario senza stipendio. Questa sì che sarebbe una protesta, questo sì che sarebbe solidarietà. Ovviamente dovrebbe avvenire a livello nazionale, l'iniziativa dovrebbe trovare un'adesione massiccia per risultare significativa, per l'opinione pubblica, per i mass media, per i nostri colleghi precari.
Attendo un riscontro da parte di tutti i colleghi di ruolo, perché un corso di formazione o un tablet in più non cambieranno radicalmente il nostro modo di fare didattica, e ciò che deve cambiare è la scarsissima considerazione che hanno questo governo, e ancor prima questo paese, di noi e del nostro lavoro

dice Alessandra :
Cara redazione, sono una docente precaria iscritta in seconda fascia di istituto. Vorrei condividere con tutti voi un bellissimo gesto di solidarietà che alcuni miei colleghi di ruolo hanno fatto con noi precari di una scuola astigiana. Oggi una mia carissima collega mi ha letteralmente "adottato", infatti in seguito all'erogazione del bonus della legge 107/2015 a favore della formazione e dell'aggiornamento dei docenti, alcuni nostri colleghi di ruolo hanno deciso di condividere con noi precari il loro bonus per fare in modo che anche noi "figli di nessuno" potessimo godere di tale aggiornamento, dato che ogni giorno lavoriamo e collaboriamo con loro alla vita di classe.
Ovviamente non ho potuto che ringraziare ed essere felice di ricevere il beneficio di un gesto così nobile. Per cui ho voluto condividere con voi e con tanti altri colleghi d'Italia questo inaspettato, affettuoso ed onorevole gesto, e mi auguro che non sia solo una goccia nel mare, ma che tutti i colleghi di ruolo si ricordino che in passato anche loro sono stati precari, e che anche loro, come noi adesso, siamo quotidianamente costretti ad aggiornarci e a migliorare le nostre conoscenze per dare a tutti i nostri alunni ed alle loro famiglie un servizio migliore. Grazie.

Parola d'ordine del momento : Dematerializzare - Paola Frau

Docenti che vagano nelle aule alla ricerca della famigerata rete , allungandosi fin dove possibile per "beccarla " nell'angolino più recondito dell'ultima aula, in fondo all'ultimo andito, dell'ultimo plesso dell'ultimo degli istituti .
Dematerializzare la pubblica amministrazione è un'impresa titanica , ma tant'è che i docenti di questa nostra Italia del 2015 non vogliono sentirsi inferiori a quelli del resto d'Europa (???). Così pur senza ricevere tutti le stesse dotazioni , si arrabattano con cellulari , ipad , tablet , Pc , rigorosamente portati da casa , (come la carta per fotocopie e i pennarelli) , perchè se il Ministero decide di dematerializzare , non si può disattendere una disposizione "superiore". Si hanno notizie di docenti che la notte accendono il pc di casa per compilare il registro del giorno appena passato e ...(perchè no?) già che ci sono ...del giorno dopo ...tanto cosa cambia ? In fondo cliccare su una V verde non è come apporre una firma autografa , si ha meno l'impressione del falso . Si insegna la legalità ma si opera costantemente in condizioni di illegalità .E non parliamo del business avallato da queste decisioni , in una scuola in cui per la didattica non si investe più un centesimo , si accolgono senza fiatare scelte discutibili , quasi fossero manna dal cielo per il nostro lavoro .
Così si raccontano leggende di docenti ricchi di fantasia ,i quali per poter compilare il loro registro nelle aule in cui la rete non arriva , si alzano dalla cattedra e democraticamente siedono tra i banchi, magari.. proffffe venga nel banco in fondo vicino alla finestra perché li "prende meglio"! Altri docenti escono un "attimo" nell'andito dove la rete è più potente , compilano il registro e tornano in aula ...non vogliamo sapere cosa accada ai docenti delle scuole in cui la rete è più potente nei bagni ( Fonzie docet).
Cosa c'è di nuovo in tutto questo ? NULLA . L'abitudine a trovare soluzioni ai problemi che altri hanno creato fa parte del DNA del docente medio ...e poi tutti a nanna con la coscienza a posto...un po dematerializzati anche nella dignità... ma che importa!

giovedì 29 ottobre 2015

scrive Renato Curcio


«Io mi interesso di istituzioni totali. Cioè mi interesso di carceri, manicomi, campi di concentramento, campi profughi, centri di detenzione temporanea. Me ne interesso in modo professionale, come ricercatore per conto di una cooperativa che si chiama Sensibili alle foglie, che è una cooperativa di ricerca. Voglio dire, però, perché mi interesso di questo e cosa centra con il lavoro di cui parleremo questo pomeriggio. La prima considerazione che voglio fare è che sono stato dentro le istituzioni totali per un quarto di secolo, per 25 anni, tra carcere diretto e carcere indiretto. Ci sono stato, per mia fortuna, dopo la conoscenza, quando già avevo maturato una serie di esperienze nella vita e anche, avevo maturato, un percorso di studi. Ci sono arrivato dopo aver fatto studi di sociologia e, alla fine di questa esperienza reclusiva, negli ultimi anni, mi è sembrata una straordinaria fortuna quella di aver trascorso così tanto tempo all’interno di un’istituzione come il carcere, perché tutti i grandi sociologi che fanno e costruiscono il paradigma della lettura carcere, da Goffman a Taylor, sono tutte figure esterne all’istituzione, figure che vengono da un’altra istituzione, vengono dall’accademia e che quindi hanno avuto un approccio, un rapporto, con questo tipo di istituzioni molto diverso, molto difficile, perché, evidentemente, fare un’inchiesta con persone detenute implica una serie di sbarramenti e spesso il superamento di questi sbarramenti è impossibile. Recentemente abbiamo pubblicato con Sensibili alle foglie un bel lavoro fatto da due ricercatori dell’Università di Roma (un lavoro per conto della Comunità Europea, fatto per la Regione Abruzzo), la prima dichiarazione che questi ricercatori fanno è sull’impossibilità reale di parlare con almeno i tre quarti della popolazione detenuta, per vari motivi: per motivi di giustizia, di struttura delle istituzioni. Quindi ho considerato come una grande fortuna quella di aver fatto questa esperienza e ho pensato ad un certo punto, insieme a Nicola Valentino, che è un medico e che ha fatto un po’ il mio percorso all’interno delle carceri, ho pensato, di mettere a frutto, anche professionalmente, questo tipo di esperienza. Una seconda ragione, per cui me ne sono interessato, è che questo tipo di istituzioni fanno male, sono istituzioni che producono malessere sociale. In Italia abbiamo avuto una grande fortuna, quella di aver avuto tra di noi Franco Basaglia, che come medico, come terapeuta, come psichiatra nonché come persona sensibile alla vita sociale, si è interessato di una di queste istituzioni: il manicomio. Se ne è interessato mostrando a tutti, operatori e cittadini, come un’ambiguità teorica di fondo rendesse impossibile comprendere cos’era il manicomio. La sovrapposizione dell’istituzione terapeutica con l’istituzione “manicomio”, per tanti anni, aveva costruito l’immagine che il manicomio fosse un luogo di cura e che quindi il “mito” del manicomio funzionasse. Nella realtà, Basaglia ha dimostrato come l’istituzione terapeutica può prendersi cura delle persone che vivono sofferenze relazionali o sofferenze di natura psicologica, ma sicuramente non il manicomio, che era istituzione reclusiva, ed è proprio da questa considerazione, dal fatto che le istituzioni reclusive producono malessere aggiuntivo, che Basaglia è partito per chiedere la mobilitazione, che c’è stata in Italia, di tutti i cittadini e le persone sensibili, perché si arrivasse a chiudere i manicomi, a sbarazzarsene, proprio per sviluppare in libertà e senza malesseri aggiuntivi quello che era il percorso di cura, il percorso terapeutico che poteva interessare a chi soffriva. L’istituzione carceraria, le istituzioni carcerarie, costruiscono un’equivalenza tra pena e carcere, un’equivalenza recente, in vigore solo dall’800 (prima il carcere non esisteva, c’erano carceri come luoghi in cui si tenevano delle persone, per qualche settimana al massimo, al fine di poterle poi sottoporre alla pena, pena che però, in quegli anni e nei secoli prima, era considerata come supplizio, come pena di morte, come gogna, oppure in altre forme, come pena pecuniaria). Fatto salvo il Diritto Ecclesiastico, vale a dire l’istituzione del carcere vera e propria per gli eretici, un filone di reclusione che viene, questo si, dai secoli dall’inquisizione, che ha un carattere molto particolare perché lega la reclusione all’eresia con un dispositivo tecnico che è vicino all’ergastolo moderno: una pena che dura un tempo indefinito, non si sa bene quanto, dipenderà da che cosa fa la persona che la subisce, se l’eretico cambia opinione, se l’eretico abiura allora viene meno anche la necessità di tenerlo in carcere. Fatto salvo tutto questo, la nozione di pena era una nozione, si, legata al carcere ma anche a una temporalità elastica tutta determinata dai comportamenti, dagli orientamenti, dagli stili di pensiero della persona, quindi non siamo di fronte ad un’istituzione paragonabile al carcere vero e proprio, al carcere che verrà con la fine del ‘700. Il carcere come istituzione, come lo conosciamo noi, produce malessere, produce mortalità in una maniera sovrabbondante, pensate che una rivista di ricerca molto importante del Ministero di Grazia e Giustizia, ha pubblicato, ormai più di un decennio fa prima di chiudere, un numero monografico in cui ospitava le ricerche a tutto campo che venivano fatte in tutto il mondo, dall’America all’Europa, su l’influenza negativa della carcerazione sui carcerati. Tutti questi ricercatori, che sono poi i ricercatori più noti, arrivavano alla conclusione che una media carcerazione, una medio-lunga carcerazione, produceva danni irreversibili alla persona, produceva un deterioramento psico-fisiologico irreversibile tale che si poneva un problema di ordine etico e anche di ordine giuridico: -“Come possiamo noi condannare una persona che avrà come conseguenze della sua carcerazione conseguenze che durano oltre la pena?”. È un dibattito che, per un certo tempo, filosofi, giuristi, persone che si interessano di problemi etici hanno portato avanti ma che poi, in tempi recenti, in qualche modo hanno smorzato. Tuttavia, resta il fatto che la mortalità all’interno di queste istituzioni è una mortalità che ha dei percorsi non paragonabili. Tenete presente che oggi, su diecimila cittadini non in istituzioni totali la mortalità è di 0.7, la mortalità dentro istituzioni totali in Italia su diecimila detenuti è 17.6. Siamo quindi di fronte a indici non minimamente comparabili, ciò vuol dire che siamo di fronte ad istituzioni che producono malessere e producono una mortificazione nel senso letterale del termine. Mi interesso di istituzioni totali perché da un punto di vista sociale, sociologico, possiamo considerare il carcere un analizzatore molto interessante della società in cui viviamo. Possiamo prendere questo analizzatore per leggere una serie di dinamiche sociali. Per farvi capire proprio sommariamente quello che cerco di dirvi: se io prendo per esempio gli Stati Uniti d’America e guardo il tipo di istituzione carceraria ottengo informazioni che vanno molto al di là dell’istituzione totale stessa e mi dicono qualcosa sull’organizzazione della vita economica, sociale, sul livello dei diritti di quel paese. Tenete presente che negli Stati Uniti ci sono 220.000.000 di persone e abbiamo un indice di penalizzazione, cioè una quantità di persone penalizzate, che raggiungono oggi i 6.000.000. Siamo di fronte alla scelta (scelta che non è ancora stata fatta in Europa ma ci sono tendenze che spingono affinché si faccia) di carcerare una parte della società, carcerarla sia direttamente, e allora, lì abbiamo l’1 milione e mezzo, 1 e 7 di detenuti stabili, ma abbiamo poi il lato indiretto delle carcerazioni, le carcerazioni legate ai braccialetti, agli obblighi, legate cioè a quella che è una penalizzazione di una fascia sociale. Soprattutto abbiamo dei dispositivi tecnici che oggi consentono di rendere questo spazio di 6 milioni di persone non convertibile, le persone che finiscono lì non possono più uscirne. Perché non possono più uscire di lì? Facciamo un esempio: in internet voi potete trovare sui siti delle carceri americane i nomi di tutte le persone che transitano dentro il carcere. Questo cosa significa? Che in una società di economia virtuale come la nostra, dove le persone comprano i mobili a rate, la macchina a rate, pagano (a rate) il mutuo della casa (oggi si fa addirittura il micro-credito per pagare i libri di scuola), in una società fatta così chi finisce in una di quelle liste non avrà accesso a nessuna di queste opzioni, a nessuna di queste possibilità. Perché se io ti vendo una macchina la prima cosa che faccio è: - “Vado a vedere quale è la tua solvibilità, quale è la sicurezza del mio rapporto con te e se sei stato in un carcere è sicuro che io il contratto con te non lo stipulo”. Questo è solo uno dei tantissimi esempi che hanno portato oggi a studiare un ciclo che si è rovesciato, un ciclo tra il carcere e il ghetto. Perché prima avevamo una centralità del carcere rispetto a un’area disagiata, a un’area di difficoltà che era il ghetto, oggi abbiamo un complesso che è un carcere-ghetto, perché si fa transito da uno all’altro, indifferentemente. Questo tipo di problema ci dice delle cose sul modo in cui l’economia americana funziona, su come il controllo sociale funziona. Mantenendo l’esempio sugli Stati Uniti, se sposto lo sguardo su Guantanamo trovo un altro dispositivo, trovo, per esempio, che viene istituito un carcere in un territorio che non è più il territorio del diritto americano, trovo un territorio dove è sospeso il diritto americano, dove sono sospese le garanzie per gli imputati, dove è sospeso il diritto internazionale, perché le persone che sono recluse in quel carcere non sono imputate di alcun reato e non sono neanche prigionieri di guerra. È, quindi, un carcere nuovo, che ha delle caratteristiche radicalmente nuove (apparentemente nuove). Un luogo di internamento in cui le persone internate non hanno commesso reati, non sono imputati di reati e non sono prigionieri di guerra: un’istituzione nuova. Un’istituzione interessante, perché mi dice che all’interno di questo paese si stanno pensando a politiche di sicurezza che hanno a che fare con la reclusione, con la carcerazione di una serie di figure asociali internazionali, nazionali e via di seguito. E, allora, io posso utilizzare, in Italia, il carcere, le istituzioni carcerarie, per leggere queste dinamiche. Prendete per esempio i centri di detenzione temporanea, il discorso è assolutamente identico a Guantanamo. Il centro di detenzione temporanea è un’istituzione, nata in Europa dagli accordi di Shanghell, quindi presente in tutti i paesi europei, ma è un’istituzione di carcerazione senza imputazione, senza reato. Noi abbiamo un istituto che chiude delle persone, dei migranti che non hanno commesso nessun reato se non quello di trovarsi in una condizione di povertà, migranti sulla pelle della terra, gente che va in cerca di fortuna e di lavoro e che incontra un territorio ostile, un territorio che considera queste persone indesiderabili, come dice il decreto di legge. È interessante guardare questo dispositivo, perché è una carcerazione preventiva: - “Ti chiudo per rimandarti al tuo paese perché non voglio che transiti nel mio”. Il dispositivo che ha costruito il centro di detenzione temporanea è identico al dispositivo che ha costruito i 250 campi di concentramento che in Italia ci sono stati tra il 1940 e il 1945. Quei 240, 250 campi di concentramento di cui vi sarà difficile trovare, salvo i documenti ufficiali (cioè i decreti legge che li hanno istituiti), una precisa documentazione perché come tante altre cose sono stati rimossi dalla memoria collettiva. Rimossi anche dalla memoria dei luoghi. Io abito in una zona del Piemonte che è vicina a un importantissimo campo di concentramento, che era quello di Borgo San Dalmazzo, dove sono transitate centinaia e centinaia di ebrei dalla Francia, per andare a finire a Matthausen o per andare a finire a Auschwitz, ma non c’è più traccia di questo luogo, neanche una lapide, neanche una stele. Ci sono, tuttavia, dei ricercatori che oggi fanno molto lavoro per riportare la consapevolezza della memoria dei luoghi ma, io direi, che per quel che riguarda il discorso che faccio qui è interessante la consapevolezza dei discorsi tecnici: quale è la legge istitutiva di questi campi di concentramento? La legge che è stata firmata dal governo nel ’40 (due anni dopo le leggi razziali quindi). Il dispositivo che è stato firmato che differenza ha rispetto al dispositivo dei centri di detenzione temporanea? Se vi prendete la briga di guardare questi due documenti, che sono due documenti ufficiali e pubblici, vedrete che le parti che vengono utilizzate e i dispositivi sono assolutamente identici. Là c’erano gli indesiderati di un regime e dovevano essere chiuse le persone che risultavano indesiderate insieme agli ebrei, tanto è vero che sono stati chiusi nomadi, zingari, sono stati chiusi rom, sono stati chiusi politici, partigiani, sono stati chiuse persone di chiesa, cioè persone che avevano varie confessioni religiose, sono stati chiusi. Il dispositivo era: sudditi indesiderati. I sudditi indesiderati nel nostro paese dovevano essere chiusi e in parte poi spediti, secondo gli accordi che erano stati fatti con la Germania, deportati, in questo caso in Germania. La nozione di deportazione, se guardate bene, è legata a quello di centro di detenzione temporanea nello stesso modo: - “Io ti prendo e ti deporto”. Noi abbiamo appena pubblicato un libro di una storia che ho seguito direttamente perché è un ragazzo palestinese che ho conosciuto in carcere, questo libro si intitola La tana della iena, e questo ragazzo è un ragazzino che viveva nel campo profughi di Chatila, dove ha perso, al tempo delle stragi che hanno fatto più di 3.000 morti tra Sabra e Chatila, ha perso la madre, le due sorelle e tre i fratelli, poi dopo il padre, insomma, un ragazzino che a 9 anni ha scelto di andare a combattere in Libano, poi con la resistenza palestinese, che a 14 anni è venuto in Italia e che ha fatto un piccolo attentato a Roma è stato preso subito dopo perché non sapeva dove andare, veniva da Beirut, non era mai stato fuori dal campo profughi, per cui l’hanno preso a 50 metri da questo obbiettivo che aveva ed è finito, perché aveva 14 anni, nel carcere minorile. Questo ragazzo, che si chiama Hassan, dopo il carcere minorile ha fatto il carcere per gli adulti, ha fatto il carcere speciale, perché era un terrorista internazionale e ha fatto 15 anni di carcere. La cosa interessante è che scontata la sua pena, imparata la lingua italiana in questi 15 anni, dopo 7 anni di lavoro dentro l’istituzione carceraria, regolarmente definita, perché gli era stato dato un tesserino fiscale perché aveva lavorato in carcere, ebbene dopo tutto questo iter, il giorno che deve uscire dal carcere viene preso dalla polizia di frontiera e viene messo al centro di detenzione temporanea di Ponte Galeria. Gli si dice : -“Si, è vero, tu hai finito la pena, hai pagato tutto quello che dovevi pagare, ma tu sei un indesiderabile, sei un terrorista internazionale, avrai anche pagato la pena ma tu il piede sul territorio nazionale non lo metti”. E finisce a Ponte Galeria. Ora, fortuna sua e fortuna nostra, il campo profughi della Siria da cui lui proveniva non c’è più, in Palestina non ci può andare, non lo possono espellere perché non potrebbe mai transitare, come terrorista internazionale per Israele, e quindi, dopo i 60 giorni, il giudice l’ha messo fuori e lui ha fatto una richiesta per un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Gli è stato risposto: - “Non ti daremo il permesso per motivi umanitari, perché per legge non è possibile, hai fatto più di 5 anni di carcere. Non è possibile scegliere questa soluzione, però non sappiamo dove mandarti quindi non risponderemo alla tua domanda, se qualcuno ti ferma tu dì “ecco, io ho fatto la domanda per il permesso di soggiorno”. Dove finirà? Al centro di detenzione temporanea, farà i 60 giorni e poi riuscirà. E lui così è entrato, è uscito, è entrato, è uscito, entra ed esce da questo centro di detenzione temporanea, in una spirale assolutamente folle, perché quest’uomo ha 30 anni, ha pagato quel che doveva pagare, non può andare da nessun’altra parte nel mondo, non può stare in Italia, perché nessuno gli può dare lavoro, perché non ha documenti dal momento che gli hanno ritirato il tesserino fiscale il giorno che è uscito dal carcere dicendogli: – “Valeva finché tu eri in carcere ma ore tu sei fuori, non vale più, non hai documenti”. Questo problema, che noi abbiamo sollevato con un libro, che abbiamo anche portato in una grossa trasmissione televisiva, a Ballarò, che è stato raccontato, non ha suscitato nessun tipo di mutamento della sua condizione, giriamo, giriamo ogni tanto nelle università, nelle università di diritto, per porre il suo problema come problema di diritto, giriamo nei centri sociali, nelle città che ci danno ospitalità per mostrare questo paradosso legato sempre ad un’istituzione che è presente in Italia e sulla quale c’è un atteggiamento un po’ simile a quello che c’è stato rispetto ai 240-250 campi di concentramento: - “Cioè, si è vero, ci sono stati ma nessuno se ne ricorda più”. E alcuni neanche pensano che ci siano stati. Ho fatto questa premessa parlando di istituzioni totali per dire perché mi interesso di istituzioni totali e perché a partire da questo interesse mi sono incontrato con il mondo del lavoro. Io per conto della cooperativa faccio soprattutto un lavoro di ricerca, un lavoro di socio-analisi, lavoriamo con comunità terapeutiche, con centri profughi, ma anche con persone che hanno avuto lunghi internamenti e che hanno avuto traumi da lunghi internamenti. Lavoriamo su questi terreni e tuttavia faccio anche un lavoro didattico, faccio un corso in università, faccio dei seminari di formazione di operatori e in uno di questi interventi pubblici erano presenti dei sindacalisti di Milano che lavoravano nella grande distribuzione milanese, cioè Esselunga, Bennet, Rinascente, Standa e sentendo il resoconto di alcuni dispositivi che operano all’interno delle istituzioni totali uno di questi sindacalisti mi ha presentato una storia e mi ha chiesto: - “Questa storia che relazione ha con le storie che hai raccontato te? C’è un nesso? Si può dire che all’interno delle istituzioni ordinarie ci sono dispositivi totalizzanti? E se si, si può dire entro che limite? In che modo, visto che una tendenza alla totalizzazione viene persino indicata e registrata da Goffman?”. Questo il suo intervento. Rimanemmo che ci saremmo incontrati a Milano per discutere meglio perché io era troppo tempo che ero fuori dal mondo che non fossero le istituzioni totali e non me la sentivo di rispondere subito a questa domanda. Questo incontro ha prodotto prima un seminario con degli operatori e sindacalisti e poi una ricerca con commesse e scaffalisti che lavoravano nella grande distribuzione. Per noi la ricerca è ricerca socio-analitica, è una assemblea in cui si narrano storie e a partire dalle storie che vengono messe in relazione con altre storie nelle istituzioni totali si cercano di individuare dei dispositivi. Abbiamo lavorato per circa due anni e da questo lavoro è nato il libro che presento, ed è nato a partire da una prima considerazione che a me è sembrata molto interessante e che ha spinto poi la cooperativa ad accettare questa commessa di lavoro. La valutazione che abbiamo fatto è che questa proposta ci veniva fatta in un momento in cui a livello mondiale nella classifica tra le prime aziende per fatturato avveniva una grande rivoluzione, al vertice dominato da decenni dalle grandi aziende meccaniche e in particolare dalla General Motors nel 2001 era sbalzata un’azienda che si chiama Wal-Mart, un’azienda estremamente interessante perché un’azienda della grande distribuzione americana che per la prima volta superava come fatturato quello della General Motors, un fatturato di 220 miliardi di dollari contro i 180 miliardi di dollari della General Motors, un superamento quindi non piccolo, ma inoltre superava l’indice di tutte le aziende private del mondo di occupazione, presentava un’occupazione di un milione e duecento mila persone e la caratteristica di questa occupazione era però ancora più interessante dei numeri perché i contratti che la Wal-Mart stipulava erano tutti quanti contratti a tempo determinato, contratti part-time e tutti contratti che non andavano oltre le 25 ore settimanali. Eravamo quindi di fronte ad una macchina complessa, gigantesca che era in grado di gestire un’enorme forza lavoro tutta flessibile nel momento in cui in Italia si incominciava ad affrontare seriamente le implicazioni di questa flessibilità. La sfida di ricerca a noi ha interessato molto, perché studiando i campi di concentramento era apparso molto chiaro ad alcuni sociologi come Bauman per esempio (sociologi molto istituzionali, che non sono ai bordi del mondo della ricerca, ma sono persone accreditate nell’accademia) che per capire le dinamiche del mondo del lavoro si doveva guardare a fondo l’impianto burocratico organizzativo e i dispositivi che erano stati inventati e messi a punto da una grande azienda come quella di Auschwizt. Erano nati una serie di lavori di grandi ricercatori che avevano spinto uno sguardo non più etico-politico sul mondo dei campi di concentramento, ma molto tecnico per vedere come sia gestita una massa fluttuante di forza lavoro. Noi, con questo tipo di interesse, abbiamo iniziato a fare questo lavoro socioanalitico, abbiamo raccolto storie ed ad un certo punto abbiamo individuato un dispositivo centrale dell’organizzazione del lavoro molto interessante, un dispositivo che potremmo definire così: lo scambio simbolico tra la disponibilità richiesta al lavoratore e l’inclusione nei programmi dell’azienda. Cosa stava succedendo in queste aziende? Stava succedendo un mutamento molto radicale delle modalità di organizzazione del lavoro, che sono quelle che conosciamo: c’è un contratto, c’è un sistema di diritti, la persona finisce a seconda del suo inquadramento in uno o nell’altra delle caselle di questo sistema di diritti. No, qui stava succedendo qualcosa di completamente diverso: il lavoro veniva tradotto in termini di disponibilità a lavorare, senza fissare i margini di tale disponibilità, disponibilità alla flessibilità del tempo, alla flessibilità dello spazio, alla flessibilità delle mansioni. Cosa intendo dire? Autogrill: un giorno faccio il pizzaiolo ma il giorno dopo posso lavare i pavimenti e il giorno dopo ancora posso servire al bar: - “Là dove serve io vado a lavorare. Un giorno posso essere in un negozio e il giorno dopo a 50 km” - flessibilità nello spazio - “Un giorno posso lavorare 3 ore, il giorno dopo posso lavorare 12 ore. Ho un sistema, estremamente elastico, di definizione della mia disponibilità, io devo darti la mia disponibilità a seguire i tracciati d’azienda, che sono tracciati nuovi. Piove: c’è più gente nel negozio si lavora più oggi e meno domani, c’è più traffico: si lavora più oggi e meno domani”. Il lavoratore deve darsi la sua disponibilità a flettersi a seconda del tracciato d’azienda. Questa disponibilità gli consente di restare incluso nei programmi dell’azienda. Ora guardate questo rapporto che caratteristica ha: la caratteristica di non avere più una dimensione sociale, collettiva, ma una dimensione personale. È lo stesso identico dispositivo inventato ad Auschwizt, un dispositivo che è stato inventato per un motivo molto preciso e complesso: gestire una grande massa di persone dentro un campo di concentramento: -“Se io ho 5 mila persone, come faccio a tenerle lì? Metto 10 mila soldati? E allora il problema diventa serio, perché mi costa troppo”. Chiunque di voi abbia anche solo sfogliato qualche libro di storia avrà visto che tutti i campi di concentramento non avevano strutture così, avevano qualche filo spinato, qualche filo elettrico, qualche garitta. Chiunque abbia letto i libri di Primo Levi, i libri dei grandi testimoni che abbiamo avuto qui in Italia (per non parlare dei testimoni di altri paesi, tradotti anche quelli per altro, almeno i principali), chiunque l’abbia fatto sa benissimo che il dispositivo di gestione di un campo di concentramento era affidato agli stessi internati, affidato a partire da uno scambio simbolico elementare: -“Tu, per sopravvivere qui dentro hai bisogno di un pezzettino in più di pane di quella che è la razione, se no, non duri molto, ma, se tu vuoi un pezzettino in più di pane, io te lo posso anche dare a condizione che tu fai il capobaracca. E il capobaracca cosa deve fare? Questo, quello e quello. Finché tu osserverai scrupolosamente i compiti della mansione che ti affido resterai capobaracca ma il giorno che per qual si voglia motivo, tu non ottemperi alla mia richiesta, quel giorno perdi il tuo posto. Quindi se sei in una struttura a tempo determinato non è garantito nulla della tua vita, fino a che tu sei lì devi produrre, devi dare una prestazione che è del tutto arbitraria, cioè non è legata a un sistema di diritti, tu non hai dei diritti: - “Chi ti dice che devi fare quella determinata mansione, chi ti dice quel giorno cosa fai e il giorno dopo cosa farai?”. È dentro questo scambio che tu “giochi” l’idea di sopravvivenza, che perde, quindi, la sua caratura collettiva, la sua dimensione di un problema che riguarda tutti gli internati per diventare un problema che riguarda solamente te. Gli storici, figure accademiche cui i libri sono stati tradotti anche in Italia da grandi editori come Feltrinelli ed Einaudi, hanno mostrato che questo dispositivo è identico al dispositivo della pulizia etnica che era stata fatta, per esempio, in Polonia negli anni che hanno preceduto e accompagnato i campi di concentramento; per chi vuole guardare a fondo questo problema c’è un bellissimo lavoro di Christopher Browing, pubblicato da Einaudi, che si intitola Uomini comuni che analizza questo percorso della pulizia etnica e mostra come a compiere la pulizia etnica siano state non le SS, da un punto di vista “pratico”, ma i prigionieri di guerra polacchi. È ovvio: - “Io faccio dei prigionieri di guerra e poi li metto nella condizione di o morire o tentare delle vie diciamo di “sopravvivenza” che non sono garantite ma che fanno il lavoro disposto”. È ciò che noi vediamo costantemente in tutte le istituzioni totali ed è il dispositivo che Primo Levi ci invita a guardare bene, perché lo chiama il dispositivo della “zona grigia”. È un’osservazione importante questa di Primo Levi, la trovate nel suo ultimo libro sui campi di concentramento, Sommersi e salvati, nel capitolo che si intitola proprio La zona grigia. Dopo Primo Levi si è suicidato perché non è arrivato a capo del problema che pone in quel capitolo, in quel capitolo invita il cittadino, il lettore a guardare al campo di concentramento non cercando di immaginarsi che cosa sia il campo di concentramento: - “Evitate di fare un esercizio mentale di questo genere perché tanto è destinato al fallimento, fareste solo delle fantasie; piuttosto, guardate nel mondo del lavoro in cui voi stessi siete inseriti come funzionano le carriere oggi a Torino o nel nord Italia” - guardate bene che cos’è il dispositivo dei privilegi, guardate come funziona il dispositivo dei privilegi. È un dispositivo che, oggi, trovate in tutti i supermercati, in molti supermercati trovate la gigantografia del dipendente del mese. Uno va e vede che quella cassiera o quello scaffalista, quel magazziniere è il dipendente del mese e il dipendente del mese è colui che ha dato la disponibilità più ampia nello scambio simbolico con l’azienda, e viene premiato non con una moneta, non viene pagato di più per quello che ha fatto, viene pagato con un prestigio, un piccolo spazio che può essere il preludio a un passo di carriera. Il dispositivo della gestione dei privilegi è il dispositivo della gestione dello spezzettamento della massa dei lavoratori in un’infinità di posizioni singolari. Ora: il dipendente del mese ci può far sorridere ma se poniamo il problema in termini molto più concreti: una mamma che ha un bambino molto piccolo e che fa un lavoro parttime perché, vivendo a Milano oppure a Torino, ha bisogno di avere un po’ più di soldi in casa perché non ce la fa con il solo stipendio del marito che lavora anche lui precariamente. Bon.. fa un part-time, e, in questo part-time, sapendo che ha un bambino, le danno uno spezzato, un’apertura e chiusura che va a puntare, diciamo così, il dito sull’orario in cui lei deve portare il figlio a scuola. Allora questa donna si rivolgerà al suo capo e gli dirà: - “Senti, io cosa posso fare? Cosa potete fare voi? Io a quell’ora devo portare mio figlio a scuola, non ho né una baby-sitter, né una zia, come faccio?” – “Parliamone” – risponderanno – “Si può fare, noi ti facciamo un contratto in cui ti garantiamo che in quella fascia tu non verrai mai messa nelle turnazioni, ma tu però ci garantisci che il primo Maggio, che il giorno di Natale, a Pasqua tu verrai a lavorare, perché non porti tuo figlio a scuola. È uno scambio. Noi ci rendiamo disponibili a risolvere il tuo problema ma tu ti rendi disponibile a risolvere il nostro”. Così lei andrà a lavorare e non prenderà i soldi del supplemento di lavoro in orario festivo, niente, prenderà semplicemente l’equivalente di un giorno di lavoro perché c’è stato questo tipo di scambio. È un “privilegio” come vedete: - “Se tu non accetti quello, io ti metto fuori dall’inclusione dei programmi dell’azienda, lo posso fare non perché sono cattivo, bestialmente aggressivo nei confronti delle madri che hanno dei figli, no, semplicemente perché c’è un sistema di leggi”. La Legge 30, per dire solo l’ultima, garantisce questa possibilità di equiparare, come dicono i tecnici di diritto, equiparare quelli che una volta si chiamavano lavori atipici con quello che una volta si chiamava lavoro non atipico, ordinario. Oggi siamo su un piano di perfetta equivalenza, le figure di lavoro sono identiche, tutti quanti, datori di lavoro e lavoratori devono venire, devono determinarsi a muoversi dentro questo tipo di quadro. Che tipo di implicazione ha questo modo di funzionare del mondo del lavoro? Che tipo di inclinazioni ha questa tendenza? Qui stiamo parlando solo degli ipermercati perché sono un territorio più dinamico, dovendo muovere grandi masse di lavoratori (tenete presente che a Milano oggi la Esselunga raggiunge all’incirca i 12.000 lavoratori, che è l’equivalente di quello che nel ’69 era l’occupazione alla Pirelli, cioè la più grossa azienda a Milano, cioè siamo dentro a livelli occupazionali molto alti). Che implicazioni ha? La prima implicazione, la prima grave implicazione è che l’intero mondo del lavoro viene “sottoposto” ad una cappa di ansia, di angosce e di paure, proprio da un punto di vista tecnico. Ansia. Qualunque posizione lavorativa è precaria, non è più pensabile, da oggi in poi e fatta eccezione per quelle strutturate nel passato, “pensarsi” stabilmente nel mondo del lavoro e non ha più senso. Prendete la Microsoft, per esempio, nell’ultimo anno ha fatto una rivoluzione dell’organizzazione del lavoro mettendo tutti i lavoratori, dal primo dirigente all’ultimo usciere, dentro una struttura-progetto: - “Tu lavori per me ma dentro questo progetto a tempo determinato, un anno, 6 mesi, 8 mesi, finito quel progetto non so se io ti riprendo, vedremo. Tu, quindi, mi darai il massimo se vuoi rimanere qua. Poi io ti chiederò il massimo finché tu sei qua, perché se tu vuoi che io ti riconfermi il lavoro, la tua disponibilità deve essere assolutamente massima. Io voglio che tu sia l’azienda ma l’azienda ha una concorrenza internazionale spietata, non si può mica far battere dalle altre aziende. Dal momento che tu sei l’azienda sei anche quello che il sabato sera si sente dire l’orario del lunedì e il lunedì sera l’orario del martedì”. Angosce e paure. Vediamo, perché sono implicazioni forti e le persone esistono non come lavoratori astratti, donne o uomini che siano, ma sono persone concrete, se sono giovani saranno dei fidanzati e delle fidanzate, dei giocatori di pallone, dei giocatori di scacchi, se sono un po’ più maturi avranno una moglie e dei figli, delle situazioni di vita di relazione un po’ più complesse, se sono ancora più avanti nell’età avranno dei problemi terribili legati all’età che avanza, alla sostituibilità possibile del loro lavoro (visto che i progetti sono a tempo, a scadenza), lavoro che non è più garantito dalle carriere precedenti ma che si deve misurare con l’efficienza e coi costi. Ecco che entriamo in un sistema di angosce e di paure molto determinate, paura di perdere il lavoro, paura di non trovarne un altro, paura della propria età, paura di non essere all’altezza, paura di essere solidali con qualcuno, perché se cade di fronte a me un ebreo che muore di fame in un campo di concentramento non è così vero che io posso chinarmi e dirgli: – “Ti do la mia mano per tenerti su, ti do il mio pezzo di pane”, perché questo può portare ad una punizione terribile, è il motivo per cui noi abbiamo, nei vari centri che lavorano sui traumi da internamento, persone che hanno vissuto traumi e a tutt’oggi non ne sono ancora uscite perché hanno svolto attività solidali. Questo nei campi di concentramento, ma se vado solo in un ipermercato qui, ho lo stesso identico problema. Nel libro L’azienda totale noi raccontiamo storie avvenute a Milano nel 2002, storie che abbiamo anche già selezionato per non dare l’impressione di raccontare storie esagerate, che uno dice: – “Ma dove le prendono questi qui?”. Storie selezionate, ultra ribadite, quindi, storie che si sono prodotte più volte: al magazzino dove si preparano i banconi per il giorno dopo per i supermercati, durante la notte, un carrellista cade rimane sotto il muletto, si spacca la gamba e per più di un’ora nessuno dei 250 lavoratori si ferma perché i capi dicono: - “No, guarda, non è affare tuo fermarti, affare tuo è mettere 3 di questi bancali sul camion ogni tot, quello suo non è un problema che ti riguarda.” E quello resta lì, in attesa di qualcuno che lo salvi. Storie di questo genere succedono oggi nel mondo del lavoro e succedono spesso e succedono sempre più spesso, perché ogni lavoratore, chiuso nel suo guscio, tenta di sopravvivere al contesto dentro il quale è inserito. Angosce, ansie, paure: tutto ciò porta, dal punto di vista delle modalità del pensiero umano, a quello che alcuni hanno definito come “pensiero della sopravvivenza”. Un lavoro che è partito dal guardare, dai gulag ad oggi, a un pensiero semplice ed essenziale che è: la sopravvivenza di un singolo quanto costa a quei signori? Sopravvivere a ogni costo cosa vuol dire in concreto nella vita? È chiaro che nei gulag sopravvivere a ogni costo significa sopravvivere al posto di un altro e nei campi di concentramento idem: - “ Io faccio il kapò o la pulizia etnica e casomai sopravvivo, ma tu intanto muori e casomai sopravvive un vicino; io e te, nella struttura, non siamo diversi, siamo due internati. Uno, io, devo sopravvivere a qualunque costo. Perché? Ma per motivi futili, banali, perché ho un figlio, gli voglio bene, devo uscire dal campo di concentramento, non so perché sono qua, chi mi ci ha messo? Non ho fatto niente… ho tutte le ragioni del mondo per voler sopravvivere e nel momento in cui io voglio sopravvivere ad ogni costo sarà a costo tuo”. Qua sorge il primo grosso problema, un problema etico: sopravvivere ad ogni costo significa sopravvivere al costo di un altro e quindi chiede la definizione di un limite etico della propria vita, chiede alle persone di definire un orizzonte etico che non sono disposti a superare nonostante sia in gioco la loro stessa vita. Questo, in un discorso più ampio, nel mondo del lavoro, significa chiedersi quale sia il limite etico che sono disposto a mettere sul cammino del mio lavoro per rimanere a lavorare in azienda e che non sono disposto a superare se questo dovesse costarmi il mio posto di lavoro. Questa è una grossa domanda perché è una domanda nuova. E’ una domanda che ci pone di fronte a un problema nuovo rispetto al modo con cui noi abbiamo affrontato, nel dopoguerra per esempio, il problema del lavoro: eravamo dentro una struttura dove lo scambio simbolico non era disponibilità e inclusione nei programmi dell'azienda, ma era una struttura fordista-taylorista in cui c’era si una gerarchia ma c’era la line (catena) e quindi un certo numero di persone che condividevano una stessa collocazione nella line e condividevano una stessa provocazione dal punto di vista contrattuale, c’erano infatti identità che ragionevolmente dicevano: - “È tuo interesse, come mio, fare questo tipo di passo, insieme, anzi, più siamo, più faremo valere il nostro lavoro”. Qui ha preso fiato, forza il movimento sindacale, i movimenti politici che si sono battuti sempre con l’idea che ci fossero gruppi. Gruppi, ma ora siamo ai singoli. Il pensiero della sopravvivenza è singolare, singolarizza l’azienda il lavoratore, come singolarizza il consumatore, lo individualizza, ma crea anche un pensiero singolare della sopravvivenza. Rispetto a questo, infatti, noi oggi ci interroghiamo, portiamo avanti la ricerca. Ricerca che quest’anno proietteremo proprio su questo territorio: sul territorio della cittadinanza. Non c’è altro modo di immaginare una propria difesa se non all’interno di in un mondo di diritti che sia mondo di diritti universale, dentro il quale io godo di diritti solo perché sono un cittadino e non perché ti ho dato disponibilità a fare il kapò. Devo avere dei diritti in quanto cittadino, uguale a te, dei diritti che mettono, quindi, al sicuro; questa parola che noi sentiamo costantemente ribadire: sicurezza, ci vuole più sicurezza, questa è una grande truffa. La sicurezza c’è quando uno non ha paura, la sicurezza c’è nel momento in cui uno dice: - “ Vado a casa, questa sera, e non dirò, a mia moglie, a mio figlio, a mia nonna, a qualcuno, alla mia fidanzata o viceversa, non gli dirò, guarda, gli e ne ho dette quattro e mi hanno messo fuori, adesso vediamo come ci procuriamo il latte per domani mattina”. No, non gli dirò questo, perché non ho bisogno di questo territorio. Ho, in quanto cittadino, un sistema di garanzie che mi consentono di essere sicuro nel mondo, e, in quanto sicuro nel mondo, anche attivo e responsabile. Allora assumerò, a questo punto, insieme a un sistema di diritti di cittadinanza, insieme al diritto fondamentale fra tutti i diritti di cittadinanza, che è il diritto ad un reddito, che è il diritto a vivere realmente, assumerò anche la carta dei doveri e delle responsabilità, una carta pesante perché chiede ancora di assumere responsabilità a partire dalla cittadinanza, da sé ma anche dalla cittadinanza, non c’è più il vicino, il “prossimo”. Il “prossimo” a cui eravamo abituati 20 anni fa, nei paesi, nella vita, erano la famiglia, gli amici, il mondo del lavoro. Quel “prossimo” lì oggi non c’è più, il mio “prossimo” oggi si è globalizzato come il mondo dentro il quale sto. Ciò che produce le mie insicurezze a livello globale può essere il consiglio di amministrazione che sta a Taiwan che decide di chiudere la fabbrichetta di Legnano perché non produce a sufficienza, e la chiude, punto, ci sono le leggi per farlo: si chiama “down sizing”, ridimensionamento d’azienda, è una cosa tecnica che si fa ogni anno in qualunque consiglio di amministrazione: – “Quello lo chiudo, quello lo apro, apro a Pechino”. I lavoratori non sono più sicuri qualunque scambio simbolico facciano. Dare tutta la propria disponibilità non basta. Questo è il regime dell’insicurezza che chiede una necessaria risposta di produzione di sicurezza, di sicurezza intesa come diritti, diritti del cittadino, di tutti i cittadini, diritti identici: diritto di reddito, diritto di cittadinanza, e impegno, etico, ad affrontare per la prima volta la responsabilità che noi abbiamo, si, nel mondo del lavoro, ma anche nel mondo dei dispositivi che il mondo del lavoro eredita dalle istituzioni totali, perché c’è anche qui una responsabilità di cittadinanza, anche nelle nostre città ci sono nuovi campi di concentramento e ci sono centri di detenzione temporanea, e le persone stesse che ci lavorano, come la Croce Rossa, non sanno più dove mettere le mani, e dove mettere le parole, perché siamo al di fuori di ogni diritto. Siamo in un territorio che, all’Università di Verona, Giorgio Agagni, docente da moltissimi anni, insegna, e che è il capo fermo di un’aporia del diritto romano, il territorio dell’assenza dei diritti, un territorio non nuovo, un territorio che è stato, per tracciarne la genesi, inventato dagli spagnoli, sull’isola di Cuba, ai tempi della guerra ispanoamericana, quando gli spagnoli stavano perdendo ormai quei territori e gli americani stavano occupando una serie di isole, tra queste Cuba. In quel periodo un generale prussiano che collaborava con gli spagnoli inventò l’idea della carcerazione preventiva e della deportazione, la inventò con un motivo molto semplice, un motivo che veniva proposto così ai cittadini: - “Se tu vuoi evitare che io ti consideri un nemico entra in questi campi di concentramento, se sei qui di tua spontanea volontà non ti considererò un nemico, ti risparmierò la vita finché è possibile”. Questo impianto l’avevano ripreso gli inglesi in sud Africa, nel 1890, nella guerra contro i Boeri e lo hanno applicato ai Boeri, i Boeri erano dei coloni, come gli inglesi, che però erano arrivati prima, erano contadini, la parola stessa boero significa “contadino”, contadini mandati a lavorare lì, contadini calvinisti che venivano dall’Europa. Se non che alla fine dell’800 in sud Africa si scoprono giacimenti diamantiferi e gli inglesi hanno avuto interesse a prenderseli e allora hanno detto ai Boeri: - “Fuori dai piedi, via da lì andate nella parte superiore del sud Africa. Non ci volete andare?”. Li richiudevano nei campi di concentramento. Questa idea è stata poi copiata dagli americani nelle Filippine ed è transitata alla fine degli anni ’30 in Germania, è stata fatta propria da Hitler e dai suoi gerarchi del III Reich ed è transitata in Italia dopo il ’38, tra il ’40 e il ’45. Questo è il percorso rispetto al quale noi dobbiamo misurarci anche eticamente, perché non è vero che questo tipo di istituzioni non appartiene alla storia di questa cultura, di questa civiltà». « (…) in quella che si chiama Palestina, oggi, 1 milione e mezzo è dentro un campo profughi. Dei 6-7 milioni di palestinesi, tutti gli altri, quindi 3 o 4 milioni sono in campi profughi in Siria, in Libano o in Giordania, e che un campo profughi è un campo circondato da un controllo militare, che sarà siriano, sarà israeliano, non ha importanza qui definire questo ma un campo profughi è un campo di internamento e le persone che finiscono in un campo profughi non hanno fatto nulla salvo veder radere al suolo la propria casa, salvo veder radere al suolo tutta la loro vita, di lavoro e di affetti e di rapporto col loro territorio. Sono persone che si sono trovate semplicemente in un luogo infelice della terra, in un luogo in cui qualche potere ha deciso di fare “operazioni”, o strategiche o legate al petrolio o legate all’importanza del territorio, non è qui importante trarre delle analisi specifiche perché questo territorio è celebre a tutti e siccome è celebre a tutti credo che sia bene trarre una lezione per ognuno di noi: tutti non sono gli altri, tutti siamo noi, ognuno di noi è questo tutti. Ognuno di noi deve in qualche modo prendere a suo carico la responsabilità di questo e nel mondo del lavoro ma anche nella vita di cittadinanza…» «(…) il lavoro interinale è nato in Italia recentemente ma ha una storia più lunga. Interinale, tanto per essere chiari, (…) ci sono agenzie che prendono l’appalto di mediazione del lavoro, un tipo di lavoro che in altri tempi si chiamava caporalato. (…) il caporalato però non è il giusto termine di paragone, anche se è un esempio che oggi viene fatto spesso, perché il caporalato era illegale mentre qui siamo di fronte a una forma che è legalizzata, quindi molto più pericolosa e in più una forma che si è andata via via sofisticando. In Francia per esempio c’è stato un periodo di ricerca sul lavoro interinale perché è stata suscitata dall’estensione degli spazi geografici di richiesta: - voi sapete che possono affidarvi un lavoro anche molto lontano da dove si abita e se ti affidano una “missione di lavoro” a 80Km, dove devi andarci con i tuoi mezzi, dove magari lavori per 3 ore, rischi di spendere di più di quanto guadagni. Tuttavia se tu non accetti di fare quel lavoro tu non lavorerai mai più (…) se io ho un altro, a parità di disponibilità di lavoro io sceglierò l’altro e comincerò a discriminarti». «Nella grande distribuzione di Milano, ne parliamo anche ne L’azienda totale, ci sono della cassiere, interinali, “nataline” le chiamano, quelle che lavorano solo nel periodo di Natale, che spendono di più di quanto guadagnano in quel periodo, perché vengono dall’hinterland. Fanno questo sperando di poter avere dopo, casomai, di nuovo un lavoro più vicino a casa loro. Ciò ha determinato una serie di complicazioni anche tragicomiche perché, per esempio, molte di queste “nataline” non potendosi permettere il lusso, direi proprio a questo punto, di tornare a casa, all’apertura e alla chiusura negli spezzati, rimaneva nel piazzale dell’ipermercato, ma rimanendo dentro la macchina i clienti dell’ipermercato confondevano, equivocavano e, quindi, c’era chi faceva proposte e allora l’azienda ha mandato le guardie dicendo: - “No, non potete stazionare, in attesa del turno serale qui sul piazzale perché i clienti si lamentano, date una brutta impressione di questo ipermercato”. Ma l’uscire da quel piazzale significava, a Milano, lo sapete tutti, siete di queste parti, significava dover andare in un bar, da qualche parte, in un parco? Con tutte le implicazioni che una ragazza, una signora possono avere in queste cose?» Il pubblico domanda: Come è avvenuto questo processo, che ha strutturato e organizzato un sistema del lavoro così come è oggi nel mondo occidentale, in così relativamente poco tempo? Ci sono studi e analisi in merito? È una macchina molto complessa, a mio avviso da tenere in piedi e mi chiedevo se in qualche modo ci sono state regie o se è proceduto (…). Curcio risponde: «Questo è un grosso problema, perché la genesi di questi dispositivi è stata guardata, viene guardata in due modi diversi: un modo molto interessante lo ha segnalato Brian Vittoria che è uno storico e allo stesso tempo è un praticante buddista-zen, un maestro zen (lavora a Stanford, ha una cattedra lì, noi abbiamo tradotto un suo libro La guerra e lo zen proprio per un interesse nel quadro della domanda che lei ha fatto). Lui si pone un problema legato alla società giapponese: come è stato possibile creare un adattamento, dopo Hiroshima e Nagasaki, dei giapponesi all’industria giapponese e come è avvenuto questo miracolo? Lui dimostra con documenti come il processo sia stato interessatissimo dalla guerra e dalla figura del kamikaze. Una figura, quella del kamikaze, che si è formata nei monasteri a partire da una dissociazione identitaria semplice che è a fondamento di questa pratica: -“La tua identità, tu conti poco, conta nel momento in cui sei espressione di una identità più ampia, più forte, più profonda che è quella del monastero, dello zen”, che, con gli accordi che fecero i monaci del monastero, divenne quella dell’esercito. I primi kamikaze vengono tutti dai monasteri. Con Hiroshima e Nagasaki lo scontro tra l’esercito americano e i kamikaze si interruppe e alcuni di questi non morirono e tornarono nei monasteri dove furono richiamati alcuni anni dopo a fare gli istruttori dei dirigenti industriali giapponesi. Si trattava di costruire una figura d’identificazione. Identificare il lavoratore all’azienda, identificarlo in una maniera molto solida, farlo diventare un tutt’uno: l’azienda deve sopravvivere per sopravvivere bisogna che tutti diano il massimo. Questa costruzione di un processo di identificazione, che tecnicamente si costruisce con la psicologia di gruppo, ha avuto in Giappone un effetto da un lato solido, ma ha avuto un effetto anche disastroso. Si è formata una sindrome che i medici del lavoro di mezzo mondo hanno studiato, una sindrome di totale dedizione al lavoro che spinge le persone fino a morire di superlavoro, si chiama “karoshi”, nella lingua giapponese, questo fenomeno. Il “karoshi” diventò un problema serio, molti dirigenti erano a tal punto identificati con l’azienda che superavano tutte le soglie anche di auto-conservazione, un po’ come i kamikaze, e morivano e, parallelamente, si formava nella società giapponese una figura di quadro che si suicidava perché non riusciva a reggere i ritmi di lavoro di questi dirigenti superidentificati. Questa è una delle radici che è passata in America, io citavo la Wal-Mart, ma il suo presidente, il Gianni Agnelli della Wal-Mart, è un uomo che agli inizi della sua carriera ha costruito un ponte con la cultura giapponese, è andato in Giappone a studiare le tecniche aziendali e le ha riportate nei negozi americani della Wal-Mart. Tenete presente che ancora negli anni ’70 nella Wal-Mart era in uso la pratica di fare un training prima di entrare in negozio e tutte le cassiere venivano messe in una stanza e si faceva lo spelling collettivo del nome dell’azienda: - “Datemi una W” - e tutti: – “W” – “Datemi una A” – e tutti: – “A” – “Datemi una L” – e tutti: – “L” – e poi, siccome Wal-Mart ha un trattino, lì i capi dicevano: -“Datemi uno scodinzolo”. E allora tutte le cassiere scodinzolavano, facevano training per 5 minuti e poi potevano andare a lavorare. Questa era una tecnica che era stata presa dagli ambienti militari per la formazione di un gruppo solido e indistruttibile. Questo oggi non ha più senso. Prima l’identificazione dell’industria non post-bellica e quindi taylorista, fordista, durava nel tempo e voleva, con i lavoratori, un rapporto casomai molto lungo, forse conflittuale, violento anche, dispotico ma, stabile. Mio zio, per dire, faceva l’operaio alla FIAT da quando aveva 18 anni a quando è andato in pensione, era dei sindacati si batteva come poteva, come tutti, ma era sempre lì, era un matrimonio monogamico quello tra l’azienda e il lavoratore, durava per anni, per la vita, oggi invece, l’identità di cui ha bisogno l’Auchan è un’identità-vestito, un’identità impermeabile, che tu usi e getti, deve essere totale nelle ore di lavoro ma dura solo quel tempo lì, perché 5 minuti dopo tu potresti non esserci più in quell’azienda. Il capo dell’Auchan che si è fatto tatuare il simbolo dell’Auchan sul braccio, come facevano i dirigenti giapponesi facendosi tatuare il simbolo dell’azienda, viene irriso dagli altri dipendenti, perché, come dire, è un fenomeno nuovo, fuori tempo, lì si che tu devi essere Auchan, e tutti i manuali d’istruzione ti dicono: - “Tu quando parli dell’azienda devi poter dire io, noi, cioè non sei un’altra cosa, tu devi essere totalmente lì, negli abiti, nel vestito, nel sorriso, ma devi esserci come attore quello che voglio da te è un’identità che non è più identità forte. Questo ha implicazioni terribili, come potete immaginare, perché è quella che psichiatri e psicologi conoscono come “dissociazione”, cioè, ciò che si chiede è un fenomeno dissociativo, un fenomeno che noi, lavorando sulle istituzioni totali, conosciamo perfettamente, perché è il fenomeno dell’adattamento dei reclusi alle richieste di conformazione che le istituzioni totali fanno per poter concedere benefici, cioè: - “Se tu vuoi avere la semi-libertà, l’articolo 21, le telefonate premio o uno qualunque dei privilegi discrezionali, tu dovrai corrispondere alla richiesta d’identità che ti viene fatta”. E non è una richiesta d’identità, guardate bene, legata ai valori politici o religiosi, non dipende dal fatto che tu sia musulmano piuttosto che cristiano, non ti si chiede di diventare di destra se sei di sinistra, ma è la conformazione alla norma: - “Io ti chiedo di venire all’appuntamento con lo psicologo, non è importante poi ciò che vi direte, è importante che tu assuma questo stile di vita nelle istituzioni”. Lo psicologo, una figura delle istituzioni, se ti chiama tu devi corrispondere a questa richiesta, che poi è una conformizzazione agli stili di vita delle istituzioni. Ciò in un carcere normale non presenta grandi implicazioni, ma se prendiamo un manicomio giudiziario presenterà implicazioni forti. Nel manicomio giudiziario, voi sapete, la pena è sospesa: una persona che finisce in un manicomio giudiziario, per qualunque motivo, che venga dal carcere o che venga messo dall’esterno, e viene condannato a 10 anni di pena, mentre è nel manicomio giudiziario non sconta quei 10 anni, la pena è sospesa, lui se sta 10 anni nel manicomio giudiziario inizierà la pena dopo. Allora cosa succede? Chi è in un manicomio giudiziario e ci va, per esempio, perché spera di avere la semi-infermità mentale partendo dal carcere e avere una pena ridotta, scopre, quando è lì, che può rimanerci da un anno a tutta la vita, non sa quanto ci rimarrà, perché sarà la commissione dei medici, degli psichiatri, degli psicologi, degli educatori, del personale militare e del personale civile a stabilire se lui può uscire dal manicomio giudiziario, se no gli verrà riconfermato di tre anni in tre anni il periodo di cura, in gergo, i reclusi dentro queste istituzioni la chiamano “la stecca”, perché quelli che non la capiscono bene ci mettono tre, sei, nove anni e poi al nono anno capiscono il problema. A quel punto cosa fa uno che ha capito il problema? Tasta il polso dell’operatore: - “Io diventerò così come tu mi vuoi, però per diventare così come tu mi vuoi devo sapere come tu mi vuoi, devo recitare bene la parte perché tu sei anche un tecnico, sei uno abituato a lavorare in questo tipo di istituzioni, è chiaro che non ti frego facilmente”. E allora nasce questa partita di cui noi vediamo gli esiti disastrosi quando leggiamo sui giornali: dopo 5 anni nel manicomio giudiziario viene rimesso fuori perfettamente guarito e il giorno dopo uccide la moglie e i tre figli e che era il suo progetto. Dall’identità del trattamento richiesta si dissocia, lui sta da un’altra parte, lui è una persona che ha due identità. Questo processo sta oggi crescendo nel mondo del lavoro: - “Io voglio che tu stia nel mondo del lavoro così come ti voglio”. Tenete presente che se una ragazza fa una domanda per entrare in un supermercato a fare la promozione della Nutella si scontrerà proprio con questo dispositivo tecnico, le diranno: - “Quanto pesi? E no, pesi troppo, noi abbiamo bisogno di una donna che abbia questo peso, questa taglia, questa altezza, capirà, non possiamo mica fare la reclame della Nutella con una ragazza sovrappeso. Qualunque cliente farebbe un’associazione del tipo se mangio la Nutella divento così anch’io, ho bisogno di una taglia, quindi ti compro il lavoro non perché tu sei un cittadino che ha bisogno di un lavoro, per la tua professionalità e roba del genere, ma perché tu corrispondi al modello di pubblicità aziendale che io ho costruito, così come io ti costruisco la figura dell’anziano sulla porta dell’ipermercato, la Wal-Mart ha inventato questa tecnica in modo da commuovere il cliente già dal primo passo, perciò prendevano persone anziane, possibilmente molto scarnificate e le mettevano sulla porta con una divisa a salutare i clienti, avevano stabilito che questa tecnica produceva, siamo in un’epoca pre-tecnologica, siamo tra gli anni ’60 e ’70 e l’epoca tecnologica ha solo spostato il problema a una possibilità tecnologica, se vi servite ai supermercati sapete che vi danno la carta di fedeltà, una carta elettronica che quando pagate registra cosa voi avete comprato, quanto latte, quanto prosciutto, burro, alla tessera “xyz”. Dopo 500 o 50 passaggi, in un semplice computer, io vi elaboro la stabilità dei vostri gusti: - “50 passaggi e ti dirò se tutti i giorni compri le acciughe. A quel punto ti mando, perché so dove abiti, una promozione mirata a casa, di acciughe creata solo per te. Tecnologicamente faccio, per l’azienda, la cattura e la produzione del cliente”. Questo per dire che le identità oggi devono essere guardate come identità addomesticate, identità dissociate, identità catturate, in forma non più chiara e che quindi questo modello giapponese, che è stato quello su cui si è lavorato di più, tende a diventare valido solo in parte per lasciare il posto a quest’altro terreno, quello che oggi è studiato e proposto come livello elaborato di ricerca soprattutto da Bauman in alcuni lavori sulla solitudine del cittadino moderno. Modernità Liquida è un libro pubblicato da Laterza l’anno scorso (2002), è un bel lavoro sulle identità che lui chiama “identità guardaroba” sia del lavoratore ma anche del cittadino, che vive un problema molto serio perché noi, in realtà, quando incontriamo qualcuno sempre meno sappiamo chi incontriamo, incontriamo “l’identità guardaroba” di quell’incontro e quell’incontro può dare origine a degli equivoci, possiamo avere sempre più identità articolate da giocare nei vari contesti, alcuni ritengono che questa sia la condizione di sopravvivenza nella metropoli strategicamente più efficace». Il pubblico domanda: «Volevo sapere questo: - non è che ogni epoca storica è fatta di un equilibrio tra istituzione chiuse e istituzione aperte, perché prima abbiamo parlato della nascita del carcere all’inizio dell’epoca moderna, però, è anche vero, che prima della modernità esistevano una serie di istituzioni che erano molto chiuse, tra cui la famiglia e la chiesa, che non so se si possono chiamare totalizzanti, nel senso che lei ha spiegato. Quindi mi chiedevo: - La modernità nasce da questo strappo? Da questa rottura nei confronti di questo tipo di istituzioni? E quindi, questa corsa in avanti ha probabilmente determinato tutti questi meccanismi e la nascita di queste istituzioni totali, perché probabilmente siamo andati anche troppo avanti nella rottura di queste istituzioni che poi si sono determinate queste corse di chiusura, no? Quindi, mi chiedo, se è possibile una rilettura della modernità e quindi un cambiamento e un equilibrio tra istituzioni chiuse e istituzioni aperte, perché non penso che esistono società in cui tutte le istituzioni siano istituzioni aperte». Renato Curcio risponde: «E’ una domanda alla quale io non so dare risposta perché non c’è una risposta, è una domanda, come dire, di carattere molto ampio ed esce un pò dal territorio su cui io lavoro, ma quello che posso dire da un passaggio del suo discorso è che è molto difficile vedere il passaggio anche dalla modernità alla modernità leggera come un passaggio in cui certe istituzioni ordinarie sono diventate più libere. Prendiamo proprio l’istituzione famiglia. Oggi non abbiamo più, in occidente oppure in America, una forma dominante di famiglia, monogamica, la famiglia con più figli, oppure la famiglia nucleare, abbiamo 400, 350 forme di famiglia diverse e diverse istituzioni, ma se noi guardiamo i dispositivi tradizionali tra le persone allora, certamente, ci troviamo davanti a nuovi dispositivi di chiusura, ma di chiusura estremamente forte, rispetto al quale quella del burqa, da altre parti, risulta essere una chiusura molto moderata. Prendete per esempio il modo in cui vengono trattati i bambini nella società americana o anche nella società occidentale, noi abbiamo pubblicato un bel libro di una neuro-psichiatra infantile che si chiama Antonella Sapio, che è una donna che ha fatto molto lavoro sul campo e che è anche una brava ricercatrice che alla fine della sua carriera, si permette, potendoselo permettere, di pubblicare un libro per dire: - “Io di bambini con problemi psichiatrici in tutta la mia carriera non è ho incontrato mai neppure uno, ho incontrato un’infinità di famiglie che mi hanno detto – Dottoressa mio figlio è troppo agitato che cosa si può fare per calmarlo, mia figlia è troppo calma che cosa si può fare per muoverla un pò”. Tutte le variabili dell’umano. Ora, che cosa ha verificato Antonella Sapio? Che le istituzioni, epoca per epoca definiscono dei modelli di normalità, degli stili di vita che si considerano stili rispetto a cui conformizzarsi. Ciò che non viene però mai spostato, nelle varie epoche, è il diritto alla non-conformità, che è un diritto essenziale, il diritto al non essere conformi ad uno stile di vita che alcuni ritengono dominante, ed è qui che nascono il razzismo, l’intolleranza, la persecuzione, la violenza: - “Io non ti accetto così come tu sei, io non parto dall’idea che tu sei altro da me e basta”. Stabilito questo punto di partenza, che è una caratteristica del vivente, non dell’umano (il vivente si manifesta in tutte le sue forme attraverso una proliferazione di varietà), allora solo a partire dell’accettazione dell’impossibilità e della necessità anche di non farlo, necessità etica di non conformarsi a dei modelli unici ma proporre modelli che entrano in relazione tra di loro. Parto da così come sei, parto da così come sono e immagino un percorso di comunicazione complesso. Se voi lavorate con persone che hanno delle serie difficoltà di ordine psicologico, di ordine psichiatrico, dovete per forza farlo. Se incontri una “statua di sale”, una persona che è immobile da 15 anni e parti dall’idea che sia un residuo manicomiale, con lui non entri in un rapporto, in realtà se tu metti una videocamera che lo fissi per 6 mesi, vedrai che quest’uomo ha spostato la mano di tanto così. Il suo tempo è completamente diverso dal tuo, dovrai entrare in una relazione di tempi, partire da come è lui e da come sei tu e non decidere che il tuo tempo è quello che va bene e se uno non si adatta lo scarti e lo escludi. Il problema è il non porre a fondamento delle relazioni umane un dispositivo di inclusione ed esclusione, ma porre, invece, un dispositivo aperto di accettazione della alterità e di instaurazione di una dimensione di dialogo tra le alterità, non hai altra via, perché se no chiudi i migranti, appunto, nei centri di detenzione temporanea e cominci a pensare che sia giusto bombardare l’Iraq o l’Afganistan perché là le donne hanno il turbante e non ti poni il problema che qua le donne sono diventate il pretesto per vendere, le cosce delle donne, sono diventate il pretesto per vendere saponette. Rispetto a questo ci sarebbe da discutere rispetto ai valori etici, rispetto al tipo di considerazione della donna che questa società presenta. Io ho una bambina di 7 anni, ad esempio, e ad aprire qualunque giornale, rotocalco, settimanale, non ha più differenza dall’aprire un qualunque giornale pornografico, se non che il giornale pornografico è pornografico, è, come dire, “un genere letterario”, se uno vuole se lo prende e se lo guarda, sono problemi suoi, ma qua ormai pornografico è diventato l’acquisto del profumo, l’acquisto della merce. Ci giochi, con i bambini come con le donne e come con gli uomini, perché non c’è più l’umano, è polverizzato. Questo come sistema di valori è meno totalizzante rispetto a un altro? Io non lo so. Noi potremmo cominciare a immaginare di riconoscere il diritto alla non conformità a chi ritiene che questo sistema di valori non sia quello che fa per lui invece di pensare di bombardarlo, invece di pensare che sia meglio sbarazzarsi dell’arretratezza che quella cultura presenta. Io personalmente non credo che le culture siano più avanzate o più arretrate, credo che questa sia una costruzione tecnica della scienza, la scienza è un genere letterario e costruisce dei romanzi e dentro questo tipo di romanzi costruisce anche delimitazioni, tempi, l’avanzato e l’arretrato ma essendo il presente che lo costruisce ed è sempre una società che lo fa, siamo sempre noi che diciamo: - “lì andava bene, li va male, questo è giusto e questo è sbagliato”. Credo che ognuno abbia il diritto di fare queste operazioni, ci mancherebbe altro, ognuno può fare la costruzione, la costruzione che vuole lui del mondo, questo fa parte dei suoi percorsi di crescita e dei suoi percorsi di esplorazione della vita, ciò che ha meno diritto di fare è però stabilire che il presente sia, come dire, più libero o più liberato del passato, perché solo guardo il presente con alcuni indicatori mi sgomento. Il presente è significato Hiroshima, è significato Nagasaki, è significato che questa logica di Hiroshima e Nagasaki è stata riproposta tranquillamente nel 1973 nella guerra tra israeliani e egiziani. Voi sapete no? Sono ormai documenti pubblici che dopo l’attacco egiziano e siriano a Israele, che aveva introdotto una supremazia militare schiacciante, questi furono sopraffatti misteriosamente e il mistero è stato svelato da Israele stesso, Israele minacciò di mandare la bomba atomica e informò gli americani di questo, gli americani fecero un ponte aereo per fornire l’aiuto che Israele voleva al fine di non utilizzare la bomba atomica perché in quel momento avrebbe potuto significare la catastrofe. Oggi il problema si ripropone, noi siamo anche questa civiltà, la civiltà di Auschwitz, è la civiltà di Hiroshima, è la civiltà delle pulizie etniche che sono avvenute e avvengono non solo fra etnie, è la civiltà della pulizia etnica nel Kossovo, nella Serbia che è tutt’oggi in corso avviene sotto l’egida dell’esercito della K-Force, della Nato. Quindi siamo dentro a situazioni rispetto alle quali viene molto difficile secondo me dire che gli eserciti dei barbari erano più arretrati di quelli. Possiamo solo stabilire dei dispositivi e cercare di guardarli e che ogni epoca faccia il suo lavoro sui suoi sbagli».