sabato 31 gennaio 2015

Il piano leggendario di Yarmouk - Moe Ali Nayel

di Yarmouk si era venuti a conoscenza per una foto diventata il simbolo di una campagna, un anno fa, dell'Unrwa (#SAVEYARMOUK)






cosa ne è stato oggi del pianoforte, del pianista Aeham Ahmad, dei cantanti e di tutta quella povera gente? - franz

 


The legendary piano of Yarmouk - Moe Ali Nayel 

C’è un piano che continua a sopravvivere fra i Palestinesi del campo profughi assediato di Yarmouk, vicino a Damasco.
All’inizio di quest’anno (il 2014) il piano è apparso in un video YouTube, era la prima volta che ne sentivo qualcosa. Uno dei miei strumenti preferiti, le mie orecchie erano incantate e i miei occhi seguivano ogni battuta sui tasti.
Quel pianoforte decrepito da Yarmouk è apparso sullo schermo davanti a me come un essere vivente, una cosa che respira. Mentre guardavo, il pianoforte ha cantato, guidato da dita fredde e asciutte che sembravano quasi fossilizzate.
Un giovane pianista palestinese di Yarmouk chinava la testa sulla tastiera e la sua musica ha parlato. La melodia che veniva dal piano non ha avuto lo stesso effetto del piano di solito innesca nella mia psiche; la melodia ha creato una sensazione di disagio, mani sudate e un'ansia sorda, facendomi stringere i denti per tutti i quattro minuti del video.


La mia solita gioia per il piano ha lasciato spazio alla malinconia, appena ho visto una realtà distopica apparire nel video: cinque giovani uomini stanno spalla a spalla di fronte al pianoforte; cantano nonostante il freddo pungente che faceva tremare i loro corpi malnutriti. Si mettono le mani in tasca e cantare insieme alle note arrabbiate del pianoforte: "Tornino i profughi , il viaggio è stato troppo a lungo."




Il pianoforte di Yarmouk riemerse sui social media il 3 ottobre, in un video intitolato "Blue".
Proprio come la prima volta, il mio secondo incontro con il pianoforte era per caso mentre navigavo senza meta su un social media. Prodotto da Bidayyat e Rad Fael (Reaction), il breve video è una storia personale narrata dal suo direttore, Abo.
Il video inizia su una strada grigia nel campo profughi di Yarmouk con sirene urlanti di un'ambulanza. La fotocamera accompagna lo spettatore attraverso la triste realtà del campo assediato e si ferma sul pianista che è accompagnato da alcuni giovani che cantano "Promesse, promesse, promesse! Mentre la nostra gente sta morendo. "


Al  minuto 09:39, durante una scena che mostra una processione funebre, la fotocamera si ferma su un cartello scritto a mano appeso al parabrezza di un'ambulanza, dove è scritto: "Sono l’ottantesima persona a morire di fame a causa dell'assedio senza fine di Yarmouk." Il video si conclude con una nota che recita: "Il campo di Yarmouk è stato sotto assedio per gli ultimi 450 giorni", seguito da Aeham Ahmad che suonava il suo pianoforte, con le rovine sullo sfondo.



continua qui



il Post ne aveva parlato qui

Le guerre di Vito, venditore di mine anti-uomo diventato sminatore – Alessandro Leogrande

«Quando ti ritrovi per la prima volta in un campo minato, ti rendi conto che a ogni metro, a ogni centimetro, ti può esplodere una mina sotto i piedi. Vedi un bosco, vedi degli alberi bellissimi, ma sotto è pieno di mine. E allora capisci ciò che hai fatto. È difficile dirlo con altre parole: ti senti solo un pezzo di merda».
La prima volta che Vito Alfieri Fontana ha visto un campo minato è stato in Kosovo, nell’inverno tra il 1999 e il 2000. Ha lavorato anni per conto dell'ong Intersos alla ricerca di mine: era lì per tirarle fuori e farle brillare, rendendole finalmente inoffensive. Ma Vito – come tutti in Kosovo, e poi in Bosnia, hanno preso a chiamarlo – non era uno sminatore comune. Le mine le conosceva meglio di chiunque altro per il semplice fatto di averle ideate e prodotte per decenni. La sua è una vita che ne racchiude almeno due. Come Penelope, ha impiegato la seconda metà a disfare la tela che aveva tessuto nella prima parte.
C’era un tempo in cui l’Italia era uno dei principali produttori al mondo di mine anti-uomo, il secondo in Europa dopo la Jugoslavia. Insieme alla Valsella di Montichiari, una delle aziende principali era la Tecnovar di Bari, fondata dal padre di Vito, Alfieri Fontana. Di quella azienda Vito è stato a lungo la mente.
Fino alla metà degli anni Settanta la Tecnovar, con i suoi 60 dipendenti, ha prodotto forniture per l’esercito italiano, sia mine antiuomo che anticarro: «Quella antiuomo può variare dai 10 grammi ai 200-300 grammi di esplosivo, a seconda della nazione che la produce; la mina anticarro invece può contenere da un chilo e mezzo a 10 chili di esplosivo. La mina anticarro ha un carico di funzionamento che va da 100 a 300 chili, la mina antiuomo va dai 200 grammi ai 20 chili. Quanto alle mine italiane, la soglia era di 200 chili per le anticarro e di 20 per le antiuomo. Cioè bastano 20 chili di pressione per far saltare in aria una persona».
Negli anni Settanta la Tecnovar fa affari, cresce e supera i confini nazionali. Nel 1979 firma un importante contratto con il ministro della Produzione militare egiziano. «Nel momento di massima produzione, all’inizio degli anni Ottanta, producevamo ogni mese centomila componenti inerti di mine antiuomo, e diecimila di anticarro; poi il tutto veniva spedito in Egitto e assemblato al Cairo, alla Heliopolis, una fabbrica con cinquemila dipendenti».
Vito ha progettato la Ts50, una particolare mina antiuomo costituita da due dischi sovrapposti, sormontati da una piastra superiore che una volta schiacciata – ed è estremamente facile schiacciarla – attiva il detonatore. Poiché l’Egitto ha girato le mine inventate dalla Tecnovar agli eserciti impegnati in tanti fronti di guerra, oggi si può dire che di Ts50 è infestato mezzo mondo. Ci sono campi minati in Afghanista, Iraq, Libano, Congo, Kurdistan, Azerbaijan...
Ed è proprio alla fine degli anni Ottanta, quando ancora la campagna per le mine antiuomo non ha preso vigore, che Vito Alfieri Fontana capisce che il proprio lavoro non è più innocente, se mai lo è stato. Capisce che c’è una relazione strettissima tra produrre “quelle” armi e il loro impiego, più o meno distorto: un impiego che produce al 90% vittime civili. «Ci sono Paesi», dice, «in cui le mine sono state usate in modo criminale, come in Angola, in Afghanistan, in Mozambico, le guerre secessioniste in Congo, in Ruanda: laddove c’era una guerriglia, venivano utilizzate le mine, specialmente quelle antiuomo; in questo caso non si tratta più della linea minata che separa due fronti, ma di qualcosa di molto diverso».
Vito capisce che produrre mine vuol dire produrre uno strumento infame e stupido di distruzione. Ma la sua non è stata una conversione immediata, da notte dell’Innominato, se di conversione in senso stretto si può parlare. A cambiarlo è stato piuttosto un flusso, che negli anni si è nutrito di tanti accadimenti.
«La pugnalata più forte me la diede una volta mio figlio. Stavamo in macchina, io avevo un catalogo della Tecnovar sui sedili posteriori, e lui, era piccolino, cominciò a farmi domande sul perché proprio io dovessi produrre armi. Io provai a dirgli che qualcuno doveva pur farle, ma lui mi richiese a bruciapelo: “Sì, ma perché proprio tu?”. Allora ho capito che quella era l’unica domanda che davvero contava: la domanda che non mi ha aveva fatto nessuno».
Poi, nel 1993, fu invitato da don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, guida luminosa di una parte della chiesa pugliese e del movimento nonviolento, a un incontro sulle mine antiuomo. «Mi sorprese che volesse proprio me. Don Tonino morì poco dopo, era gravemente malato, ma l’incontro si fece lo stesso». Vito si trovò davanti 500 pacifisti, e oggi ammette che quell’incontro faticosissimo gli ha cambiato la vita. «Anche se non l’ho mai visto di persona, don Tonino mi ha molto aiutato. Credo, in fondo, di averlo conosciuto meglio di tanti altri. Perché mi sono sentito dire: ora vai!». E Vito va. Non può fare altro che andare.
Alla metà degli anni Novanta, in Italia e nel mondo cresce la campagna per la messa al bando delle mine antiuomo che porta, nel 1997, alla firma della Convenzione internazionale di Ottawa per la proibizione del loro uso. Quel trattato che segna un punto di non ritorno è oggi firmato da quasi tutti gli Stati, benché ci siano eccezioni pesanti: Usa, Cina, India, Russia, Iran, lo stesso Egitto. Dopo aver partecipato a molti incontri della campagna internazionale contro le mine in qualità di esperto («Ero quello che veniva dall’altra parte»), Vito decide di mettersi direttamente in gioco, di disfare la tela in prima persona.
Il resto della famiglia, cresciuta al riparo delle commesse militari, lo considera semplicemente un “traditore”. La prima conseguenza della sua scelta è che l’azienda si spegne da sola. «Finite le commesse, l’alternativa era spostare la sede in Egitto o a Singapore. Ma a quel punto saremmo diventati dei trafficanti. L’unica soluzione era chiudere. Chiudere e basta, anche perché la riconversione di una fabbrica d’armi, a produzione limitata, di qualità elevata, e ad altissimo valore aggiunto, è praticamente impossibile. Non puoi metterti a fare contenitori di plastica dall’oggi al domani».
Così Vito Alfieri Fontana decide di partire per i Balcani alla guida di un team di sminatori sostenuto da Intersos. Ci resta 12 anni, tornando in Italia solo per poche settimane all’anno («Senza il sostegno di mia moglie e dei miei figli, non ce l’avrei mai fatta»). La prima missione è in Kosovo, dove rimane due anni. Il primo campo da sminare lo incontra a Kijevë, lungo la strada che da Pec porta a Pristina. I serbi avevano minato il terreno lungo un asse trasversale per evitare la risalita dell’Uck.
Meglio di chiunque altro, un ex produttore sa cosa nasconde un terreno infestato. «Quando ho visto le mine jugoslave, ho tirato un sospiro di sollievo perché mi son reso conto che non sarebbero durate più di qualche anno. Avevano un punto debole: la capsula detonante presentava un errore tecnologico, per cui era matematico che si disattivassero. Infatti, dopo sei mesi, quelle mine non scoppiavano più, tranne le più pericolose. Di quelle ancora presenti, il 90% delle mine jugoslave sono inerti, solo un 10% mantiene ancora la sua pericolosità».
Quel 10% è costituito principalmente di Prom 1. Sono delle mine a forma di bottiglia, dal cui tappo partono quattro antennine. La bottiglia viene interrata, dal suolo spuntano solo le antennine. Sono sensibilissime, al minimo tocco la mina esplode. Più che il Kosovo, è la Bosnia a esserne piena. Ed è lì che Vito si trasferisce, dopo il lavoro in Kosovo, per rimanerci dieci lunghi anni. Secondo il Bhmac (Bosnia Herzegovina Mine Action Centre) dal 1992 a oggi, le vittime delle mine sono state ottomila, tra morti e feriti. Tra questi, ci anche gli sminatori: 150 sono rimasti invalidi, 20 sono morti.
«Il casino della Bosnia è che buona parte delle mine sono state messe dopo la firma degli accordi di Dayton. Le parti erano talmente poco fiduciose l’una dell’altra che si sono ritirate lasciando i campi minati, una linea di confine tra l’entità serbo-bosniaca e quella croato-musulmana che segue di poche centinaia di metri quella reale. Ho passato due anni a bonificare una fabbrica, laddove ci avremmo potuto mettere tre mesi, perché dopo gli accordi di pace la fabbrica era stata svuotata dai serbi, riempita di mine e data alle fiamme. Abbiamo dovuto lavorare su una struttura completamente distrutta, non potevi sollevare una lastra di eternit ché sotto era pieno di mine».
Non solo la guerra, ma anche il dopoguerra è segnato dalle ferite dell’odio – un sentimento che Vito, dopo tanti anni, ha imparato ad associare al calcolo, alla razionalità, alla freddezza. I serbi si sono ritirati minando addirittura le fosse comuni in cui erano stati ammassati i corpi dei civili bosniaci. Oggi, molti ex ufficiali dell’esercito di Ratko Mladic si sono riconvertiti come sminatori, non cedendo le mappe dei campi minati. «Non è che si siano pentiti»: hanno semplicemente capito che mettendosi in proprio, avrebbero potuto drenare i soldi della comunità internazionale, tanto che oggi si è creato un indotto in cui lavorano almeno cinquemila persone.
Nel team di Vito Alfieri hanno lavorato sia musulmani che serbi («anche due ex guardie del corpo di Mladic, per la verità»). Molti erano ex minatori di Olovo, che avevano passato una vita nelle miniere di piombo, ed erano particolarmente sensibili alle normative di sicurezza e alle procedure d’allarme.Sminare un campo è un’operazione lentissima. Si lavora in coppia lungo dei corridoi, dandosi il cambio ogni mezz’ora. Si avanza carponi con un metal detector in mano. Accertato che il terreno è sicuro, si sposta ogni volta un po’ più avanti l’asticella che divide la zona libera da quella ancora da monitorare. Quando il rilevatore suona, si affonda delicatamente uno spillone nel terreno. Una volta individuate, le mine vengono estratte e fatte esplodere in una fossa poco distante. In dieci anni la sua squadra di Vito ha trovato e reso inoffensive oltre 3 mila mine.
Non basterebbe un libro per contenere gli aneddoti di uno sminatore. Una volta si è addirittura trovato tra le mani delle mine prodotte dalla Tecnovar: «Non potevo crederci. Erano delle mine sperimentali che avevamo dato solo al governo italiano. Non erano neanche commerciabili, non so proprio in che modo siano finite in mano ai serbi».Una delle imprese più ardue è stata invece quella di sminare la pista di bob delle Olimpiadi invernali del 1984. «Era sulla collina di Trebevic, alle spalle Sarajevo. Sarajevo è una città circondata da colline, e ognuna era un punto strategico per i cecchini, ma quella di Trebevic, che portava al comando dei serbi, era molto fortificata rispetto alle altre. L’abbiamo sminata tutta. Sarajevo è servita da acque sorgive, e le bocche dell’acquedotto sono proprio a Trebevic. Ritirandosi i serbi le avevano minate, rendendo impossibile per anni la loro pulizia periodica».
La pista di bob era stata spaccata in alcuni punti per ricavare delle feritoie da cui sparare. Proprio da Trebevic i cecchini potevano controllare un ampio raggio della città, fino alla vecchia biblioteca. E proprio da qui, si è divertito a sparare sulla città assediata anche Limonov, che Vito chiama senza alcuna ironia «un intellettuale russo in vacanza». «Per conquistare quelle trincee, i ragazzi di Sarajevo sono andati a gruppi di dieci con un fucile e nove pugnali... e quanti ne sono morti. Gli facevano conquistare posizioni per poi intrappolarli nelle aree minate».
Di quei campi minati con “disonore”, aggiunge Vito con fierezza, oggi non c’è più traccia. E quanto allo sminamento di tutta la Bosnia? «Oggi probabilmente ci saranno ancora centomila mine. Di realmente pericolose solo diecimila, ma sono quasi tutte segnalate. La presenza di mine non monitorate oggi è quasi prossima allo zero». Difatti, gli ultimi incidenti, che pure ci sono stati, hanno interessato taglialegna abusivi che si sono inoltrati nei campi delimitati. Tanto è stato lo shock, per Vito, di trovarsi la prima volta su un campo infestato da ordigni molto simili a quelli che aveva ideato e prodotto per una vita, quanto intensa, e difficile da descrivere a parole, la sensazione di leggerezza di camminare su un campo liberato. È come una festa del raccolto. La terra ritorna a vivere, la popolazione locale può farci quello che vuole.
Oggi pensa che i prossimi fronti di lavoro dovrebbero essere la Siria (dove hanno utilizzato le mine degli ex arsenali di Saddam) e la Libia, dove stanno impiegando mine belghe o copie di mine brasiliane. «Ma non ora, ora è impossibile andarci». Il lavoro dello sminatore è un lavoro del dopoguerra, un lavoro portato a termine da un popolo di formiche che lotta contro le metastasi di un disastro già ideato e deflagrato. Eppure, senza quelle formiche, la guerra continuerebbe per decenni. A ogni esplosione, una nuova nuvola di odio si alzerebbe dalla terra. E questo Vito Alfieri Fontana lo sa. Nessuno meglio di lui può saperlo.

mercoledì 28 gennaio 2015

I giardini di Abele

certo che vedere questo reportage di Sergio Zavoli, su Franco Basaglia e i matti (Alda Merini stava in quella schiera), a TV7, dev'essere stato un colpo per molti *** - franz



qui la versione integrale, con 10 minuti in più, con interviste a malati.

Le immagini, tratte da un documentario realizzato da Sergio Zavoli, nel 1968, raccontano la straordinaria esperienza terapeutica condotta dallo psichiatra Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia, all’inizio degli anni Sessanta. 
Si tratta di un’autentica rivoluzione nella psichiatria italiana, che restituisce ai malati un ruolo umano e sociale, tramite una continua comunicazione con chi li cura. La natura carceraria dell’istituzione è eliminata e si comincia a studiare la natura del pregiudizio nei confronti del malato, formatosi storicamente con l’avvento della società borghese, che impone l’emarginazione degli elementi socialmente improduttivi. 
L’unità audiovisiva mostra gli addetti ai lavori - infermieri, psicologi e medici - intenti a discutere della validità dell’esperienza di Gorizia e lo stesso Basaglia, che spiega le ragioni del suo metodo terapeutico e svela le contraddizioni sociali che, fino a quel momento, avevano di fatto creato “due distinte psichiatrie”, per i poveri e per i ricchi. E’ importante, secondo il grande psichiatra, avvicinarsi alla persona che soffre in un modo estremamente dialettico, che trascende la semplice figura “tecnica” del medico, con l’interesse rivolto prevalentemente al malato piuttosto che alla malattia.
da qui

***allora la TV era questa, tra l'altro, oggi è "il grande Fratello" e "Uomini e donne", questo guardano le mie alunne e i miei alunni (non tutti, ma davvero molti), difficile credere in qualcosa di buono per tutti noi.

martedì 27 gennaio 2015

Kobanê. La notte delle mongolfiere - Eliana Caramelli

L’assedio è finito. Gli uomini neri dell’Isis se ne vanno umiliati. Camminano in fila indiana con l’incedere di un esercito in rotta. I Turchi ne coprono la ritirata. Le giovani kurde si abbracciano, sorridono, salgono la collina di terra con bandiere verdi, le braccia levate al cielo. Pare quasi che solo guardando da lassù, i fossati e i ripari dove per 134 giorni hanno messo in gioco la vita e perfino qualcosa di più, possano credere che sia tutto vero. Che il 26 gennaio del 2015 sia il giorno in cui hanno scritto la storia di un paese che non esiste e di una città che insegna a restituire un senso all’idea di libertà. Malgrado le apparenze, l’ipocrisia, il cinico calcolo geopolitico, in un certo senso Kobanê non è mai stata sola. Perché le donne, gli uomini, i vecchi e i bambini che lì hanno saputo morire e resistere difendevano la dimensione umana tra le macerie di una città che per più di quattro mesi è stata forse il principale teatro della guerra mondiale tra la vita e la morte. Ha vinto, per ora, la voglia di vivere. Hanno vinto le mongolfiere, quelle che fanno volare la speranza come racconta il nostro reportage. Non durerà a lungo ma stanotte è tempo solo di far festa, anche per chi non c’è più…

Il primo impatto con il sud est della Turchia è sul volo per Gaziantep (Antep) da Istanbul Sahbila Gokcen, l’aereoporto dedicato alla figlia adottiva del fondatore della “patria turca”, Mustafa Kemal Atatürk (1923-1938), che guidò l’aviazione turca nei bombardamenti per sedare la rivolta delle tribù kurde di Dersim ad est della Turchia. Le donne, quasi tutte con il chador in testa, si siedono nelle prime file,rigorosamente separate dagli uomini. L`apartheid di genere fa sempre un certo effetto.
A Gaziantep ci accoglie una fitta nebbia, che non accenna a placarsi e ci abbandona solo molte ore dopo il nostro arrivo a Persis (Suruc in turco). Città al confine con la Siria di 56.000 abitanti, accoglie oggi circa 133.000* rifugiati provenienti da Kobanê, da cui dista pochissimi km. Rifugiati, non profughi. Sono scappati dall’offensiva dell’ISIS e ogni giorno attendono le notizie del contrattacco delle forze kurde. Ogni metro della città riconquistato dai loro amici, dalle loro figlie, dai loro compagni e compagne di lotta, accorcia la prospettiva della permanenza nelle tende fredde e umide dei campi allestiti alle porte della città. Li intravediamo già all’ingresso della città con il bus: file e file di piccole tende grigie, una addossata all’altra. Panni stesi al pallido sole, dopo la pioggia della notte, che ha reso le strade come scivolosi nastri di fanghiglia.
E’ qui, distribuiti in cinque campi nel centro e nella periferia di Persis (un sesto in costruzione), che hanno trovato alloggio 52700 persone distribuite in circa 1200 tende*.
Ma la solidarietà tra la popolazione locale, a maggioranza kurda, è scattata subito dopo i primi giorni dell’emergenza, lo scorso agosto, quando le persone, dopo avere dormito per strada o all’interno di capannoni abbandonati, hanno trovato alloggio presso le famiglie della stessa Persis o nei vicini villaggi di confine, comeMesher, a circa 6 km di distanza, che sarà la nostra base di appoggio.
Il Centro Culturale Amara
Prima di dirigerci al villaggio, facciamo tappa al Kultural Merzeki Amara (Centro Culturale Amara), seguendo le orme degli attivisti e attiviste che da tutta Italia, dalle prime settimane di ottobre, hanno visitato e documentato la situazione del conflitto in questa parte di Kurdistan. Il Centro è il punto di coordinamento di tutte le attività a sostegno dei rifugiati svolte dalle associazioni e dai partiti kurdi della Turchia in collaborazione con la Municipalità di Persis. Al piano terra la grande sala dove ci si incontra, si può mangiare un pasto caldo con zuppa di legumi e riso, bere del té, collegarsi a internet. Al piano superiore, il centro media e il magazzino, dove ragazzi e ragazze catalogano e sistemano incessantemente le varie medicine (e non solo) portate con gli aiuti internazionali. Anche noi consegniamo uno zaino pieno di farmaci raccolto a Roma e un contributo economico raccolto tra i Cobas e altre realtà italiane. Tutto rigorosamente registrato. Il Centro pian piano si riempie, tante persone da vari paesi venuti qui a dare una mano. Le presentazioni riempiono le due ore passate lì.
E’ qui che incontriamo A., 18 anni e un sorriso luminoso, che, grazie ai contatti della rete Italia-Kurdistan e Uiki onlus, ci stava aspettando. Con il suo buffo inglese sarà la nostra guida, interprete, amico per tutta la settimana.
Mesher e gli altri villaggi di confine
A Mesher, dentro la tenda ben riscaldata del presidio permanente alle porte del villaggio, ci accoglie M., vecchio militante del PKK della zona del Monte Nemrut, per 10 anni ha conosciuto la galera, oggi responsabile dei rapporti con gli stranieri del Gruppo di crisi per Kobanê. Ci racconta che si è appena celebrato anche qui, come in tanti territori curdi, il Robosky day, anniversario della strage di Robosky al Nord della Turchia, avvenuto il 28 dicembre 2011 quando l’aviazione turca uccise 34 persone civili in un villaggio accusato di ospitare guerriglieri del PKK. La discussione parte da banali presentazioni, ma la netta impressione è che voglia capire esattamente chi siamo e cosa siamo venuti a fare. Poi arrivano i racconti di quando Ocalan si rifugiò a Roma e il ruolo di D’Alema. Ma soprattutto ci chiede cosa pensa il popolo italiano di quanto sta avvenendo in queste zone e come ne parlano i giornalisti. Domanda questa ricorrente in molti altri incontri.
Lui e molti altri sono accorsi per dare sostegno ai rifugiati, per far passare gli aiuti materiali verso la Siria, evacuare i feriti e per controllare i confini attraverso squadre di vigilanza segnalando le complicità dell’esercito soprattutto in prossimità delle zone sotto controllo dell’ISIS con il quale mantiene relazioni molto cordiali. I volontari e soprattutto le tante famiglie di Kobane che si sono insediate qui (circa 45 famiglie su 35 residenti in precedenza), hanno per forza di cose cambiato la normale vita del villaggio, in meglio stando ai racconti. Si è infatti introdotto un modo di vita più collettivo, dalla condivisione della cucina ai lavori per organizzare i servizi e il mantenimento delle strade, che si sta cominciando a “pavimentare” a suon di carriole di asfalto e colpi di badile. I rifiuti vengono raccolti da automezzi messi a disposizione dalla Municipalità di Diyarbakir, e condotti da volontari, che tutti i giorni fanno la spola con le locali discariche. Tutti i villaggi hanno anche un servizio di sicurezza che ne controlla l’ingresso e il territorio circostante.
La piccola moschea è il luogo di preghiera, di ritrovo, di accoglienza degli ospiti e dei ragazzi più giovani provenienti da Kobanê. Il tè bollente sempre a disposizione. Dietro la scuola, turca, da cui sono esclusi di fatto i bimbi curdi. E semplici case di paglia e fango solo in parte sostituite da più moderni fabbricati di cemento,. Attorno campi.
Poi la grande “piazza”, una spianata di terra proprio di fronte a Kobanê, i cui palazzi si vedono bene sullo sfondo nelle giornate terse. E’ qui che attorno ai fuochi accesi, punti di riferimento e socialità, ogni sera le persone si radunano, chiamano a Kobanê i loro parenti o i loro combattenti, cantano, mandano piccoli video, li incitano e li salutano. E si tengono aggiornati l’un l’altro sulla situazione militare, notizie raccontate da dentro, attraverso le telefonate ai propri cari. La tecnologia aiuta il filo di solidarietà e le relazioni tra rifugiati e combattenti. E’ da qui che le persone volgono i loro sguardi oltre le colline controllate dall’esercito turco proprio di fronte al villaggio. Fumano e guardano cercando oltre la nebbia le immagini della città dalla quale arrivano incessanti gli echi delle esplosioni. Ed è qui che ogni mattina si svolge il “rito” della linea: decine di persone, abitanti e volontari, rivolte verso i confini che vorrebbero vedere distrutti, manifestano, cantando e gridando slogan di sostegno alla lotta curda e delle sue forze combattenti, YPG (miste) e YPJ (femminili).

I combattenti e le combattenti kurde
La stessa scena la vediamo al vicino villaggio di Mis Aynter. Al termine ci accolgono calorosamente, invitandoci a raccontare la nostra storia davanti ad un tè bollente. Ci chiedono subito cosa pensiamo di ISIS e YPG/YPJ. Ci ricordano le complicità del governo turco. “Non abbiamo bisogno dei governi, i governi dovrebbero rispondere ai bisogni delle persone, invece l’ISIS vuole imporre le sue regole”, ci dice una giovane donna. “Le YPG sono nate per difendere il popolo kurdo non per invadere altri popoli” e ci raccontano stralci di nefandezze occorse a Sengal (distretto dell’Iraq). Ci fanno visitare una costruzione centenaria, simile ad un nostro trullo, che ospita una specie di “memoriale” dedicato interamente a Arin Mirxan (uccisa a Parigi insieme ad altre due attiviste nel 2013) e ai caduti di Kobanê. Un lungo elenco di nomi e di foto, tra cui quello della compagna Kader, uccisa, unica in un gruppo di 19 persone, al confine con la Siria, dopo aver annunciato pubblicamente che si sarebbe arruolata nelle YPJ. Scorriamo le foto, tanti giovani..
Ci raccontano che una notte una donna-kamikaze di Isis si è fatta esplodere vicino postazioni Ypg facendo circa 8 vittime. Le perdite ISIS sono state molto più alte a seguito degli attacchi kurdi, 34 morti e 43 prigionieri. Poi purtroppo ancora vittime, circa 7 combattenti di Ypg che ha subito anche diversi prigionieri. E così,ogni giorno, il bollettino di guerra. Anche noi ci imbattiamo nel rientro da Kobanê della salma di un militante di un partito marxista leninista turco, combattente dal 6 settembre scorso, caduto il 30 dicembre.
Li vediamo i palazzi distrutti di Kobane, dalla collina. La sentiamo vicina, giorno e notte, da Mesher, negli spari e nel fragore delle bombe. Rumori di distruzione e morte che avvengono a pochissimi km da qui, è agghiacciante. Eppure per queste persone è ormai la normalità, anche se le conseguenze della guerra sulle persone sono imprevedibili e alcune organizzazioni di volontari stanno infatti facendo un gran lavoro di elaborazione soprattutto con i bambini.
I bambini di Kobanê
E’ proprio dal frutto del lavoro di alcuni giovani insegnanti, tutti volontari, che è stata inaugurata al Centro culturale Amara la piccola mostra “I colori dei bambini di Kobanê”, con i disegni fatti dai bambini che vivono oggi nei campi dei rifugiati. A loro è stato chiesto di disegnare cosa pensassero della loro città. Le scene, vissute o forse solo ascoltate, sono terribili, se non fosse per la semplicità dei tratti e dei colori. Carri armati, bombe che esplodono, persone decapitate, spari, morti, feriti….ma anche Kobanê, disegnata come un matrimonio festoso, un paese colorato pieno di alberi e fiori, una manciata di terra a forma di cuore tenuta sul palmo delle mani. Uno degli insegnanti si racconta: insegnante della scuola primaria, imprigionato per due anni dal regime di Assad, vive ora a Persis, ma aspetta il momento per tornare a casa il prima possibile. Per ricominciare. Tornare a casa prima possibile, anzi “quando?” è la domanda incessante che gli rivolgono anche i bambini dei campi.

La vita e gestione dei campi, la raccolta e distribuzione degli aiuti
Sono i bambini e le bambine di Kobanê l’immagine che più colpisce entrando nei campi dei rifugiati a Persis. Hanno gli occhi vispi di chi sta vivendo un’avventura in mezzo a decine di altri coetanei, senza regole. Entriamo e subito ti prendono per mano per farsi condurre dalla novità con due piedi e una macchina fotografica al collo. Nei campi sono circa 5300*.
Ci ritroviamo nel Campo “Kobanê” in uno dei pochi momenti di concitazione della giornata, l’arrivo del furgoncino che distribuisce le razioni di cibo. Decine di ragazzini e di donne si affollano, in una fila ordinata, con piatti e pentole. Le razioni sono distribuite di tanto in tanto da un’associazione turca, ma normalmente il cibo viene preparato a Persis e distribuito dai curdi, con il sostegno della Municipalità locale.
Partecipiamo anche noi a un’intera giornata di lavoro al magazzino Avesta, un grande capannone vuoto, un tempo supermercato. Oggi è uno dei centri di stoccaggio e smistamento delle razioni destinate ai rifugiati. Qui ogni giorno decine di ragazzi giovani (o bambini) sono sempre in movimento, ci si ferma solo per pranzo e merenda, si termina con l’arrivo del buio. Fanno quasi a gara per impacchettare, imbustare, caricare, scaricare i generi di prima necessità. Un abbinamento che vede farina e zucchero; uova; grandi sacchi con fagioli, lenticchie, riso, burghul, 5 kg di pasta; il sapone per lavare i panni è nel sacco assieme agli assorbenti da donna, già si capisce a chi è destinato.Le razioni sono bene calcolate e tutto viene meticolosamente annotato. Anche i furgoni che vengono a caricare. Ogni campo, ogni villaggio e ogni quartiere della città che ospita i profughi ha almeno due responsabili per la logistica e la distribuzione degli aiuti. Ognuno di loro, sempre in contatto con il Centro Amara – che registra ogni nuovo arrivo – sa esattamente quante persone vivono nell’area di loro competenza e quali sono i bisogni effettivi. C’è organizzazione, dietro tutto questo, ma non verticistica, anche nei campi si applica il modello di autogestione iniziato a costruire in Rojava prima della guerra. Ognuno dà il suo contributo.
Nei campi pochi punti di acqua dove riempire bottiglie e boccioni, alcuni magazzini, una tenda che funziona da scuola due ore al giorno, con tre livelli di classi, e da centro culturale per alcune animazioni teatrali e panni stesi ovunque: la ricerca della pulizia sembra una delle principali attività della giornata in mezzo a questa poltiglia marrone, anche se il clima umido e piovoso di questi giorni rende impossibile fare asciugare qualsiasi cosa. Una donna ci guarda sconsolata, sa bene che la piccola barriera di sassi costruita all’ingresso della tenda potrà tenere fuori per poco la fanghiglia che ricopre tutto il campo e tutta la cittadina in modo quasi uniforme. E’ R., un’insegnante scappata da Kobanê circa 2 mesi fa, la sua casa distrutta, l’auto bruciata, la scuola dove lavorava come insegnante di arabo per i ragazzini delle medie non esiste più. Qui insegna curdo alla scuola del campo, ma non è un vero lavoro, ora non guadagna più neanche quel magro stipendio che le permetteva di vivere.Così, non sposata, con due bambini non suoi in affidamento, che vorrebbe fare studiare, sta pensando di andare in Norvegia o in Germania, lì, le hanno detto, per i rifugiati ci sono delle possibilità di inserimento. Ma neanche lei, come molti qui, ha un passaporto né un documento di identità, clandestina in casa propria. Dopo il caffè aromatizzato “alla maniera di Aleppo” e molte sigarette, ci fa vedere nel suo pc portatile e il suo profilo facebook, da cui traspare una vitalità non sopita. Il fango per fortuna non affoga l’indole femminile e la volontà di ricominciare.

Stesse scene al campo “Kader Ortakaya”, 4000 persone circa di cui circa 400 bambini*. Li incontriamo al nostro arrivo nel campetto di basket vicino a seguire le peripezie di un collettivo di acrobati e ci travolgono con un corteo improvvisato dietro una tromba e un tamburo.
Nel campo, le cui condizioni sono piuttosto difficili, è appena arrivata la corrente elettrica dopo mesi di freddo e di buio. Oggi è anche il giorno della presenza settimanale della equipe medica nei campi, che conferma le precarie condizioni di salute generale e le patologie persistenti, legate soprattutto alla scarsa igiene. I campi, del resto, sono autogestiti dalla comunità kurda, con il solo aiuto di volontari e il supporto della Municipalità di Suruc, dove, con il 58 per cento e da 17 anni, governa il BDP.
Sia il Responsabile del BDP locale (che incontriamo brevemente, prima che corra al funerale di uno dei combattenti caduto a Kobanê il giorno prima) che la stessa Sindaca di Suruc, ci confermano l’estrema necessità di aiuti, di tutti i tipi. Lei è Zuhal Ekmes, una ragazza giovane che, come in tutte le Municipalità curde, condivide la carica di sindaco con un pari collega maschio. Il suo ufficio è un concitato via vai di persone. Si lavora sempre sull’emergenza continua e ci confessa che è arrivata a fumare 3 pacchetti di sigarette al giorno dall’arrivo dei primi profughi. I fondi inviati dall’ONU sono stati dati dal governo turco ad Afad, un’organizzazione governativa che si occupa di 2 piccoli campi fuori città, simili a campi di prigionia dove nessuno vuole andare, mentre niente è arrivato per la municipalità. “Non vogliamo l’elemosina, non vogliamo che in Italia si pensi che siamo dei poveri – ci dice –combattiamo l’ISIS non solo per il popolo kurdo ma per difendere tutto il mondo dal fondamentalismo dell’ISIS. Con lo scoppio della primavera araba in tutti i Paesi si è tornati a regimi autoritari. In Rojava no, lì è in vigore la democrazia per la quale stiamo lottando”. Forse è proprio questo che fa paura alla comunità internazionale.
Il modello del Confederalismo democratico
Ed è con A. una delle Responsabili per la sicurezza e la logistica dell’area di Persis, che riusciamo a parlare del modello del Confederalismo Democratico che si sta applicando nei cantoni della Rojava, in Siria. Un modello che prevede una partecipazione reale non solo dei partiti, ma anche delle associazioni civili e singoli cittadini indipendenti, a partire dalla costituzione del parlamento cantonale, del governo, con la rotazione delle cariche, l’applicazione del principio di sussidiarietà, la parità di genere.
“In Rojava si sta sperimentando una forma di uguaglianza tra i generi che – dice – non è molto diffusa neanche nei paesi occidentali. Tutti i ruoli sono infatti condivisi al 50 per cento tra uomini e donne, in campo politico, culturale, educativo e militare. Se – continua - le donne governassero davvero il mondo non ci sarebbero più guerre“. Fatto sta che in Rojava sono tra le prime file dei combattenti, con le forze dell’YPJ. “E’ in particolare con il lavoro svolto in campo militare che hanno saputo conquistarsi la fiducia degli uomini e la loro progressiva accettazione. Questo processo, iniziato ormai 20 anni fa all’interno del PKK, è ormai dilagato in Rojava e inarrestabile, perché nella pratica dell’uguaglianza e della libertà in ogni settore, le donne hanno dimostrato in modo inconfutabile le loro capacità”. Rimane sfumato, tuttavia, se una reale parità avvenga davvero anche nella vita di ogni giorno. Quello che vediamo qui è in realtà il ripetersi di ruoli standardizzati. Del resto, si sa, i cambiamenti culturali hanno tempi e processi molto più lunghi e profondi di quelli politici.
Poi prosegue, senza che noi le chiediamo niente : “Quella che stiamo combattendo è anche una guerra per la democrazia e una guerra culturale. E’ per questo che le donne in tale processo di liberazione giocano un ruolo fondamentale. E faccio un appello a tutte le donne del mondo”.
Molto sarebbe ancora da capire.
Anche per quanto riguarda la questione ecologica richiamata dalla Carta della Rojava sembra rimanere su linee di principio che riguardano, come ci dice, non tanto l’ambiente ma un più generico “modo di vita naturale, in armonia gli uni con gli altri, alla pari, in libertà e senza sottomessi o schiavi”.
Percepiamo dalle sue parole la forza di questo processo. Ci dice, con lo stesso sorriso con cui ci ha accolto, che vuole tornare il prima possibile a Kobanê, perché lì ha molti nemici da affrontare e da combattere apertamente ogni giorno, non solo sul fronte militare, ma soprattutto politico e culturale. E’ la forza di un grande sogno.
Non è la sola. Ogni giorno sono infatti almeno due le famiglie che fanno ritorno tra le macerie della città.

Il rientro
Ma qualcuno non ci spera più. A., il nostro amico e interprete, scappato da Aleppo 4 anni prima con la famiglia a soli 14 anni, poi rifugiati a Kobanê e infine qui a Persis. Non vuole sentire parlare turco. Adora la musica e canticchia Shakira, ma il suo stereo è rimasto nella casa di Aleppo. Vuole studiare medicina, imparare l’italiano. Scappare in Germania. Qui non è vita. Ciò che ha visto, le morti in diretta, la distruzione, è troppo difficile da raccontare. Ha voglia di divertirsi, come ogni ragazzo di 18 anni, ma si guarda intorno, lui è tra i più fortunati, in fondo, e con la sorella S. fanno quello che possono come volontari del centro Amara. Suo padre, insegnante di inglese, uno sguardo che trapela un grande senso di responsabilità, ha aperto qui un negozio, per tirare a campare. Ci saluta con una grande stretta di mano: “Grazie, è questa l’umanità che vogliamo, non quella di chi vuole la guerra senza fine”.
Partiamo. Negli occhi le immagini di mille volti incontrati in questi giorni, sorrisi, strette di mano. E il cielo buio di Kobanê costellato da decine di mongolfiere colorate nella notte di Capodanno lanciate dai villaggi turchi lungo il confine cui rispondono i combattenti e le combattenti della città: razzi di segnalazione rossi, in cielo, ad illuminare la speranza.
** dati municipalità di Suruc dicembre 2014

da qui

lettera a Primo Levi

Caro dott. Levi,

c’è voluto il mare azzurro della mia Mondello e il calore avvolgente della lucente estate siciliana, per compiere il mio viaggio virtuale nel Lager. Una laica e impegnativa Via Crucis, alle cui stazioni ho dovuto spesso fermarmi, prendere fiato e guardare il mare: quasi che il mare potesse lavare e lenire il dolore di quegli incontri.

Prima dell’undici aprile ’87, di Lei avevo solo il vago sapore suggerito dagli spicchi acerbi di occasionali letture. Forse è stato meglio così. Se avessi letto le sue pagine da ragazza, avrei corso il rischio di banalizzare il Lager. O, al contrario, di scappare via spaventata. E Lei sarebbe rimasto da solo, nella baracca n.45.
Nei lenti pomeriggi della scorsa estate, l’ho finalmente incontrata. Ogni sua pagina mi regalava una sua particella preziosa: la sua inquietudine, il suo calvario, la sua fragile resurrezione; la sua acuta sensibilità e intelligenza, il suo delicato pudore, il suo amore per la chimica, la sua passione etica, il suo legame forte e fecondo con la scrittura.

La discesa agli Inferi
Del suo racconto sul Lager, conservo indimenticabili frammenti.
Penso a Hurbinek: tre anni, gambette paralizzate, a cui nessuno aveva insegnato a parlare. I cui occhi però “saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava (…) premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano a un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena”. Guardo i miei garruli figli e penso a Hurbinek, “che non aveva mai visto un albero; Hurbinek che aveva combattuto come un uomo (…) per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek, che morì ai primi giorni del marzo 1945, libero, ma non redento.”

Penso a Sòmogyi, chimico ungherese, suo compagno nell’infermeria, nel gennaio del ‘45, nei giorni intercorsi tra la fuga dei tedeschi e l’arrivo dei russi. Sòmogyi che, “Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare ‘Jawoh’l ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, ‘Jawohl’ ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola.”

Penso ai suoi sogni, in quell’incubo interminabile che era il sonno nel Lager.
Il sogno del racconto: “Essere nella mia casa, fra persone amiche e avere tante cose da raccontare: ma (…) i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.” Il sogno di Tantalo: “Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. E’ un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa si che l’atto non vada a compimento. Allora il sogno si disfa (…), ma si ricompone subito dopo, e ricomincia simile e mutato: e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno.”

Penso al suo viaggio notturno verso la latrina. Vestito solo di camicia e mutande e con suole di legno ai piedi, in mezzo alla neve: per svuotare il secchio pieno dell’orina notturna dei prigionieri. Secchio “disgustosamente caldo”, che andava svuotato almeno venti volte a notte.
Penso all’angoscia nel momento della sveglia, quando la guardia “Pronunzia la condanna di ogni giorno:-‘Aufstehen’ o più spesso in polacco: ‘Wstawàc’(…). La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi (…) Incomincia un giorno come ogni giorno, lungo a tal segno da non potersene ragionevolmente concepire la fine, tanto freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano.”…

lunedì 26 gennaio 2015

dice Isaac Bashevis Singer

Si sono convinti che l'uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno.

dice Frank Zappa


L'illusione della libertà continuerà fino a che è vantaggioso che continui. Nel momento in cui la libertà diventerà troppo costosa, tireranno giù la scenografia e il sipario, toglieranno i tavolini e le sedie e potrai vedere il muro di mattoni in fondo al teatro. 


(per Hamas è stato così, per Syriza chissà - franz)

ricordo di Demis Roussos

grazie per tutto, Demis :)





domenica 25 gennaio 2015

L’ibisco viola – Chimamanda Ngozi Adichie

una ragazzina cresce, è ricca, in un paese difficile, la libertà è difficile, i rapporti con i genitori sono difficili, un fratello, una zia, cugini, e un nonno "pagano", ecco la famiglia.
morire è un attimo, Kambili cresce, è bravissima a scuola, il padre le vuole un bene da matti, conosce un prete, se ne innamora, è una magia, è un libro che non vorresti mai finire di leggere, da quanto è bello.
Chimamanda vi parla qui e qui, e, se la ascoltate e vi conquista, sappiate che scrive bene come pochi, non privatevene - franz





Nigeria. Kambili ha quattordici anni. Suo fratello Jaja un paio di più. Il padre Eugene ha studiato all’estero, possiede molte fabbriche, è uno degli uomini più ricchi del paese. E, soprattutto, è molto religioso: preghiera di ringraziamento (lunghissima) prima dei pasti, rosario alla sera, rosario durante i tragitti in automobile, confessione e comunione obbligatoria per tutta la famiglia. La domenica in cui Jaja non si avvicina all’altare per ricevere l’ostia il padre scaglia il messale contro la vetrinetta che contiene la collezione delle statuine della madre: è la scena chiave del libro, quella che inizia il racconto di Kambili che procede a ritroso per ricongiungersi poi con questo momento che segna il cambiamento, la ribellione al padre-padrone…

Quanto è stato emozionante questo romanzo! 
Ho sentito le emozioni di Kambili: la paura che non l'abbandona mai, le parole che le si bloccano in gola, le sensazioni intense per padre Amadi, l'intesa con il fratello Jaja, il rispetto per la madre, l'ammirazione per la zia Ifeona e per i cugini e soprattutto quello strano sentimento per il padre, quel continuo ondeggiare tra terrore e venerazione, tra timore e fiducia.
Restavo con il fiato sospeso, mi si stringeva lo stomaco come se fossi lì, come se fossi io Kambili…

… Il libro è di quelli che lasciano il segno. Scritto con grande passione e "colore", è un viaggio nella Nigeria, nella religione, nella famiglia, nell'amore e nell'odio. Insomma un percorso, a volte spensierato e   profumato, e altre volte violento e angoscioso nell'animo umano. 
Ambientato nelle città di Enugu, dove vive la protagonista del libro, l'adolescente Kambili (nel suo percorso è affiancata dal fratello Jaja) e di Nsukka, dove abita la zia, il testo si sviluppa all'interno della famiglia allargata (benestante e colta) di un editore indipendente e fanatico cattolico, che si trova a vivere i difficili momenti dopo un colpo di stato. Da una parte la figura di un padre, Eugene, intellettuale e attivista, che diventa violento in famiglia a causa di un fanatismo religioso eccessivo e dall'altro la società civile nigeriana in forte evoluzione e ricca di contraddizioni.
Un romanzo a tratti forte, che lascia sempre delle strade aperte a diverse possibili soluzioni, in cui il lettore non può che identificarsi in un'atmosfera a volte intensa di emozioni e bellezze, altre volte cupa e malinconica.
E' anche un racconto sulle trasformazioni che una società fortemente tradizionalista ha subito (forse inconsapevolmente) a causa del colonialismo e delle ingerenze (forti) di un'evangelizzazione forzata. Una lotta tra cattolicesimo e tradizione, tra amore e odio nel mentre della trasformazione di una società allo sbando e delle scoperte adolescenziali…
da qui

venerdì 23 gennaio 2015

I fondamentalisti e gli Ultimi Uomini - Slavoj Zizek

Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica versol’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.
Ecco perché trovo insufficienti i richiami alla moderazione sulla falsariga dell’appello di Simon Jenkins («The Guardian», 7 gennaio), secondo il quale il nostro compito è quello di «non reagire eccessivamente, di non pubblicizzare eccessivamente le conseguenze dell’accaduto. È invece quello di trattare ogni evento come un episodio di orrore passeggero». L’attacco a Charlie Hebdo non è stato un mero «episodio di orrore passeggero»: seguiva un preciso piano religioso e politico e, come tale, era parte di uno schema molto più ampio. Certo: non dobbiamo reagire eccessivamente se per questo si intende soccombere a una cieca islamofobia – dovremmo però analizzare questo piano in modo spregiudicato.
Non abbiamo bisogno di demonizzare i terroristi trasformandoli in fanatici eroi suicidi, ma di sfatare questo mito demoniaco. Molto tempo fa, Friedrich Nietzsche comprese che la cultura occidentale stava andando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica senza grandi passioni o impegni. Incapace di sognare e stanco della vita, l’Ultimo Uomo non prende rischi; cerca solo comfort e sicurezza, tolleranza verso gli altri: «Un piccolo veleno di tanto in tanto: è quello che ci vuole per fare sogni piacevoli. E più veleno alla fine, per una morte piacevole. Hanno i loro piccoli piaceri diurni e i loro piccoli piaceri notturni, ma hanno riguardo per la propria salute. ‘Abbiamo scoperto la felicità’ – dicono gli Ultimi Uomini, e strizzano l’occhio». Può in effetti sembrare che lo iato tra il Primo Mondo permissivo e la reazione fondamentalista corra sempre di più lungo la linea divisoria fra chi conduce una vita lunga, soddisfacente e piena di ricchezza materiale e culturale, e chi invece dedica la propria esistenza a una qualche Causa trascendente. Non è forse questa l’antitesi fra ciò che Nietzsche chiama nichilismo «passivo» e «attivo»? Noi in Occidente siamo gli Ultimi Uomini nietzschiani, immersi in stupidi piaceri quotidiani, mentre i musulmani radicali sono pronti a rischiare tutto, impegnati nella lotta fino all’autodistruzione. La seconda venuta di William Butler Yeats sembra rendere a pieno la nostra situazione attuale: «I migliori sono privi di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità». È un’eccellente descrizione della frattura tra i liberali anemici e i fondamentalisti appassionati: “i migliori” non hanno più la capacità di impegnarsi interamente; “i peggiori” si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono veramente a questa descrizione? Ciò di cui sono privi è un tratto che si ritrova facilmente in tutti i fondamentalisti veri, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso lo stile di vita dei non-credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi davvero credessero di aver trovato la loro via per la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non-credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, a malapena lo condanna: si limita a notare con benevolenza che la ricerca di felicità dell’edonista si sconfigge da sola. A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattano in realtà la loro stessa tentazione.
È qui che la diagnosi di Yeats non è all’altezza della situazione attuale: l’intensità passionale dei terroristi testimonia una mancanza di vera convinzione. Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano se si sente minacciata da una stupida caricatura in un settimanale di satira? Il terrore fondamentalista non si fonda sulla certezza della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare l’identità religiosa e culturale dall’assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che noi li consideriamo inferiori, ma che loro stessi si sentono segretamente tali. Ecco perché le nostre rassicurazioni condiscendenti e politicamente corrette li rendono solo più furiosi, e nutrono il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo di preservare la propria identità), ma praticamente l’opposto: i fondamentalisti sono già come noi; segretamente hanno già introiettato i nostri parametri, alla luce dei quali misurano se stessi.
Paradossalmente, quello che manca ai fondamentalisti è proprio una dose di vera convinzione ‘razzista’: la certezza della propria superiorità. Le recenti vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Benjamin per cui «ogni ascesa del fascismo reca testimonianza di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al tempo stesso è la prova che c’era un potenziale rivoluzionario, il malcontento, che la sinistra non è stata capace di mobilitare. La stessa cosa vale per il cosiddetto ‘fascismo islamico’ di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è il correlativo esatto della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Talebani conquistarono la valle dello Swat in Pakistan, il «New York Times» scrisse che avevano organizzato «una rivolta di classe che sfrutta divisioni profonde fra un piccolo gruppo di latifondisti ricchi e i loro affittuari senza terra». Se, «approfittando delle condizioni difficili dei contadini», i Talebani stavano «sollevando l’allarme sulle condizioni sociali del Pakistan, che rimane largamente feudale», che cosa impedisce ai democratici liberal in Pakistan, così come negli Stati Uniti, di approfittare allo stesso modo di questa situazione e provare ad aiutare i contadini senza terra? La triste conseguenza di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «alleate naturali» della democrazia liberale…
Che dire dei valori fondamentali del liberalismo: la libertà, l’uguaglianza, eccetera? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte per proteggerli dall’attacco fondamentalista. Il fondamentalismo è una reazione (una reazione falsa, mistificante, com’è ovvio) a un difetto vero del liberalismo, e per questo viene generato di continuo dal liberalismo. Lasciato a se stesso, il liberalismo si indebolirà lentamente da solo: la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è una sinistra rinnovata. Per far sopravvivere la sua eredità-chiave, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È questo l’unico modo per sconfiggere il fondamentalismo, per togliergli il terreno da sotto i piedi.
Pensare in risposta agli assassinii di Parigi significa abbandonare la soddisfazione autocompiaciuta del permissivismo liberale e accettare che il conflitto fra il permissivismo liberale e il fondamentalismo è, in ultima analisi, un falso conflitto – un circolo vizioso fra due poli che si generano e si presuppongono l’uno con l’altro. Ciò che Max Horkheimer disse del fascismo e del capitalismo negli anni Trenta – quelli che non vogliono parlare in modo critico del capitalismo dovrebbero tacere anche sul fascismo – dovrebbe essere applicato anche al fondamentalismo di oggi: quelli che non vogliono parlare in modo critico della democrazia liberale dovrebbero tacere anche sul fondamentalismo religioso.
da qui

giovedì 22 gennaio 2015

riscoprire Marisa Sannia

Ci sono musicisti che vanno ricordati e (ri)ascoltati, Marisa Sannia fa parte di quella schiera.
Cercate le sue canzoni, a partire dalle prime o dalle ultime, non importa, pochi cd sono ancora in circolazione, e per fortuna c’è youtube, non privatevene, saranno ascolti per molti bellissimi, per altri di più.
Inizia giovanissima a cantare canzoni di grandi musicisti, a partire da Sergio Endrigo (Tutto o niente è la prima canzone,scritta per lei, e poi tante altre, inciderà un doppio album con le sue canzoni), e Don Backy (autore di Casa Bianca, con la quale arrivò seconda al Festival di Sanremo del 1968), e Mogol, (La compagnia, poi cantata anche da Lucio Battisti) e Vinicius de Moraes (Il gatto e Il pinguino) e altri.
Nel 1976 pubblicò anche un cd come cantautrice (La pasta scotta)
A partire dal 1993 pubblicò tre dischi su testi di Montanaru (Sa oghe de su entu e de su mare), Francesco Masala (Melagranàda ), e suoi (Nanas e janas).
Nell’ultimo disco, Rosa de papel, canta Federico García Lorca.


qui una biografia di Marisa Sannia (su wikipedia)

Ha scritto Marisa Sannia: "La poesia non si legge con gli occhi, si legge con la voce. Gli occhi ci aiutano a decifrarla l'orecchio a scoprirne il ritmo, ma la voce ci dà la possibilità di ricrearla”.
“Il suono della lingua – continua Marisa Sannia – la magia della parola portano sul cammino della poesia tra memoria e sogno. Musiche, suoni, parole che si snodano come trame e disegni toccando i sentimenti profondi e misteriosi dell’anima. Melodie mediterranee, solari, si fondono con le parole in atmosfere dove è difficile distinguere l’antico e il contemporaneo, la lingua, il poeta, il compositore e l’interprete”.
"Le persone non muoiono, restano incantate”, scrive Joao Guimaraes Rosa, lo scrittore brasiliano, autore de Il grande Sertao, dotate, cioè, di qualcosa di magico. Si rimane aggrappati al loro ricordo, si spera che ci continuino a parlare, li si chiama, li si interroga… ma di là risuona un silenzio assordante. E ti chiedi che senso ha tutto questo, che senso ha la vita…
La separazione duole troppo. Scava, lascia solchi profondi.
Marisa se n’è andata lasciandomi parole dolci, di affetto che mi riaffiorano alla mente e che mi aiutano a sentirla ancora viva dentro di me. 

L'avevo conosciuta quando entrambe avevamo 18 anni e facevamo parte della nazionale giovanile di basket. Poi ci eravamo rincontrate diverse volte, fino all'ultima volta, l'anno della sua morte.
Lei non c’è più, e non può più rispondermi al telefono, ma c’è la sua musica che è davvero magica e quando l'ascolto io so che mi parla.
Karen Blixen, nella Mia Africa, racconta una storia che le veniva narrata da bambina:
“una notte, un uomo che viveva nei pressi di uno stagno viene risvegliato da un terribile fragore: è l'argine che sta cedendo. Si precipita a tappare la falla correndo di qua e di là e, quando ha finito, se ne torna a letto. Al mattino, affacciandosi alla finestra, vede che i suoi passi disordinati hanno creato sul terreno il disegno di una cicogna. O per meglio dire la bellissima immagine di una cicogna tracciata sul terreno dal suo arrancare affannato e scomposto nel buio.
"Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?" si chiede la Blixen.
Marisa ha terminato il suo disegno. Un disegno ricercato e perseguito con tenacia: il “suo disegno”, tracciato dalla sua musica, dalle sue ricerche, dal suo impegno con la vita e per chi amava che mai ha sacrificato alla carriera. “Io mi esprimo con la musica” diceva sempre…
La ricorderò per la sua semplicità e profondità, per aver sempre creduto fortemente in quello che faceva, per non avere mai amato successo e fama fine a se stessi, per non aver mai ceduto alla leggerezza e vacuità di questo tempo, per la sua grande onestà e umiltà.  “La vita mi ha dato tanto, non poteva darmi di più ed io so che tanta troppa gente non ha avuto neanche una minima parte di quello che ho avuto io” Questa era una delle sue solide consapevolezze.
Credo che lei oggi vorrebbe essere ricordata anche per ciò che non l’ha resa famosa e per ciò che i mass media hanno disdegnato: l'amore per la poesia, la maturità, lo studio continuo e la riscoperta delle radici linguistiche sarde. Questa ricerca l’ha portata agli inizi degli anni Novanta ad accostarsi ad alcuni poeti sardi come Antonio Casula, Francesco Masala e Antonio Canu, sui testi dei quali elaborò e compose melodie che diedero vita a lavori splendidi come Sa oghe de su entu e de su mare (1993), Melagranada (1997) e Nanas e janas (2003) caratterizzati anche dagli splendidi arrangiamenti di Marco Piras e dalla collaborazione artistica di Maria Lai.
……Questa lingua antica ma familiare, radicata nel profondo dell’anima, mi affascina e mi intimorisce, solo cantando riesco a vincere il pudore e a liberare emozioni…..
“…Incantata da questi versi semplici, pieni di sentimento, di voglia di libertà, di solitudine, ho provato a musicarli per poterli cantare…”
E poi il suo grande amore per la poesia di Federico Garcia Lorca. Negli ultimi tre anni della sua vita Marisa ha dedicato tutto il suo tempo allo studio e alla metrica del grande autore andaluso lasciandoci in eredità un toccante lavoro di canzoni originali cantate in spagnolo pubblicate in Rosa de papel, un album postumo (curato graficamente da lei fino all'ultimo dettaglio), e che ha avuto un'anteprima la scorsa estate al Malborghetto Roma.
Ma il CD era solo una parte del progetto, perché su Garcia Lorca aveva preparato uno spettacolo teatrale. Ricordo la gioia dei suoi occhi quando me ne ha parlato e quando mi raccontava le prove che stava facendo e che solo la malattia ha interrotto. Ascoltatene una... E' bellissima.

So bene che questo post sarà letto da pochi, perché alla fine persino il “mio pubblico” preferisce essere rassicurato da argomenti che già conosce e apprezza, ma non importa: nel suo piccolissimo, questo blog ha la pretesa di fare cultura, e di conseguenza cerco di non subire la tirannia dei ”click”. Ecco dunque la recensione un disco davvero notevole, di un‘artista che purtroppo non c’è più, pubblicato da un‘etichetta che da anni sta portando avanti un eccezionale lavoro sul nostro patrimonio musicale di area folk. Personalmente ritengo che sarebbe il caso di provare ad ascoltarlo (in fondo al testo trovate pure un estratto audio), poi fate un po‘ voi.

Rosa de papel (Felmay)
I lettori più anziani la ricorderanno magari come “meteora” della nostra musica leggera degli anni 60, ma quanti l’hanno conosciuta nei Novanta, ben dopo quel pur dignitoso periodo di apprendistato cui hanno comunque fatto seguito (fino al 1984) altre prove di livello come cantautrice, interprete e attrice teatrale, sono certo stati colpiti dallo spessore e dall’intensità con la quale si è confrontata con le magnifiche tradizioni della Sardegna che le ha dato i natali nel 1947. In questo Rosa de Papel, edito a pochi mesi di distanza dalla prematura scomparsa, Marisa Sannia getta un ponte verso la Spagna, cimentandosi con l’adattamento in canzoni di nove poesie di Federico Garcia Lorca e aggiungendovi le riletture di altre due opere del grande autore andaluso già musicate da Leonard Cohen e Amancio Prada, il tutto superbamente arrangiato da Marco Piras con il ricorso prevalente a strumenti caldi e limpidi quali chitarra acustica, violoncello, contrabbasso e piano. Sinuoso e affascinante il risultato, con la voce della Sannia in perfetto equilibrio tra fragilità e forza e le musiche – scarne ma incisive – a sottolinearne l’intensità, in questo favorite dai toni “esotici” dello spagnolo. Avrebbe potuto firmarlo una Marianne Faithfull, e scusate se è poco.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.654 del gennaio 2009

Che magnifico disco di fado! E che lingua melodiosa il portoghese! E che grande interprete stiamo ascoltando! Tutto vero. Tranne che la lingua che stiamo ascoltando è il sardo (melodioso come il portoghese), che la grande interprete è sarda a sua volta e che risponde al nome già praticato di Marisa Sannia e che, sì, in fin dei conti di fado si tratta, anche se un po' sui generis. Il dato più rilevante però è un altro: questo disco, che tradotto suona come "la voce del vento e del mare" è in circolazione dal 1993 e nessuno è riuscito a farcelo sapere, ascoltare, assaporare, se non banalmente il caso. 

Eppure, senza nemmeno aver troppo tema di smentite, si tratta di uno dei dischi più belli sentiti negli ultimi anni, uno di quelli che, senza nemmeno aver bisogno di pensarci molto, avrei schiaffato tra gli "indimenticabili" di questa o di un'altra stagione. E, perché anche la fortuna, come è noto, deve avere dei limiti, bisogna anche specificare che la versione che ho tra le mani è un "parente povero" della versione originaria, che comprendeva, oltre alle 11 canzoni riportate qui dentro, tratte dalle liriche del poeta sardo Antioco Casula "Montanaru", rielaborate da Marisa Sannia e Francesco Masala su musiche della stessa Sannia, anche la riproduzione a stampa di un'opera dell'artista Maria Lai, un "multiplo" contenente versi di Montanaru scritti a mano e impreziositi da fili cuciti dall'artista, all'interno di un cofanetto in cartone telato, quello di cui sopra è riportata la copertina.

Il disco in mio possesso è invece una riedizione successiva, dalla copertina molto scarna (che riporto qua sotto) che è uscito una decina di anni dopo la versione originale e che navigando sui fragili vascelli del caso, è riuscito ad arrivare fino a me. Ecco comunque la copertina della versione che si può ancora trovare in circolazione, frugando bene negli scaffali secondari dei migliori negozi e soprattutto nei negozi virtuali su internet.

L'operazione qui, completamente godibile anche di per sé, ha anche un cote culturale di tutto rispetto: Antioco Casula è un poeta lugodorese del primo '900 ("Montanaru" è il suo soprannome), classico poeta contadino della Barbagia, con istruzione appena elementare, ma autore di quattro libri di liriche usciti tra il 1904 e il 1950 e Maria Lai è una delle principali artiste sarde contemporanee di arti visive, in particolare applicare sul paesaggio e su vasta scala. Marisa Sannia, infine, qualcosa bisognerà dirlo anche su di lei, è una "signora della canzone italiana": ha avuto il suo periodo di splendore sul finire degli anni '60, interpretando brani come "Casa bianca" o "C'è chi spera" o "Sarai fiero di me". Poi un primo distacco dal mondo della musica leggera e un ritorno in veste di cantautrice con un album ("La pasta scotta" - 1976) di cui, chi ha potuto ascoltarlo, ne ha parlato molto bene.
Altro silenzio (pur non assoluto, un album dedicato a Sergio Endrigo, introvabile e valutato fino a 80 euro sul borsino dei dischid a collezione, teatro, cinema, traduzioni di Manel Serrat) e nel 1993 arriva, in anticipo sui tempi, la svolta etnica e la riscoperta della Sardegna con l'album in questione "Sa oghe de su entu e de su mare", destinato a non restare opera unica: infatti nel 1997 esce "Melagranada", album di cui ora sono disperatamente in caccia, che dovrebbe proseguire e approfondire il discorso di "Sa oghe" e, infine, nel 2003 esce "Nanas et janas", una raccolta di ninne nanna e filastrocche in lingua sarda che va a completare il "trittico isolano".

Per ora resta questa opera dai testi densi e imperscrutabili (ma sul sito si trovano le traduzioni). Si apre con
 "It'est sa poesia": "Cos'è la poesia? / E' la bella immagine lontana vista e mai raggiunta / Un desiderio, uno sguardo / un raggio di sole alle finestra / Cos'è la poesia? / il dolore, la gioia, la speranza / la voce del vento e del mare", che è e resta assolutamente un fado! Magicamente orchestrato da Marco Piras che ha a sua volta avuto un passato glorioso nel beat degli anni '60 con i Bertas, un gruppo sardo di ottime qualità, autore tra l'altro di un piccolo hit come "Fatalità" e suonato da Pinuccio Cossu e Marco Piras alle chitarre, Gilda Dettori all'arpa, Angelo Nappi al violoncello, Francesco Pilu alla fisarmonica, Bruno Piccinnu alle percussioni e ancora Marco Piras alle tastiere, oltre a diversi cori, il disco propone varietà di ambienti sonori e arrangiamenti ampi ed ariosi. 

"Istasera un organitto"
 (Serenata di inverno) è un altro grande episodio di un grande disco, raccolto e delicato, in forma di acquerello musicale, ma con controtempi e cori che richiamano alla tradizione. Alla tradizione delle ninne nanne richiama "Ninna nanna da Anton'Istene", che forse colpirà particolarmente chi è particolarmente sensibile al tema, ma che sfido chiunque a riuscire ad ascoltarlo mantenendo il ciglio asciutto e la mano ferma. E a non farsi trascinare dalla voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dall'ammaliante voce di Marisa Sannia. "Ninna nanna a cantare" è invece sull'altro versante delle nanne, più vivace e veloce, ma altrettanto dolce. 

Ma nei 44'59" del disco non ci sono momenti bassi, l'ispirazione non abbandona mai Marisa e, per paradosso geografico, i versi di "Montanaru" e le trame dolci che intesse loro attorno Marisa Sannia, soprattutto nella "Morte dell'elce", richiamano i canti della terra di
 Gigi Maieron in quel capolavoro che era "Si vif". Lingue diverse dall'italiano, per sentimenti universali, contatto con la natura e abbraccio con i ritmi della terra e con i suoi suoni. Il montanaro carnico e il "Montanaru" barbaricino in alcuni estremi si toccano. E ognuno di questi due dischi potra con sè il respiro della terra e un suono che non è mai solo di una nazione o di una terra, ma universale. Cinque stelle, due lune e un mare incantato per un disco che incanta.

Chi ha seguito gli ultimi dischi pubblicati da Marisa Sannia in lingua sarda ha avuto modo di apprezzare le sue qualità di autrice e di musicista raffinata e di gusto: pochi sanno però che gli esordi come autrice della cantante pupilla di Sergio Endrigo risalgono agli anni '70, ad un album che non esito a definire un piccolo gioiellino, uno dei miei preferiti in assoluto: “La pasta scotta”.
Il disco fu pubblicato nel 1976 (la matrice è datata 1 ottobre), gli arrangiamenti sono curati da Danilo Vaona, e si fanno decisamente apprezzare, forse non per l'originalità ma sicuramente per la cura sonora e il buon gusto.
Passando alle canzoni, la title track è un valzer-ballata stile west coast: se fosse in inglese me la immagino nel repertorio di una Linda Ronstadt o di una Nicolette Larson; anche altre canzoni si rifanno decisamente a questo stile, penso a “E' freddo il tuo caffè”, che pare una cover di Neil Young ed è, invece, scritta testo e musica dalla Sannia (come del resto tutti i brani di questo disco).
“Se sarà più bello” è la classica canzone cantautorale, con un inizio con la chitarra arpeggiata, a cui poi si affiancano gli altri strumenti, tra cui il violino negli intermezzi delle strofe cantate; ed anche “Stagioni nuove” si basa sull'arpeggio della chitarra, mentre il testo, sul trascorrere del tempo e sui cambiamenti, è tra i più interessanti, con un'armonica a bocca che si aggiunge nel finale (peccato che non siano riportati i nomi dei musicisti).
“Vorrei essere io” è una delicata canzone d'amore che chiude il lato A, mentre la canzone che apre il lato B, “Il guardiano”, si stacca un po' dalle atmosfere precedenti ed è sicuramente la più ritmata del disco.
Un po' sottotono “Ma chi sei”, mentre invece è molto bella “Ma quale regina”, sia per la musica, basata sugli archi e sulla chitarra, che per il testo che è su un amore finito e sulla disillusione che ne segue, con dei riferimenti però molto precisi alla presa di coscienza delle donne ed alle lotte femministe di quegli anni (espressi però in modo metaforico e poetico).
“Masticavo chewingum” è una ballata in cui la Sannia racconta la sua adolescenza e la sua giovinezza, paragonandole alla sua vita da adulta.
Conclude il disco “Anche se non so nuotare”, che superando i sei minuti è la canzone più lunga del disco, ed una delle più belle e interessanti: una riflessione sulla vita, un mare in cui ci ritroviamo a doverci muovere anche senza saper nuotare, dal momento della nascita, e sul suo senso. Musicalmente il brano si caratterizza per la lunga coda strumentale, con riferimenti al Neil Young di “On the beach” e “Zuma”, ed il basso in evidenza.
Un disco che, ovviamente, non è mai stato ristampato in cd.