Gianni
Stuparich, ufficiale volontario nell'esercito italiano, scrisse queste pagine
sulla base di appunti e osservazioni fatti nel corso della guerra e raccontati
in stile letterario nel libro Guerra del '15, pubblicato nel 1931.
…Ma è umiliante aggirarsi intorno ai ricoveri, per cercar
qualche cosa: da per tutto si pesta nella merda, che sprigiona un puzzo
insopportabile. Non ci sono latrine, ognuno evacua all'aperto, quanto più può
vicino al suo o al ricovero degli altri; la fretta, per la paura d'esser
colpiti, elimina ogni altro riguardo. E così questa collina rivestita di teneri
pini e profumata d'erbe e di resina, questa collina su cui si viene a morire,
si spoglia a poco a poco e diventa un letamaio. [...]
I ricoveri son sempre quelli: tronchi, sassi, terra;
buche ombrose come tane. Le prime volte odoravano di pino tagliato di fresco,
ora sanno, ogni volta più, di marciume. Il silenzio dell'artiglieria fa un
effetto ancora più strano quassù, sembra innaturale e ci mette una sottile
inquietudine nei nervi. L'ora della sera, con le ombre che salgono, è molto
malinconica. Non resta che sdraiarsi e approfittare della tregua per dormire.
Non so se sia per la fatica fisica o per la stanchezza dei nervi, o forse per
le due ragioni assieme, che si dormirebbe sempre, a tutte le ore. La posta che
arriva su, ci sveglia, ci travolge con gli altri in un'ondata di contentezza,
perché nessuno se l'aspettava; anche noi ne riceviamo tanta: tutte Le Voci
arretrate che abbiamo chieste, giornali, lettere d'amici. C'è ancora un po' di
luce nell'aria tanta da permetterci di decifrare gli scritti che più ci stanno
a cuore. [...]
Piove, piove. Siamo tutti rannicchiati nel fango; le
fossette sono piene d'acqua. E non la smette. Mi sono coperto col telo da
tenda, sono tutto dolorante, rigido, bagnato, in questa mia tomba umida,
stanco. M'addormento per la stanchezza, con la testa su una pietra liscia,
percorsa da rivoletti d'acqua; fuori, l'acqua viene giù a torrenti. Verso sera
la pioggia cessa; breve tregua, perché il cielo è ancora tutto nuvoloso; il
sole, vicino a tramontare, rompe le nubi. Usciamo dalle nostre tane a
sgranchirci le membra, ad asciugare almeno un poco la roba, a goderci di questi
pochi sprazzi di sole che ci sono concessi. [...] Viene il rancio, ma se ne
deve sospendere, per il momento, la distribuzione, perché gli austriaci ci
hanno visti e ci bombardano. È da ventiquattro ore che non mangiamo. Mi accorgo
d'aver molta fame e, quando riesco con cautela a farmi riempire anch'io la
gavetta di brodo, v'inzuppo quasi mezza pagnotta e mangio con avidità e con
gusto. La divisione alla nostra sinistra è in pieno combattimento: monte Cosich
fuma tempestato di colpi. Anche il nostro settore promette poca calma. Difatti
gli austriaci, dopo una breve pausa che ci ha permesso di mangiare, riprendono
a tirare sulle nostre trincee. Il tenente Sampietro che stava sorvegliando la
distribuzione del rancio, è rimasto illeso per un vero miracolo: proprio sopra
la sua testa, a pochi centimetri, è scoppiato uno shrapnel ed egli s'è trovato
di qua dal cono, sotto un fiocco di fumo bianco; qualche centimetro più in là,
sarebbe stato crivellato dalle schegge. Così avviene spesso, e nessuno più se
ne meraviglia; io penso al limite così fragile e incerto che divide la morte
dalla vita. Sampietro s'è appena riparato, che s'ode, nel silenzio più pauroso,
arrivare un altro proiettile. Lo scoppio è tremendo; prima che si richiuda su
questo il tetro silenzio, una voce angosciosa scandisce nell'aria un appello
disperato: "por-ta-fe-ri-ti!". Giunge un terzo proiettile: questo è
proprio per me e per i miei vicini; la trincea trema, le schegge picchiano come
tempesta sulle tavole e sui sacchetti, polvere acre e terra m'investono e
m'entrano negli occhi e nel naso.
Stuparich - Guerra del '15 (Dal taccuino d'un
volontario), Garzanti, Milano 1940
Non si creda agli atti di valore dei soldati, non si dia
retta alle altre fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con
orgoglio, né con ardore; essi vanno al macello perché sono guidati e perché
temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio dei
briganti, lo strozzerei”.
(B.N. anni 25, soldato; condannato a 4 anni di reclusione
per lettera denigratoria,1916)
“Sono ritornato dalla più dura prova che abbia mai
sopportato: quattro giorni e quattro notti, 96 ore, le ultime due immerso nel
fango ghiacciato, sotto un terribile bombardamento, senza altro riparo che la
strettezza della trincea, che sembrava persino troppo ampia. I tedeschi non
attaccavano, naturalmente, sarebbe stato troppo stupido. Era molto più conveniente
effettuare una bella esercitazione a fuoco su di noi; risultato: sono arrivato
là con 175 uomini, sono ritornato con 34, parecchi quasi impazziti”.
Dal fronte occidentale, 1916
“Ma ancora un fatto le voglio raccontare: un giorno ci
hanno messo tutti in riga perché hanno detto che ci facevano la decimazione,
per via che molti erano disfattisti… “Soldati – ha gridato il colonnello –
sarete fucilati uno ogni dieci, se non dite i nomi di quei vigliacchi che fanno
i disfattisti, mettendo in grave pericolo la patria” e subito hanno
incominciato a contare, fuori uno ogni dieci. Però, neanche un soldato ha fatto
la spia e, alla fine, non hanno fucilato nessuno, avevano fatto solo per dare
un avvertimento; ma, a guardare, disfattisti eravamo tutti, perché in trincea
si sentivano solo lamentele, bestemmie contro il governo e contro i comandi,
ostie continue contro la guerra e quelli che l’avevano voluta..”
Paolo Caccia Dominioni, diario di guerra:
“La 4° (sezione lanciafiamme) ha al suo
attivo, tra gli altri, un famoso turno a Quota 126 del Vippacco. Andarono su in
settanta, e poi, chissà per quali strane successioni di passaggi da una
dipendenza all’altra vennero dimenticati. Dopo novantadue giorni di trincea, in
pieno inverno, si trovò chi poteva assumere la responsabilità di conceder loro
il riposo: e calarono giù i dieci superstiti, veri scheletri ricoperti di
fango, deboli macchine senza volontà…calarono giù, e dopo poco li rispedirono a
quota 89 di Monfalcone”
“…La pioggia continua snida dal terreno il puzzo
della vecchia orina; e in certi posti si è costretti a strisciare a terra,
mettendo le mani sopra ogni genere di roba, magari su qualche decomposto pezzo
di soldato.”
“La qualifica di trincea, sulla nostra destra, è un
po’ eccessiva: gli uomini hanno come tutto riparo un muretto di pietre
accostate alto un palmo e ci stanno dietro supini o stesi sul ventre. I fianchi
sono protetti da traverse perpendicolari, alte come il muretto. Muoversi di
giorno, una pazzia: e il cambio non si può fare che di notte”.
“Tiro di sbarramento su di noi. Grossi calibri piovono
fitti sul nostro povero sistema difensivo. Un enorme 420, inesploso, si è
coricato attraverso il camminamento. Ecco, stavolta non è possibile cavarsela,
questa è una grandinata feroce che distrugge tutto, solleva immense colonne di
terra, ferro, rocce, uomini. Se almeno questa orrenda agonia potesse finire
presto.”.
“Trincea! Abominevole carnaio di putredine e di feci, che
la terra si rifiuta di assorbire, che l’aria infuocato non riesce a dissolvere.
Lì tanfo di cadavere lo ingoiamo col caffè, col pane, col brodo”.
Scritta in trincea dal soldato Frederick W. Heath
"Come potevamo resistere dall’augurarci buon Natale, anche se subito dopo
ci saremmo di nuovo saltati alla gola? Così è cominciato un fitto dialogo con i
tedeschi, le mani sempre pronte sui fucili. Sangue e pace, odio e fratellanza:
il più strano paradosso della guerra. La notte si vestiva d’alba –
una notte allietata dai canti dei tedeschi, dal cinguettio degli ottavini e
risate e canti di Natale dalle nostre linee. Non è stato sparato un colpo,
eccetto giù alla nostra destra, dov’era al lavoro l’artiglieria francese."
Il regalo più bello
"Non c’era più smania di uccidere, ma solo il desiderio di un pugno di
semplici soldati (e nessuno è tanto semplice quanto un soldato) che nel giorno
di Natale, a ogni costo, si arrivasse a un cessate il fuoco. Ci siamo passati
sigarette e scambiati una quantità di piccoli oggetti. Abbiamo scritto i nostri
nomi e indirizzi sulle cartoline di servizio, per poi scambiarle con quelle dei
tedeschi. Abbiamo strappato i bottoni delle nostre giubbe e avuto in cambio
quelli dell’armata imperiale tedesca. Ma il regalo più bello è stato il pudding
di Natale. Al sol vederlo gli occhi dei tedeschi si sono spalancati in bramosa
meraviglia, e dopo il primo morso erano nostri amici per la vita. Se avessimo
avuto abbastanza pudding di Natale, ogni tedesco nelle trincee di fonte a noi
si sarebbe arreso."
L’assalto
“Se la trincea era dura, l’assalto era un incubo”: la
vita in trincea era dura, rischiosa ma, a confronto dell’assalto,
accettabile. Ti proponiamo alcune brevi considerazioni tratte dall'opera
"Isonzo 1917" di Mario Silvestri:
“Uscire dalla protezione della trincea e lanciarsi nel
vuoto, verso le armi che sputavano fuocosecondo uno schema studiato da mesi; la
sopravvivenza determinata da un fatto puramente statistico: il non
trovarsi sul percorso di una pallottola; una decimazione ripetuta tante volte, che
alla fine di una serie di attacchi solo un piccolo gruppo di superstiti si
guardava smarrito e terrorizzato: questo toccava il limite delle
possibilità di sopportazione dell’uomo normale.
Ogni volta che un essere umano era sottoposto ad una
simile prova, perdeva una parte della sua personalità, una parte della
capacità di intendere e di volere. Dopo un certo numero di queste
esperienze il giovane combattente era trasformato in un essere psichicamente
malato.
Si diedero casi di suicidio, per la paura di dover andare
all’assalto. La pazzia improvvisa era tutt’altro che infrequente."
“Non avevo mai visto tanta rovina”
Mamma carissima, pochi minuti prima di andare all’assalto
ti invio il mio pensiero affettuosissimo. Un fuoco infernale di artiglieria e di
bombarde sconvolge nel momento che ti scrivo tutto il terreno intorno a noi...
Non avevo
mai visto tanta rovina. È terribile, sembra che tutto debba essere inghiottito da un’immensa
fornace. Eppure, col tuo aiuto, coll’aiuto di Dio, da te fervidamente pregato, il mio
animo è sereno. Farò il mio dovere fino all’ultimo.