sabato 12 marzo 2016

Museo dell'immigrazione a Lampedusa








Attraverso una sua fondazione Benetton aveva mostrato interesse per il nostro percorso con gli oggetti, ma avevamo rifiutato la loro collaborazione,  poco tempo dopo, su Lampedusa, si sono attivati diversi fotografi di Fabbrica che fa capo sempre a Benetton. Hanno cominciato a fare diversi progetti su Lampedusa fotografando anche gli oggetti che noi abbiamo recuperato da anni.
Dinamiche molto complesse a Lampedusa per cui centinaia di giornalisti, attivisti, artisti e chi più ne ha più ne metta si riversano sull’isola e tutti passano da noi, e tutti hanno un progetto. E’ difficile a volte capire a chi fanno capo e gestire la situazione in modo corretto, molto spesso si commettono errori.
Le persone in alcuni casi, si ritrovano in certi meccanismi, anche in buona fede, per questo non abbiamo rancore nei confronti dei fotografi di Fabbrica, con alcuni siamo anche diventati amici. Il nostro “fare” è profondamente politico, anticapitalista e antimperialista. Siamo comunisti anarchici. Spesso ci siamo sentiti usati e inglobbati dal sistema, nostro malgrado e dobbiamo ammettere che questo ci capita ancora.
Ma ora studiamo anche come creare guasti. Ultimamente sono usciti un paio di servizi con i nostri oggetti per Fabbrica, con dinamiche che non stiamo qui a spiegare, abbiamo chiesto un link a questa pagina e da questa pagina vi chiediamo di
BOICOTTARE  BENETTON per le sue politiche di sfruttamento dei lavoratori e dei territori.
Inoltre pubblichiamo uno scritto indirizzato ad una dirigente di una fondazione di Benetton che doveva essere la risposta al NO per la collaborazione con una delle loro fondazioni, poi il No divento molto secco e asciutto. Oggi pubblichiamo lo scritto per l’occasione e di seguito una sintesi della nostra storia con gli oggetti dei migranti:
Buona lettura
Gentile……..
grazie per il Suo interessamento e per la Sua comunicazione. In merito alla possibile “proposta progettuale comune”, proposta di cui La ringraziamo, crediamo che non ci siano le premesse affinché una tale collaborazione possa svilupparsi.
Il progetto del Museo(Oggi PORTOM) è ancora in itinere e, consapevoli della sua ambiziosità, cerchiamo di definirlo giorno per giorno. Quella che cerchiamo però di tener ferma è l’autonomia che un tale percorso dovrà immancabilmente avere: autonomia finanziaria ed economica (cosa di certo non facile specie in tempi del genere) ma soprattutto autonomia politica. Consideriamo il fenomeno migratorio come qualcosa che va inserita nel più ampio scenario dell’economia capitalistica globalizzata. Rifiutiamo le concezioni pietistiche e umanitariste con cui troppo spesso i fenomeni migratori vengono rappresentati: rappresentazioni che costituiscono, con il loro effetto di dissimulazione emotiva, uno degli strumenti con cui le politiche migratorie degli ultimi anni sono state, nei fatti, portate avanti.
Si diceva dell’autonomia politica: autonomia politica significa non solo poter sostenere una posizione quale quella appena esposta, ma anche poter decidere con chi, conseguentemente, costruire percorsi comuni e condivisi. Non riteniamo, con tutto il rispetto, che la fondazione che Lei rappresenta possa dunque divenire un partner per il nostro percorso. Il legame con il Gruppo Benetton già da solo basterebbe a giustificare il nostro rifiuto. Si tratta infatti di una grande multinazionale dell’abbigliamento, grande proprietaria terriera in Argentina, a danno delle popolazioni Mapuche, coinvolta negli strutturali processi di esternalizzazione della produzione laddove il lavoro vivo è più docile e a basso costo. Le stragi come quelle di Dacca, in Bangladesh, sono solo le più evidenti manifestazioni, le più appariscenti e mediaticamente circolanti escrescenze, di uno sfruttamento e di una distruzione quotidiani, costanti, che giorno per giorno i grandi attori del capitalismo mondiale, come Benetton per l’appunto, perpetuano. Le grandi migrazioni di cui Lampedusa è teatro involontario e di cui il Museo vorrebbe essere testimonianza, si originano proprio dall’operato dei tanti Benetton che operano nel mondo. La stessa idea di “responsabilità sociale dell’impresa” riteniamo che sia una, senza dubbio fine ma ipocrita, politica culturale del capitale contemporaneo; con questa politica culturale, con il suo appeal gestito da adeguate strategie di marketing, si provano a legittimare le politiche di perdita di sovranità degli stati e il sempre maggiore ruolo egemonico dei gruppi privati multinazionali nella governance di intere società.
Le migrazioni massicce contemporanee riteniamo che siano innescate da cause quali il neo-colonialismo e l’imperialismo con le sue politiche belliche dissennate. Dunque, a partire dal definirsi degli equilibri di potere dominanti, grandi masse umane, private della possibilità di autodeterminarsi, sono costrette a diventare parte di un ingranaggio di marginalizzazione; divengono il nuovo esercito di manodopera di riserva, sfruttata, clandestina e ricattabile, funzionale alla deregolamentazione turboliberista del mondo del lavoro che, siamo certi, difficilmente troverebbe in Benetton Group o nella Fondazione Unhate dei possibili oppositori. Nuove subalternità migranti, allora, che si accostano a quelle più “classiche” o “stanziali” e che definiscono la nuova galassia dell’esclusione sociale globale del XXI secolo. I migranti insieme con i precari disoccupati, con i pescatori di Lampedusa senza più pesce per lo sfruttamento intensivo dei mari, insieme con i Mapuche in Argentina in lotta per le loro terre, senza dimenticare i lavoratori sfruttati dalle multinazionali che esternalizzano.  Secondo noi i migranti che passano da Lampedusa e che poi si avviano al loro sfruttamento in Europa, hanno più in comune con i Mapuche privati delle loro terre o con i lavoratori del Bangladesh, di quanto  possano avere con le fondazioni del capitalismo più o meno filantropico, con la sue reti di think tank  e di comunità epistemiche.
Per concludere, un’ultima precisazione che forse può essere utile a meglio chiarire la nostra posizione, ovviamente nel pieno e sacrosanto rispetto reciproco dei rispettivi percorsi. Tra gli obiettivi della Fondazione, oltre che nel suo stesso nome, compare il rifiuto dell’odio. Meritoria e difficilmente criticabile aspirazione, beninteso. Ma Le possiamo assicurare che in un bilancio di tanti anni di tragica e criminale “gestione” migratoria, difficilmente sarebbe possibile imputare alcune delle responsabilità politiche più evidenti a qualsivoglia sentimento di odio. Siamo infatti di fronte ad un dispositivo politico-economico lucido e pianificato, che una volta avviato gode di una inerzia e di una cogenza tali da rendere del tutto ininfluenti le convinzioni o le emozioni di quanti entrano a farvi parte. Solo un’alternativa politica può spezzare quell’inerzia, non certo un sentimento.
Il mondo potrebbe anche trabocccare d’amore, ma in presenza di dispositivi quali quelli che generano, gestiscono e capitalizzano le migrazioni, nulla verrebbe a modificarsi.
Del resto la rappresentazione main stream tracima di buoni sentimenti, di amore, di umanitaristico sdegno e  di commozione riguardo a quegli stessi migranti che, se non muoiono salvandosi così dalla macina dei buoni sentimenti post mortem, devono solo finire nel tritacarne oggettivo dello sfruttamento. Intendiamo dire che il rifiuto dell’odio, le professioni di amore e di umanitario imperativo morale, costituiscono già ora uno degli assi portanti del “discorso” e della rappresentazione dominanti del fenomeno. Assi che definiscono qualcosa di non molto diverso dal “fardello dell’uomo bianco” di kiplinghiana memoria.
Insomma sulle reali sorgenti delle attuali forme di “gestione” delle migrazioni, l’odio e la discriminazione c’entrano tanto quanto possono entrarci
nei dispositivi di sfruttamento della manodopera esternalizzata di una multinazionale come Benetton o come tante altre. Cioè praticamente nulla.
Ringraziandola per il Suo interessamento e per la cortese proposta La salutiamo cordialmente


qui il sito del museo

qui il sito di Askavusa

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